Quando passa il gruppo, in un qualunque tratto di strada, tra Vasto e Melfi, si vedono e si ascoltano molte cose. Ma è quello che non si può sentire che vogliamo portarvi oggi. Sì, parliamo dei pensieri dei corridori e del loro suono. Sceglieremo alcuni rumori, per darvi l’idea di cosa sarebbe il transito del gruppo se davvero tutto si ascoltasse. Consapevoli del fatto che se ne potrebbero scegliere molti altri, ma soprattutto certi del fatto che sia un bene che non tutto si senta, perché, solo così, in ogni professionista può esserci una parte di chiunque sia mai andato in bicicletta, anche per pochi chilometri, anche per un viaggio. Le sensazioni sono le stesse, semplici, primitive, cambia il contesto, ma chi ha provato le conosce bene e così guardare la corsa è anche provare la corsa.
Veljko Stojnic e Alexander Konichev che attaccano, pronti-via, pensando che qualcuno li segua, invece restano da soli. Non si fanno riprendere, continuano. Il primo pensiero assomiglia a quello dei vetri rotti, di quando qualcosa che ci si aspetta non accade, ma bisogna lo stesso proseguire, perché è la gara. Poi subentra un pensiero simile all’acqua che lava via la polvere da una superficie da troppo impolverata: piacevole quella pioggia, un temporale estivo, l’afa che se ne va. Il pensiero si alleggerisce e si guarda a quel che c’è: tanti traguardi intermedi, per ingannare la mente, per pensare di avercela fatta prima ancora di farcela, perché si è in testa e quando si è lì bisogna dare valore al momento, perché non si sa quando ricapiterà. Non chiedersi il motivo di tanta fatica vana, ma l’opportunità.
Pensieri che sono tonfi sordi: Roglič che cerca di sorprendere Evenepoel al traguardo volante ma viene sorpreso e finisce secondo. Si volta verso il gruppo: «Pure qui sprinta adesso? Che facciamo?». Dice così, con gli occhi, con la gestualità. Quelli di Almeida, di quella bici danneggiata su cui si sforza di continuare a pedalare. Pensieri che sono aghi che trafiggono un cartone: Pedersen che, dopo aver fatto lavorare la squadra, si ritrova in coda al gruppo, di poco staccato, in vetta al Gran Premio della Montagna. Sono aghi che trafiggono perché arrivano e se ne vanno: in un momento, c’è la delusione ed il senso di colpa, nell’altro un respiro a pieni polmoni e le gocce di pioggia che, invece che dare fastidio, rinvigoriscono. Basta trovare una pedalata più rotonda delle altre, rientrare, e ci si sente di nuovo bene.
Alcuni pensieri stridono come un gesso su una lavagna: la bicicletta che, a causa dei cambi di asfalto, in discesa verso Melfi, sembra lasciarti. Resti in piedi, ma, alla curva dopo, tiri i freni, ricordi quella sensazione e ti prende il timore: «Se cado, siamo solo alla terza tappa, fra poco iniziano le salite». Una sfilza di pensieri negativi. Sono pensieri fastidiosi perché ingabbiano la libertà di improvvisare in sella e di scendere a tutta, per una volta senza fatica. Rumori che sono suoni, inizi di suono, prime note: Pinot che conquista i punti per la maglia azzurra e scatta per essere sicuro di vestirla stasera. La sua è una ripartenza, da molto tempo, e le ripartenze hanno questo di bello: non finiscono, sono un inizio continuo.
Pensieri-frastuono: quelli di Pedersen, Groves e Albanese che erano lì a giocarsela e ci hanno creduto perché la linea del traguardo continuava ad avvicinarsi senza arrivare mai. Quelli di Matthews, invece, sono pensieri-silenzio, al massimo pensieri-grido: volata lunga, vittoria, soddisfazione, la prova che va bene, che, da stasera, al Giro sembrerà tutto più facile, anche quando sarà più difficile. Almeno per qualche giorno. Basta un attimo di felicità, è semplice la regola.
Avremmo potuto sentire tutto questo, ne siamo certi. Non potendo sentirlo, abbiamo ascoltato ciò che c’era, abbiamo guardato le cose, i tetti, le strade, le maglie, le biciclette, gli scatti, le cadute. Le braccia alzate e la vittoria, la testa bassa e la sconfitta. La gara, insomma. Il Giro. Il resto, alla fine, lo sappiamo, perché quei rumori li abbiamo tutti dentro.