Eravamo in apnea, abbiamo respirato forte, profondamente, siamo tornati in apnea e quel respiro, catturato e fatto proprio, nascosto nel torace, ci è bastato per vedere come andava a finire. Sono trascorsi quattro chilometri, tre uomini, fra i tanti, Filippo Ganna, Simone Consonni e Jonathan Milan: il resto è storia. La strada è vicina al mare e, solo qualche istante fa, tra le gallerie, le rocce, il blu e la vegetazione, la mente era tornata a Sanremo, alla Milano-Sanremo, regno di tutto ciò che ha a che vedere con la velocità e pure con la fantasia. Avremmo potuto essere ancora al primo giorno di primavera, il ciclismo è una macchina del tempo.

A Cosseria, in provincia di Savona, sul percorso, al Museo delle Biciclette, c’è l’eco di quella frase che un signore di nome Luciano Berruti diceva spesso, mentre sistemava la sua bicicletta, antica, rovinata, per cui aveva un’attenzione particolare ed il fatto che fosse “vecchia”, del 1907 per la precisione, di più di cent’anni, accresceva solo la cura necessaria per starle vicino: «Non so, forse avrei dovuto nascere in un’altra epoca, in un altro tempo, invece sono nato in questo mondo e qui ho fatto le mie cose». Era un ragazzo vispo “il Berruti”, raccontano che, ogni tanto, andava a scuola nascondendo una biscia in tasca oppure sotto il banco, catturata nella natura: i compagni lo vedevano, gridavano e la maestra lo rimproverava, magari lo spediva a casa, mentre sua madre non sapeva più cosa fare. Era, poi, un anziano signore con lunghi baffi, a fare da cornice ad una bocca che scandiva lentamente racconti che ti saresti fermato ad ascoltare solo per sapere come andava a finire. Perché il finale vogliamo saperlo.

Eravamo in attesa, a quattromila metri dall’arrivo, quando Filippo Ganna ha squarciato un cielo già pieno di domande e di fremiti, quelli che precedono il caos di qualunque volata: se ne è andato, in un’armonia perfetta con quello che aveva attorno. Perché Filippo Ganna in bicicletta sta bene, da qualunque prospettiva lo si guardi, dall’alto di un elicottero delle riprese, da una telecamera fissa, in un’inquadratura rubata, al volo, dietro una colonna di una galleria. Il Capo Mele è stata l’occasione per uno sforzo assoluto: altri hanno provato a seguirlo, qualche metro e sono “rimbalzati”, accolti dalla stessa pancia del gruppo da cui cercavano di fuggire. Per dire di cosa sia un’azione del genere, per dire di quel che serve a stare da soli, al vento, pancia a terra, mentre dietro è tutto un rumore, una rincorsa senza tregua. Berruti si innamorò così delle biciclette; sentendo il loro suono, persino lo stridere dei freni, l’odore di bruciato che rilasciavano, su quelle vecchie bici: avrebbe capito. Sì, ma quando il gruppo insegue è tutta un’altra storia. Circa 3500 metri così. Poi la fine, a circa 500 metri dal traguardo. Non è strano il suo sguardo amaro, non è strano quel continuo guardarsi attorno, mentre parla: la delusione si manda via anche così dagli occhi, quasi potesse tornare indietro e scendere da qualche parte, in gola, nello stomaco e poi via. Invece no, deglutire non vale contro il rammarico. Respiro profondo, boccata d’ossigeno e ancora apnea.

I baffi sono quelli di Simone Consonni. Scherzerà: «Ad un certo punto, non sapevo più se tirare per Milan, oppure non tirare per Ganna. Mi hanno messo in mezzo». Si dice “lanciare la volata” e non sappiamo chi sia stato il primo a coniare questo termine, ma pare perfetto: quasi fosse un lancio nello spazio, in un’altra dimensione, su una navicella con cui bisogna avere una conoscenza totale. Jonathan Milan è l’astronauta, in questo caso. Lui che “maltratta” la bicicletta tanto la porta al limite massimo: dall’alto pare una danza nervosa, in cui tutto trema, a ritmo variabile, ma in un crescendo incessante. Fino all’arrivo, ai pugni che si stringono, ai muscoli che si gonfiano nel gesto della felicità, alla voce che si libera ed al petto che si espande. Dopo il secondo posto di ieri, la vittoria era accanto al mare di Andora. Ganna, Milan e Consonni: Tokyo, un velodromo, una pista, i Giochi Olimpici, l’estate che ballava nei campi e la gioia. La macchina del tempo è già tornata indietro, come ogni giorno, ad ogni Giro d’Italia.

Pare che, in spagnolo, il mare diventi “la mar”, quando lo si ama, gli si vuole bene, si ricordano i favori che ha fatto e gli si perdona tutto il resto, i torti e qualche cattiveria, magari nascondendoli dietro una scusa: le bizze della luna che farebbe girare la testa a chiunque. Il vecchio de “Il vecchio e il mare” di Ernest Hemingway aveva questa teoria e stasera noi ci sentiamo d’accordo con lui. Per qualcuno sarà “la mar”, per altri solo il mare, un rivale, un nemico. Qualcuno canterà una canzone, anche Luciano Berruti lo faceva, “ma dove vai, bellezza in bicicletta”, così più o meno, altri tireranno le tende di una camera d’albergo, come le coperte su di un letto, tanto fuori resta solo la notte e domani è un altro giorno.

Foto: SprintCyclingAgency