Il fatto risale al 28 marzo 2021: Nacer Bouhanni, Arkéa Samsic, durante la volata della Cholet-Pays de la Loire, compie un’evidente irregolarità stringendo Jake Stewart contro le transenne. La giuria lo squalifica e intanto l’opinione pubblica inizia a discutere la condotta dell’atleta francese. Si dice che non è la prima volta che Bouhanni si rende protagonista di volate così scorrette e si invitano gli organi competenti a prendere provvedimenti contro di lui. L’Unione Ciclistica Internazionale potrebbe intervenire proprio in questi giorni, sanzionandolo. Purtroppo però, nel frattempo, il dibattito è scaduto e al corridore sono stati rivolti pesanti insulti razzisti che nulla hanno a che vedere con la pur grave irregolarità commessa in volata. Il primo a parlare di questo fatto è stato proprio Jake Stewart: «Su molte cose si può essere più o meno d’accordo però, in questo mondo, non c’è posto per il razzismo. Lo dico chiaramente ai cosiddetti tifosi del ciclismo che hanno rivolto insulti simili a Bouhanni: non siete i benvenuti qui».
Nacer Bouhanni, dopo diverse notti difficili, ieri ha dichiarato di essersi affidato a dei legali e ha rilasciato un’intervista a “L’Équipe” raccontando la propria verità, facendo emergere un dolore che aveva sempre nascosto. «Mi sono costruito uno scudo per proteggermi da tutto questo. Nella vita di tutti i giorni non sono così, freddo, duro, come posso sembrare in corsa. Sono venticinque anni che sono nel ciclismo e da quando ero bambino affronto il razzismo in silenzio perché, quando se ne parla, sembra sempre di voler passare per vittime, ora non riesco proprio più a non dire nulla». Il corridore francese spiega che, sino ad oggi, non aveva mai voluto parlarne proprio per questo timore ma le domande che si è posto nel tempo sono molte. Nel suo racconto la parola razzismo è spesso sostituita da un giro di parole, il razzismo è “quella cosa lì”, quella che lo tormenta da troppo tempo. «Mi hanno detto di tornare in Africa, mi hanno dato del terrorista, sono arrivati a dire che dovrei essere estromesso dal ciclismo e che avrei fatto apposta a stringere Stewart contro le transenne. Pagherò ciò che devo pagare, ma questa è pura follia».
I messaggi di insulti sono aumentati drasticamente nell’ultimo periodo, le notifiche arrivano da ogni social e quando non giungono direttamente a lui, sono gli amici, involontariamente a mostrargliele. «Mi dicono: “Sai cosa ho letto? Guarda cosa dicono di te“. Ho dovuto chiedere di non dirmi più nulla, che non voglio sapere più nulla. Non sono una vittima, lo ripeto. Se fossero dieci, quindici messaggi, ci passerei sopra. Ora non è più possibile. Era già un periodo difficile, non ci voleva». Nacer Bouhanni è molto chiaro: gli episodi di razzismo di cui parla non avvengono in gruppo o nelle squadre in cui milita. «Direttamente, in gruppo, non è mai accaduto nulla, poi non so cosa pensino i miei colleghi. Fuori corsa, invece, ho ricevuto alcuni insulti razzisti e purtroppo da persone adulte, persone che dovrebbero sapere ciò che dicono. Fino a quando sono parole di bambini piccoli, scivolano via, dagli adulti le ferite sono maggiori. Sono nato in Francia e quando ho vinto il campionato nazionale ero felicissimo su quel podio, mentre risuonava la Marsigliese. Sono fiero per quei giorni, ma sono altrettanto orgoglioso del cognome che porto, di essere un francese di origini magrebine».
Nelle parole dell’atleta si percepisce un distacco dalla propria carriera e dai risultati ottenuti. «Quanto avrò vinto in tutto? Circa settanta gare? Restituisco ogni trofeo, non li voglio più, non mi porterò le vittorie nella tomba. A me interessa l’amore della mia famiglia. Porterò tutte le prove alla polizia, sporgerò denuncia, ma il male resta. Spero che la giustizia faccia qualcosa perché, altrimenti, vuol dire che chiunque può fare di tutto senza alcuna conseguenza. Vorrei liberarmi da questo peso che mi assilla»
Ancor più dal momento in cui Nacer, proprio per il ciclismo, ha discusso con il padre. «In famiglia, per proteggermi, hanno sempre evitato il discorso razzismo. Hanno fatto bene. Mio padre mi ha ripetuto di non farci caso, di essere fiero e di continuare per la mia strada. Me lo ha ripetuto anche quando gli ho raccontato come stavo, guardandolo dritto negli occhi e dicendogli che se continuerà così potrei anche lasciare il ciclismo. Anche quando ho detto al mio manager che non sarei partito per la Roue Tourangelle perché le mie condizioni psicologiche non me lo permettevano. Per questo ho discusso con mio padre, la persona che mi ha sempre protetto, che mi vuole bene, che mi ha aiutato a proseguire in questo mondo anche quando ero a terra. Un’ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso».
Roberto Bettini/BettiniPhoto©2021