Michael Woods da ragazzo correva a piedi, non è nato sportivamente nel ciclismo e forse proprio questo gli ha sempre reso evidenti problemi che a occhi abituati all’ambiente possono sfuggire. Il canadese dell’Israel Start-Up Nation si chiede da tempo se davvero non si possa far nulla per ridurre l’inquinamento che il ciclismo professionistico genera. «Sono sempre stato disilluso su questo tema, sono sincero. Ogni anno riceviamo tanti prodotti dagli sponsor, tutti imballati nella plastica: bisogna cambiare» ha detto a Procycling. Woods ha deciso che si presenterà sul bus della sua squadra con una scodella e una forchetta e i suoi pranzi li farà così. Qualche giovane lo stimerà, altri lo prenderanno in giro, a lui non interessa. Chi vuole cambiare deve avere il coraggio di disinteressarsi di queste cose. La squadra gli ha assicurato che anche i veicoli cambieranno: due saranno elettrici, i restanti ibridi plug-in.
L’idea è quella di ridurre l’impatto che ogni uomo ha sull’ambiente. Woods è un ciclista e può cercare di cambiare il ciclismo, ad altri, ognuno nella propria professione, il tentativo di portare avanti questa idea. Nessuno può cambiare da solo la situazione globale, ognuno, però, può cambiare la propria e non è poco. Secondo il suo calcolo, nel 2019, la sua impronta a livello di carbonio è stata di 60 tonnellate di CO2 , circa tre volte quella di una persona media ad Andorra. «Quando sei completamente concentrato sulla tua attività è difficile rendersene conto, lo capisco bene. Da quando sono diventato padre, però, la mia consapevolezza dell’ambiente è cresciuta. Tutti dovremmo rifletterci perché ridurre il proprio impatto ambientale dovrebbe rientrare nella normalità delle cose, non rappresentare un gesto straordinario».
Con il ciclismo Woods ha ragionato in maniera diversa, rispetto a quanto aveva fatto da ragazzo con la corsa. Da ragazzino si era dedicato anima e corpo al mezzofondo, per migliorare e tentare di entrare nell’Olimpo dei più forti, una ‘ossessione’ che aveva finito per logorarlo fisicamente, procurandogli due fratture da sovraccarico al piede sinistro, che lo avevano costretto a cambiare sport. Col ciclismo ha sempre ragionato diversamente. A trentacinque anni, dopo otto anni di professionismo, si è domandato se nella sua carriera avrebbe potuto ottenere di più; forse sì o forse sarebbe scoppiato e, come con la corsa, avrebbe dovuto abbandonare il ciclismo. «Non siamo tutti Michael Jordan. Lui era il migliore, un fenomeno. Pensava solo al basket, viveva per il basket. C’è chi è capace di vivere così e chi ha bisogno di un altro approccio. Non c’è nulla di male» ha raccontato, più di una volta. Ci saranno un paio di gare in meno nel suo palmarès ma è felice e questo gli basta. Con quella serenità, vorrebbe stare in gruppo almeno altri tre anni. Nel frattempo, la sua famiglia continuerà a viaggiare con lui, a imparare le lingue, a vedere il mondo e quindi a conoscerlo.
In fondo, è sempre questione di conoscenza per la propria carriera come per l’ambiente. Michael Woods stesso non sapeva molte cose, era convinto di avere uno stile di vita buono, si sentiva tranquillo con la sua coscienza. Poi ha capito che si poteva migliorare e che, in fondo, non serviva neanche molto: mangiare meno carne, fare attenzione ai rifiuti, comprare prodotti locali e magari andare ad acquistarli in bicicletta. Perché, tra le tante cose, questa è da conoscere assolutamente: il mondo si cambia solo passo dopo passo.