Il Poggio è luminoso. Ci si arriva dopo aver scollinato la Cipressa, dolce salita che si arrampica transitando per il comune di Costarainera, nella provincia di Imperia. Dalla discesa all’imbocco del Poggio c’è un lungo tratto pianeggiante a tratti esposto al mare e al vento che scongiura gli attacchi, ammazza le velleità degli attaccanti, siano essi solitari o in gruppetto, e permette alle squadre dei favoriti di riorganizzarsi.
Il Poggio lo imbocchi a una velocità supersonica. I colori sono accesi, le gambe dei corridori provano a ignorare i quasi trecento chilometri percorsi, la carreggiata è larga quanto basta, la distanza dal traguardo di Sanremo misura poco più di diecimila metri. Ti lasci la via Aurelia e Arma di Taggia alle spalle e alla sinistra il Mar Ligure che ti osserva con il suo blu e il suo Santuario dei Cetacei; dopo qualche centinaia di metri di salita trovi invece il Santuario di Nostra Signora della Guardia, luogo simbolo di questa zona e tanto caro ai marinai che lasciavano doni chiedendo protezione per i loro viaggi affinché la Madonna scongiurasse un mare in tempesta o un attacco di pirati. La strada qui spiana dopo aver percorso a tutta i primi tornanti del Poggio e le gambe sono già a pezzi.
Se ti affacci verso sinistra il mar ligure è uno specchio che ti acceca e in fondo, in mezzo alle case, vedi Sanremo.
Gli ultimi dieci chilometri di questa corsa, una volta imboccata la salita – che a farla normalmente sembra essere poco più di un cavalcavia – sono un mare in tempesta. La rampa con vista Sanremo è fatta apposta per invogliare attacchi. È come un’onda capace di scagliarsi con veemenza contro le rocce e di infrangere le residue energie di molti velocisti.
Il Poggio è uno spartiacque. Divide i buoni dai cattivi, i campioni dai mestieranti. È un neo appena accennato su una pelle perfetta che trasforma la Milano-Sanremo, dopo ore spesso passate a sbadigliare, nel quarto d’ora finale più folle dell’intera stagione ciclistica.
Il Poggio è eccitazione, è uno shaker con dentro sogni, ambizioni, cuore, polmoni, fegato, gambe, sotto una pennellata di azzurro che acuisce i contorni. Sono quasi quattromila metri che spingono verso l’alto, ma non troppo; una decina di curve in totale, quattro tornanti secchi nei quali arrivi a una velocità così elevata che sei costretto a frenare, e rilanciare. È uno zuccherino che potrebbe rimanerti sullo stomaco. Se ti affacci verso destra vedi serre e villette moderne; il mare è esattamente dall’altra parte. In queste zone si continua a coltivare un prezioso vermentino che rinfresca la gola dei suoi abitanti, mentre uliveti e palme stanno via via sparendo per fare spazio alla floricoltura.
Nelle giornate di grazia, dalla cima del Poggio puoi scorgere la Riviera genovese da una parte e quella francese dall’altra, come fossero a tiro. Una volta scollinato oltre alla cabina telefonica, la strada svolta bruscamente a sinistra e si lancia in un cavatappi in discesa formato da ventitré curve e sette tornanti da percorrere a folle velocità e dove si può pensare di resistere al ritorno del gruppo o addirittura dove fare ancora più differenza.
Si racconta che nel 1992 Sean Kelly arrivasse giù dal Poggio così velocemente da toccare con il gomito il muro a ogni tornante come un motociclista ad Assen. Lui ha sempre negato: «Argentin mi staccò sul Poggio, io scollinai poco dietro: si raccontano molte storie su quella discesa, è vero che andavo forte, ma non stavo toccando il muro, era il rumore delle mie ruote sull’asfalto». Raggiunse Argentin a un chilometro dal traguardo e vinse, a quasi 36 anni, l’ultima delle sue nove Monumento.
Non c’è un posto designato dove attaccare sul Poggio, se dal gruppo si fa andatura forte e regolare, si fa fatica ad evadere. Per sorprendere o creare margine devi avere gambe farcite, fortuna, tempismo e volontà d’acciaio. Nel 2018 Nibali si inventò un attacco che oramai è storia, mantenne in discesa quel vantaggio, resistette al ritorno del gruppo con Trentin partito come una pallottola e poi risucchiato, e con il piccolo Caleb Ewan, secondo, che vinse la volata di gruppo appena in tempo per entrare nelle foto celebrative.
L’anno prima ci fu un brutale attacco di Peter Sagan al quale risposero Kwiatkowski e Alaphilippe che si accodarono in discesa. Il polacco beffò poi Sagan sul traguardo. Spesso, a seguito della bagarre, il gruppo arriva in cima sfilacciato e allora la discesa e poi il finale possono premiare i migliori finisseur del gruppo: è il caso di Cancellara che qui vinse nel 2008, dopo aver allungato il gruppo nella picchiata verso il traguardo attaccò a due chilometri dalla fine e vinse. «Guardi la cartina è non sembra difficile, è piatta, poi su e giù, Semplice, no? E invece…»
E invece alla fine arriva il Poggio, dopo quasi trecento chilometri, luminoso come una giornata di fine marzo, inserito nel 1960 per indurire la corsa e diventato simbolo di quello definito il Mondiale di Primavera; luminoso anche quando nel 2013 una bufera di neve investe la corsa e solo a portarla a termine i corridori ne sarebbero andati fieri. Lui resta sempre in alto a osservare, con il suo profilo un po’ altezzoso e costellato di giardini in fiore, il traguardo perso in mezzo a quelle case in fondo, nell’abitato di Sanremo.