«Uno scatto secco dopo essere stato in fuga con Gotti, il knockout! Siamo con un primo piano di Pantani. Pantani che taglia il traguardo, vince! Alza il braccio Pantani!» esclama un esultante Adriano Dezan sul finale dell’ottava tappa del Giro 1999. La Pescara-Gran Sasso è durata oltre sette ore, ma in salita il Pirata ha fatto la differenza ed è riuscito a strappare la maglia rosa a Jalabert.
Anche quel giorno, lassù a Campo Imperatore, due muri di neve si ergevano a lato della strada. Un nebbione esoterico non faceva intravedere nulla: un urlo di Dezan squarciò inquadrature neutre di persone a caso all’arrivo, «eccolo!».
Se nel 1999 si saliva da Assergi e Fonte Cerreto, nel 2023 si arriva al “piccolo Tibet” – com’è soprannominata la piana subito sotto i chilometri finali verso Campo Imperatore – da Calascio e Santo Stefano di Sessanio. Cambia l’inizio della salita, cambia anche la capacità delle televisioni di trasmettere la tappa: le quasi sei ore di corsa sono state trasmesse in diretta integrale e senza particolari interruzioni. Sei ore, inutile nasconderlo, senza grandi emozioni.
Quattro corridori in fuga prendono grande vantaggio, ma l’unico con vittorie da professionista – Henok Mulubrhan, campione africano – si stacca ai -119 dall’arrivo. Restano tre gregari, là davanti: Simone Petilli, Davide Bais e Karel Vacek. In motocronaca Stefano Rizzato non può che constatare che il gruppo dei capitani è «quasi fermo». E poi ancora, riguardo una cucina abruzzese pacifista: «La cosa migliore che ho visto in questi ultimi chilometri è stata lo striscione “no guerre, sì rostelle”».
Questo attendismo tra gli assi, oltre ad essere diametralmente opposto a quello della tappa del Gran Sasso di Pantani, mi ha ricordato una delusa considerazione di Indro Montanelli al Giro del 1948: non citeremo uno scrittore in ogni pezzo, da qui a fine Giro, ma a pensarci meglio perché no. Insomma, parlando del difetto di combattività degli assi il giornalista fucecchiese chiosò: «Non lo capisco e, per parlarci chiaro, non mi piace».