«Alle scuole medie, a Tolfa, eravamo dieci ragazzi e sette ragazze. Al sabato i ragazzi andavano a giocare a pallone e io restavo in classe con le ragazze. Mi prendevano in giro ma non mi interessava: a me non piaceva giocare a calcio, perché avrei dovuto giocarci solo per conformarmi? Preferisco essere controcorrente». Luigi Sestili racconta questo aneddoto per parlare del suo modo di essere, un’indole che permea ogni scelta. E allora va bene correre in bicicletta ma bisogna anche studiare: da qui l’iscrizione a ingegneria. Va bene essere professionista ma serve anche essere professionali: «ho trovato maggiore professionalità in alcune squadre del dilettantismo che del professionismo; che senso aveva continuare se poi comunque non sarei mai potuto arrivare dove volevo?» Va bene avere uno stipendio e una sicurezza economica ma non è l’unica cosa a contare. «Quando ho smesso di correre ho provato una forte amarezza, la prima sensazione è stata quella. Una sorta di dolore. Successivamente ho capito che avrei dovuto fare qualcosa per riscrivere la mia storia. Non lo avessi fatto, sarei finito in depressione. Credo che atleti si resti: non ho mai smesso di andare in bicicletta e le migliori idee per il mio lavoro sono arrivate proprio mentre pedalavo. Ho pensato che il racconto del ciclismo passa dalle storie di tutti gli atleti. Del primo parlano tutti, ma del secondo? Del momento in cui si accorge di essere secondo? Di tutti gli altri? Nel ciclismo provo a portare un approccio filosofico alla fotografia. Forse anche per questo, al termine del mio primo Giro d’Italia si era diffusa quella voce: “Lui è quello che fa le foto strane”. Un orgoglio per me».

C’è il ricordo di quegli anni in bici che ancora oggi provoca una lieve malinconia: «Ho seriamente creduto che il ciclismo potesse essere il mio lavoro: da dilettante ho vinto diverse gare. Da ragazzino mi addormentavo con Bicisport nel letto, sognando di finire su quelle pagine, e quando ho vinto il Prestigio Bicisport ero la persona più felice del mondo. Ho sempre creduto nella consapevolezza e al mio passaggio tra i professionisti ho capito che, nelle squadre in cui militavo, non c’erano le prospettive per correre le migliori gare, per essere alla pari con i più forti ciclisti del mondo, non c’era la professionalità richiesta. Sono stato lasciato a casa e, mentre aspettavo di essere contattato da un altro team, ho ripreso l’università, studiando Scienze Motorie. Un periodo davvero brutto. Più capivo che le possibilità di tornare a correre si assottigliavano, più il mio umore scendeva. Sono stato a un passo dalla depressione. Mi ha salvato un caro amico, l’ingegner Simonetti. Mi propose di raccontare su una sorta di blog ante litteram i miei allenamenti con foto e video. Non avevo gli strumenti adeguati e qualitativamente quelle foto erano davvero scarse però erano un modo per evadere. Per ritrovare un posto nel mondo. Ero davvero perso, non sapevo come indirizzare la mia vita».

