Potremmo dire che la prestazione di Soraya Paladin, Canyon SRAM Racing, all’Amstel Gold Race di domenica 16 aprile, trovi le sue radici in un fatto tanto semplice e quotidiano, quanto complesso: la decisione. Sì, perché quel giorno la squadra aveva tutte le intenzioni di rendere dura, aspra, una gara già zeppa di difficoltà e resa ancor più angusta dalla pioggia, dal vento e dal freddo che rimbalzavano da una parte all’altra sulle salite, sugli strappi irti del Limburgo. Il punto è che Paladin, nella tattica originale, avrebbe dovuto aspettare il finale e giocarsela nell’eventuale sprint ristretto oppure, comunque, sull’ultimo Cauberg; in riunione, però, c’è la domanda che è il preludio di ogni decisione: «Vorrei movimentare la gara già dall’inizio, mettermi in gioco da subito, anche perché, sul finale, nonostante lo spunto veloce che posso avere, è tutto da dimostrare. Facciamo così?». Le hanno detto sì e lei non ha tardato a mettere in pratica l’idea.
«Mi piace correre in maniera aggressiva anche perché vivi proprio la gara, la senti. Aspettare, alcune volte, ti fa sembrare quasi affacciata ad una finestra a vedere la scena, invece, per come penso io al ciclismo, voglio crearla quella scena, esserne al centro. Provarci, almeno». In giorni così, la prima cosa a favore di Paladin è il suo rapporto con la pioggia, col brutto tempo: preferisce il sole, l’asciutto, ma si ritiene fortunata perché, anche quando piove, sa di riuscire lo stesso a giocarsi le proprie carte ed in gruppo, si sa, in molte, con le stesse condizioni, partono battute. Forte di questa consapevolezza, si getta nel primo tentativo di fuga.
Non è che in fuga ci si trovi, bisogna andarci ed è sempre uno sforzo, ma c’è modo e modo di farlo, convinzione e convinzione: «Che avevo le gambe, in quel momento, l’avevo già capito. Ma non pensavo che fosse quella la fuga decisiva, eravamo lontane. Però ho detto: “Vediamo, entriamoci e poi capiamo cosa succede”. In effetti ci hanno ripreso». Fatica e ancora fatica, ma già qualche giorno dopo, Paladin ci scherza sopra, in particolare quando le diciamo che dalle immagini televisive pareva quasi rilassata, quasi sorridente: «Magari lo fossi stata, magari!». La fatica è qualcosa con cui ha sempre convissuto, ma a cui, negli anni, ha dato significati e letture diversi: «Penso di aver capito che non bisogna pensarci. Mi spiego: il corpo sente il male, l’acido lattico, ma l’input per spegnere la lampadina non viene dal corpo, viene dalla mente. Appena pensi: “Che fatica”, quasi automaticamente, ti lasci andare. Non devi pensarci, è un dato di fatto. Lo accetti e vai avanti».
Soraya Paladin riparte, più volte. Fino a quando, nel finale, riesce a creare il varco, siamo pochi chilometri prima del Cauberg, in un tratto che, già nelle tornate precedenti, aveva adocchiato. Il gruppo la bracca, Grace Brown la insegue e la raggiunge: «La sfida è con te stessa, il gruppo non puoi bloccarlo e sai che tante atlete assieme, solitamente, sviluppano maggiore velocità». Tra le idee c’era anche un attacco finale proprio sul Cauberg, ma visto che il gruppo ha lasciato un poco di margine, si continua.
Paladin sempre fresca, molto fresca, sino a che, proprio all’imbocco del Cauberg, Brown sembra quasi staccarla. La sua è una mossa ben pensata: «All’imbocco della salita, si svolta e ci sono delle strisce pedonali. La vernice di quelle strisce, con la pioggia, fa scivolare. Ho scelto volutamente di rallentare all’ingresso, poi sapevo di dover spingere ancora più forte, ma la gamba diceva che era possibile». Si dice che il Cauberg sia una salita all’aroma di birra, al profumo di birra, ma Soraya Paladin ha una sua versione: «Non è il profumo di birra quello che annusiamo, è il profumo di vittoria. Visto che sul podio danno un calice di birra, è automatico collegarlo. Devo dire che una bella birra trappista, in quel momento, non l’avrei rifiutata. Anzi».
Il gruppo ritorna, Paladin inizia a zigzagare, viene ripresa e iniziano le manovre per il finale, con Vollering che anticipa tutte e va a vincere. Anche rispetto a questo momento, quello in cui il gruppo riprende i fuggitivi, la visione di Paladin è cambiata nel tempo: «Ovviamente la delusione c’è, il rischio, però, è quello di buttare via tutto ciò che si è fatto. A me l’ha insegnato un mental coach: il problema è dove si focalizza l’attenzione, perché qualcosa di positivo c’è sempre e, se non c’è, si può cercare. In quel momento l’ho cercato: dopo una giornata così, minimo dovevo fare la volata».
E le forze? Sono nella testa. Paladin ritiene che, a quel punto, il 70% sia un fatto mentale e solo il 30% un fatto fisico. Arriva un quinto posto, un altro quinto posto in questa gara: «Il cinque potrebbe essere il mio numero, no?» ironizza Soraya, prima di tornare a parlare della sua condizione: «La forma è buona, non dico nulla, ma, se resta così, si possono fare ottime cose, nelle prossime gare. La Sd-Worx, al momento, ha qualcosa in più, ma arriviamo anche noi. Arriviamo presto». C’è soddisfazione in squadra per il tipo di corsa fatta e c’è soddisfazione anche in Soraya Paladin che, tra le consapevolezze che porta via dall’Amstel, ne ha una in particolare.
«Avere coraggio ripaga sempre. Fare, invece, di aspettare ripaga sempre. Magari non immediatamente, non nei risultati, ma, quando hai coraggio, quando sai di aver avuto coraggio, sei soddisfatta di te, sei felice».
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