Aulst conosce tutti e tutti conoscono Aulst, ad Innsbruck. Sotto i portici della città, seduto su una coperta a pochi metri dal Tettuccio d’Oro, si accarezza la barba, imbiancata dal tempo e arricciata dall’ultima pioggia. Cinquant’anni circa, qualche schiaffo dalla vita e poche parole, dense. «Mi sono rimasti solo gli amici. E sapete come sono bravi i miei amici?» dice mentre mostra un sacchetto stropicciato con all’interno un pezzo di focaccia. Fuori il tempo si imbizzarrisce, lui prende il cappello dalla tasca della giacca e se lo infila. Il suo tetto sono questi portici, oggi più silenziosi che mai. «Un giorno, forse, qualcuno mi regalerà una bicicletta nuova, sarebbe bello. Con una bicicletta si può andare via». Dice così Aulst, proprio mentre le biciclette se ne vanno, e mangia un altro boccone. Pensieroso.

Gianni Moscon, forse, vorrebbe raccontargli qualcosa. Qualcosa che ha a che vedere con la fatica che si fa per andarsene, in fuga, in un’altra città o in un’altra casa, anche se andarsene è tutto ciò che si vuole. Qualcosa che ha imparato da Cioni: «Io volevo fare troppo e, quando esageri, non ti alleni, ti sfinisci. Ti stravolgi. Bisogna anche respirare, darsi tempo». Perché non basta una bicicletta per andare via, ovunque si vada: il peso più grande è il tuo, il tuo corpo, la tua carne, quello che sei. Forse è per questo che i ciclisti nei momenti di maggiore sforzo si alzano sui pedali, quasi a volersi scrollare il peso di dosso. Così fanno  Thompson, Janse Van Rensburg, Bais, Vacek, Hulgaard ed Engelhardt quando scattano.

La strada è tutta all’insù. Il sudore che si affaccia sui volti degli atleti non ha tempo di cadere a terra, scivola lungo il viso, sulla gola e si infila a goccioloni nella casacca. Freddo come l’aria che vortica tra le Alpi Venoste. Bais e Thompson non si voltano neppure quando, durante la seconda ascesa al Piller Sattel, il gruppo rinviene su di loro, guardano il vuoto e storpiano la bocca. Il plotone in certi casi lo senti, non lo vedi, ed è meglio così. Nairo Quintana li lascia sfilare, quasi un ultimo atto di pietà, poi attacca. Occhi fissi nei pochi metri che seguono, alla maniera degli scalatori, alla maniera di quelli che non hanno paura delle pendenze, che non guardano mai il tornante successivo.

Alcuni raccontano che nei momenti prima di una crisi ti senti in grado di spaccare il mondo, sei euforico, poi ti cedono le gambe e ti stacchi. Se non sei lucido, crolli verticalmente, Quintana limita i danni, ma ha innescato l’ingranaggio ed è nella sua morsa. Pavel Sivakov e Dani Martinez rilanciano, uno scatto dopo l’altro, lo controllano e aspettano che reagisca. Una ragnatela di finte e bugie, come il ragno che tesse ogni filo e si apposta nell’angolo migliore per controllare il moscerino mentre si dibatte senza speranze.

Cosa avrà pensato il colombiano? Quante alternative e quante possibilità avrà stracciato come fogli scarabocchiati? Simon Yates, invece, è il ragno. Lucido, attento, concentrato. Osserva silenzioso le mosse degli avversari, lascia che sfoghino ogni pretesa, ogni rabbia repressa, ogni fantasia. Poi parte, scatta come freccia scoccata dall’arco. Salita, discesa e ancora salita verso Feichten im Kaunertal.

Yates che, nella sua carriera, è andato più volte da solo in testa al gruppo, ma qualche volta è anche rimasto solitario in coda. Pure quando non lo avrebbe mai immaginato, per esempio, al Giro d’Italia 2018, dopo che aveva detto di non avere paura, che sullo Jafferau avrebbe avuto rispetto per tutti e timore per nessuno. Poi era arrivato a mezz’ora da Froome, sfinito ma composto nella sofferenza, mentre con le braccia tremanti si asciugava il volto. Forse il giorno prima aveva mentito ai giornalisti, forse già seduto su quella sedia, in conferenza stampa, sentiva i muscoli tirare e i nervi stanchi, forse non poteva fare altro, come Quintana oggi. «Credo sia duro da accettare- aveva dichiarato- in fondo, però, è solo una corsa in bicicletta». Così quel giorno aveva provato a dare il giusto peso a quella bicicletta che sembrava incastrata nel catrame e a ciò che aveva dentro. Allo stesso modo ha vinto qui, con una bicicletta per andarsene e tutta la leggerezza che serve per riuscire a guidarla.

Chissà se qualcuno regalerà una bicicletta a Aulst, a quest’ora ancora sotto quei portici, appoggiato ad una colonna di cemento e allo zaino. Chissà soprattutto se Aulst, quel giorno, sarà così felice da poter ripartire.

Foto: Dario Belingheri/BettiniPhoto©2021