Pioviggina nelle Langhe. Siamo appena usciti dalla serata più piacevole che si possa fare al Giro d’Italia: in un agriturismo in collina, uno di quelli con le camere grandi e rustiche, dove ti preparano cibo fatto in casa sul momento, e per un attimo smetti di pensare pure a Girmay e Merlier.

Il luogo preciso in cui abbiamo alloggiato si chiama Santo Stefano Belbo, neanche 4.000 abitanti in provincia di Cuneo. Non è famoso se non per i vini e per aver dato i natali a Cesare Pavese: comunque mica male. Sfruttando una tappa logisticamente complicata, con la squadra di Gironimo – il podcast di alvento dalle strade del Giro – abbiamo deciso di fare una sosta alla Fondazione Cesare Pavese. Qui abbiamo incontrato Silvia, che ci ha segnalato qualche riga ciclo-letteraria. Si possono leggere in “Feria d’agosto”, il racconto è “Il campo di granturco”, e ha un incipit meraviglioso.

«Il giorno che mi fermai ai piedi di un campo di granturco e ascoltai il fruscìo dei lunghi steli secchi mossi nell’aria, ricordai qualcosa che da tempo avevo dimenticato. Dietro il campo, una terra in salita, c’era il cielo vuoto. “Quest’è un luogo da ritornarci”, dissi, e scappai quasi subito, sulla bicicletta, come se dovessi portare la notizia a qualcuno che stesse lontano. Ero io che stavo lontano».

Ogni tanto il Giro d’Italia ti fa sentire così. È talmente travolgente, la volata di Jonathan Milan è stata così potente, che porta tutto quanto con sé. Comprese le anime di chi lo segue. Oggi ho deciso di no, voglio tornare un po’ in me. Mentre Marta guida il furgone in direzione Andora, lungo una riviera assolata, guardo fuori dal finestrino e leggo pagine a caso di “La luna e i falò”.

Per una volta, mi forzo a non lavorare. Leggo senza cercare paragoni col Giro, senza pensare a possibili punti di contatto. Leggo e basta. Torneremo a parlare di ciclismo domani: oggi ero io che stavo lontano.