C’è una ragazza accanto a un meccanico intento a pulire con uno straccio un tubolare. Chiede: «Per caso vi serve qualcuno che vi dia una mano? Verrei volentieri con voi. Anche solo per lavare le biciclette, anche gratis». Succede così, quando arriva il Giro d’Italia tutti vorrebbero partire. Anche qui, anche a Torino. Giorgio ci dice che a casa ha un camper, guasto, e quest’anno avrebbe voluto sistemarlo per seguire tutta la corsa da lì, ma da qualche mese è in cassa integrazione e non può permetterselo. «Le cronometro non mi sono mai piaciute: troppo statiche, noiose. Figuriamoci una cronometro che passa sotto casa. Questa volta è diverso: non avendo la possibilità di viaggiare è la prova migliore. Ti metti a bordo strada e vedi quanti corridori vuoi».
Qualcuno sposta un vaso da davanti casa e porta fuori una sedia e un tavolino di plastica bianca. «Maria» chiama a gran voce e poi borbotta qualcosa in dialetto piemontese. Sì, oggi cercate quella sedia e quel tavolo perché quel signore si apposterà lì a vedere i corridori. Se ci fate caso noterete anche un portacenere perché qualche secondo dopo è Maria a borbottare: «Un’altra sigaretta? Non mi ascolti proprio».
La corsa partirà a pochi metri da qui. Se ne sentono i rumori: pedali che frullano, ruote che girano, porte di ammiraglie che si aprono e si chiudono, ed ancora voci di corridori e meccanici seduti a un tavolino con qualche lattina di aranciata. Per Filippo Ganna è una parlata familiare, conosce inflessioni e modi dire. Sa che qui non può proprio mentire: «Non si può andare sempre veloci. Ci si deve provare, ma non è detto che ci si riesca» spiega a chi gli chiede se oggi sia il favorito. Egan Bernal pensa a casa, da qualche giorno ormai. «Mi fa male quello che sta accadendo in Colombia. Vorrei poter essere lì e sostenere la mia famiglia, il mio popolo». Non può, non c’è tempo.
Perché di questo si parla oggi, del tempo. La cronometro è l’esasperazione di questo concetto, come il ciclismo, perché in bicicletta le classifiche si fanno col tempo, sul tempo. Il punto è che nella quotidianità è tutto diverso. Giorgio ce lo ha detto: “In bicicletta puoi perdere, poi riparti ed è un’altra storia. Nella vita spesso non è possibile. In fondo, i campioni del ciclismo o dello sport ti fanno sentire quello che vorresti essere. Forte, deciso, convinto”. Ed è vero, ma è anche vero che lui starà qui fino alle cinque e mezza per vedere tutti ed applaudire anche ciclisti che non conosce, anche gli ultimi, i gregari, coloro che magari domani si ritireranno. Perché essere forti non significa essere campioni, significa dare tutto ciò che si ha. E queste persone lo fanno tutti i giorni, in diversi modi: trascinando un vaso con le mani segnate dall’artrite, volendo partire e lavorare, andando a vedere qualcosa che non ti è mai piaciuto, perché sai che, se riesci a entusiasmarti, hai vinto, a prescindere da tutto.
Sono forti, incredibilmente forti. Perché spingere a tutta quando il traguardo nemmeno si vede è difficile. Ma è l’unico modo di essere ciclisti e, forse, anche di essere uomini.
Foto: Luigi Sestili