Qualcuno lo nota, è Tony Lo Schiavo di Bicisport: «Mi propose di collaborare con la compagnia editoriale e per farlo fissammo un appuntamento con il direttore. Fu un colloquio davvero significativo. Appena mi sedetti, la domanda chiave: “cosa vuoi fare nel tuo futuro?” Dissi che non sapevo, che, forse, terminati gli studi avrei optato per l’apertura di un centro medico assieme a mia sorella. Feci capire di avere poche idee ed anche abbastanza confuse. Da lì quella sua risposta: “Scusa, allora cosa sei qui a fare? Se non ti interessa lavorare con noi, perché ti sei presentato oggi?” Fu una scossa di cui avevo bisogno. Decisi che avrei lasciato il ciclismo e mi sarei messo a scrivere, a raccontarlo. Grazie a quei colleghi avevo l’opportunità che cercavo. Ho imparato tanto e, per diversi mesi, ho anche pensato di essermi messo alle spalle quel passato ingombrante. Tutto crollò un pomeriggio».
Ilario Biondi e Claudio Minardi, fotografi della rivista, lo accompagnano nella sala fotografi e, pensando di fare cosa gradita, gli mostrano l’archivio fotografico che lo riguarda: «Vidi tre, quattro foto. Poi scappai con le lacrime agli occhi. Non riuscivo ad accettare quelle foto che mi ritraevano in sella. Il mio passato era ancora lì, tutto ciò che avevo fatto per superarlo non era servito a nulla. Tutto questo mi fece riflettere: ero arrivato ad avere un contratto a tempo indeterminato ed uno stipendio di tutto rispetto. Quella reazione significava, però, che non ero apposto con me stesso. Avevo avuto diverse idee che avrei voluto provare a sviluppare e le avevo proposte in redazione: non ne accettarono una. Ci rimasi male. Non dormii qualche notte e poi capii. Volevo avere la libertà di sviluppare la mia professione in maniera libera ed innovativa, quella era la via. A Bicisport non potevo farlo, dovevo rischiare. Presentai una lettera di dimissioni e mi licenziai».

Una sfida ma Sestili non teme le sfide. «Il mio direttore sportivo è stato Olivano Locatelli. Un sergente di ferro. Locatelli gridava, ci strigliava, non sempre per colpe nostre. Io gli ho sempre tenuto testa, ho sempre detto chiaramente il mio pensiero anche quando sarebbe convenuto tacere. Ho subito aspri rimproveri e sono andato in fuga, vincendo, per dimostrare il contrario. Sono così, in bicicletta come con una macchina fotografica al collo. Prendersi dei rischi vuol anche dire darsi delle possibilità. Mi sono iscritto a un corso di fotografia, ben sapendo che da solo sarebbe stato tutto più difficile. Provare a competere con le agenzie è difficile, pressoché impossibile. Se vuoi lavorare devi fare qualcosa di diverso. Devi dimostrare che qualcosa di diverso può essere fatto. Io faccio foto degli arrivi dove non le fa nessuno, di spalle. Al podio, non mi concentro sulla premiazione ma sul volto dell’atleta. In quel volto, finalmente solo, si condensa tutto. Il palco lo fotografano tutti, che senso ha? Ogni gara è una sfida, una prova, un test. Anche un rischio. Se sei solo e sbagli foto rischi di non avere il prodotto che dovresti vendere. Non è facile come dirlo. Ma è una grande soddisfazione. Le aziende mi cercano per questo, per questa vena narrativa. Per il mio intento: raccontare ogni piccola sfumatura del ciclismo. Penso ogni minuto a come fare una foto, programmo e invento. Vedrete qualche novità già al prossimo Giro d’Italia. Mi sento vivo».

Vivo e sicuro perché al suo fianco c’è papà: «Ho un ottimo rapporto con i miei genitori. Papà è speciale, è un amico. Lui sa tutto di me e non potrebbe essere altrimenti. Lui c’è sempre stato, è sempre stato dalla mia parte. Con discrezione e delicatezza, mi ha lasciato prendere la mia strada anche quando non la condivideva. Ogni sua critica è stata costruttiva. Se sono l’uomo che sono lo devo a lui. A tutti i pomeriggi in cui mi portava agli allenamenti pur essendo impegnatissimo con il lavoro, a tutte le nostre chiacchierate in auto ma anche al nostro modo di capirci senza parlare. Quest’anno temevo che la situazione attuale non ci consentisse di essere assieme in corsa. Quando ho saputo che anche lui potrà essere al Giro con me, mi sono emozionato».
Poi ci sono le parole per gli altri, quelle che Luigi Sestili indirizza a ogni ragazzo: «Siate consapevoli delle vostre capacità e di ciò che volete diventare. Disegnate la vostra strada, ascoltate i consigli di tutti ma date retta a quelle poche persone che davvero vi vogliono bene. E se siete convinti di qualcosa, andate fino in fondo. La gente, spesso, parla a vuoto. Voi credeteci e lottate per i vostri ideali mettendoci sempre la faccia».