Al Giro d’Italia, è il giorno dell’ermo colle, di qualsiasi ermo colle, e di ciascuna siepe che “da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”. Tutto l’essenziale che c’è da sapere su un muro, della strada che si arrampica, della natura che si espande, degli esseri umani che lo costruiscono e della loro interiorità in cui si erge a poco poco e li cambia, è nelle parole di Giacomo Leopardi. È anche la terra di Michele Scarponi e del Saltarello: il primo un ciclista, il secondo un ballo tipico marchigiano che racconta, attraverso rapidi movimenti di punta e tacco, una strana felicità, una festa che nasce da dentro. Michele Scarponi quella poesia l’aveva fatta propria, pur forse non avendone mai parlato: Scarpa che nei suoi silenzi si limitava a sorridere, a fare una smorfia e oltrepassava con l’ironia le siepi che racchiudevano, che impedivano lo sguardo. Dei problemi diceva che erano simili alla pioggia, ma non può piovere per sempre: quella frase l’aveva sentita nel film “Il corvo” ed ogni volta la cambiava un poco, perché fosse davvero adatta al momento, perché non fosse una di quelle cose che si dicono per “circostanza”.

Il Saltarello è la danza delle fughe, sono degli “scapigliati”, gli anticonformisti del movimento artistico della Scapigliatura, coloro che partono in tromba in un tornado di gruppi e gruppetti che si creano e si disfano continuamente, perdono pezzi e li ritrovano. Mirco Maestri e Julian Alaphilippe sono, oggi, gli esponenti maggiori di questo movimento, in sella ad una bicicletta, potrebbero anche essere simili ai poeti de “L’albatros” di Baudelaire, “principi delle nubi, che stanno con l’uragano… esuli in terra”. In un certo senso lo sono, almeno in parte. Non è solo la solitudine a renderli tali, è qualcosa radicato in loro, nel loro passato. Prendete Mirco Maestri, di Guastalla, nella Bassa reggiana, per tutti “Paperino”, per via di quel pupazzo che, all’asilo, in un modo o nell’altro, era sempre con lui. Un ragazzo che ha iniziato a pedalare per un problema di metabolismo, che, tempo fa, aveva raccontato di essere stato un ragazzino più largo che alto e solo per questo aveva iniziato a pedalare. Figuratevi se pensava di arrivare al Giro d’Italia, aveva sogni molto più semplici. Con la bicicletta è sempre restato, essenzialmente, per un senso di gratitudine, di riconoscenza, per avergli permesso di cambiare, di diventare quel che si sentiva. C’è anche il suo ermo colle da queste parti, anzi, se li prende quasi tutti i muri, dalla testa della corsa, in un’azione “folle” assieme ad Alaphilippe. Ogni tanto si guardano: il francese gli dice qualcosa, lo incita, pare anche aspettarlo, fargli coraggio, della serie “vieni con me”, “andiamo via insieme”.

Recanati, Osimo, Monsano, Ostra, Ripe, La Croce, Mondolfo, questa è la sequenza. Mentre i muscoli gridano pietà, torturati, fatti a pezzi, dalle peripezie della verticalità. A Monte Giove arrivano assieme: la pedalata di Alaphilippe diventa insostenibile per lui, immersi nel vociare della gente che è salita a piedi e ora è felice perché la festa è arrivata. Si sbanda su quel muro, da destra a sinistra e da sinistra a destra. Lo sforzo dei chilometri precedenti grida vendetta, in quegli istanti, Maestri cede, spinge la bicicletta a forza di volontà e della stessa gratitudine che gliela fa continuare a scegliere. Il francese si volta, guarda, deve proseguire, non può fare altro. Il 16 maggio del 2024 non ringrazia solo per quello, ringrazia anche per la possibilità di una giornata come questa, in fuga con un ciclista come Alaphilippe, che è uno dei suoi corridori preferiti, forse il preferito, perché è l’enigma del ciclismo ed anche di un certo modo di essere umani. L’insostenibile velocità di Alaphilippe diviene, poco dopo, una sorta di insostenibile leggerezza dell’essere, un inno alla spensieratezza e alla gioia di essere un ciclista e di essere il ciclista che è: funambolo in discesa, in curva, in ogni equilibrismo che la bicicletta, comunque, impone. È l’altra parte de “L’infinito” di Leopardi, sono i profondissimi spazi, interminati, i sovrumani silenzi, il vento tra le piante, e tutto quello che si pensa o si sente: le morte stagioni, la presente, il suo suono. Fino all’arrivo, primo.

Stanco lo è, sicuramente, ma resta in piedi, continua a muoversi, sospira, sorride: cerca e viene cercato. Viene cercato dagli atleti del gruppo per un complimento, cerca Mirco Maestri solo per dire grazie, per l’importanza che ha avuto in quella fuga, per il coraggio e per quello che hanno condiviso e che solo loro possono capire fino in fondo mentre si salutano e si allontanano dalla strada della tappa che li ha fatti andare oltre. Oltre ogni muro, primo e nono, a Fano, dopo l’unico naufragio permesso ai ciclisti: l’attacco, la distanza, la lontananza dagli altri e quello nella propria interiorità. L’orizzonte ora è aperto, vasto. Mette pace.