Alberto Dainese, 23 anni, nella prossima stagione al terzo anno tra i professionisti, ha un cruccio: quello della vittoria. «Mi do ancora due, tre anni per vincere, poi eventualmente capirò cosa fare, se andare a giocare a bocce oppure tirare le volate agli altri» ci racconta ironizzando su sé stesso, con disarmante sincerità. «Per un velocista conta solo la vittoria. Poco da girarci intorno». Secondo Dainese un velocista «con la v maiuscola è tale quando conquista almeno 6/7 corse all’anno» e lui che le braccia al cielo le ha alzato così poco di recente (ultimo successo a febbraio del 2020) si definisce «un “corridoretto velocino” al momento, nulla di più». Testuale.
Dainese passò professionista nel 2020 in maglia Sunweb (ora DSM) dopo aver conquistato, nel 2018, tra le altre corse, una tappa al Giro Under 23, e una, ottenuta in modo spettacolare, al Giro del Friuli, mentre chiudeva il 2019 conquistando la maglia da campione europeo sulle strade di Alkmaar – quel giorno sfruttò a meraviglia il lavoro di squadra e dimostrò che in quanto a punte di velocità nelle categoria giovanili aveva pochi rivali.
Fisico compatto, a metà tra le misure di Ewan (piccoletto) e quelle di Merlier (ben più alto) Dainese sin dagli esordi in bicicletta si era distinto per la capacità di andare a segno come un bomber di razza, diremmo, se fosse un calciatore. «Ma un conto è vincere nelle categorie giovanili un altro è fare il salto e confermarti da subito tra i professionisti. Il nostro sport è pieno di ragazzi che si perdono e la differenza tra le altre categorie è abissale. Personalmente sento di migliorare stagione dopo stagione, è vero, ma nel 2022 devo iniziare a raccogliere qualcosa».
Le prime due stagioni da professionista sono state complicate, lo scorso anno partì forte, vittoria in Australia all’Herald Sun Tour, podio alla Race Torquay, dietro Bennett e Nizzolo, poi vari intoppi tra cadute, corse cancellate per il Covid e via discorrendo.
Quest’anno la sua stagione è stata a due facce a tratti quasi paradossale con punte di accanimento. «La prima parte tutta a inseguire: le corse che dovevo fare da capitano sono saltate, quelle dove ero a disposizione del treno di Bol sono filate lisce e a giudicare da fuori pareva che fossi diventato l’ultimo o il penultimo uomo del velocista di punta. Poi, certo, non mi considero mica un fenomeno che non si mette a disposizione degli altri: per crescere, per essere un velocista serve fare anche quello». Ma lui giustamente si sente finalizzatore. È come, tornando alla metafora calcistica, se all’attaccante gli strappassimo dai piedi il pallone o gli vietassimo di calciare in porta.
Da agosto in poi le sue carte se l’è giocate (quasi) alla grande. «Dalla Vuelta tutta un’altra musica. È vero non ho vinto, ma per quello conta anche un po’ di fortuna». Ha iniziato a prendere le misure e a battagliare con i migliori velocisti del World Tour. «Philipsen e Jakobsen sono fortissimi, difficili da superare ma anche solo da affiancare, ma quello che è veramente impressionante secondo me è Merlier. Mi ricorda il miglior Petacchi, ha una potenza e una rapidità senza eguali. Al momento lui è il velocista più forte del mondo, superiore anche a Ewan».
Dainese studia gli avversari, ma per essere un velocista sempre più forte quest’anno ha cambiato un po’ il metodo di lavoro: «La prima stagione abbiamo puntato tutto sulle volate e sull’esplosività, ma poi si finiva di arrivare allo sprint senza energie. Quest’anno invece abbiamo impostato un lavoro più sulla resistenza e si sono visti i primi frutti». Fondamentale, dice, arrivare freschi al traguardo anche a costo di perdere il picco massimo di velocità: «D’altra parte la coperta per noi velocisti è sempre un po’ corta»
Dainese ci spiega come ci si muove in gruppo a quelle velocità, con tutti quei rischi tra gomitate e spallate, ruote sfiorate e rischi assurdi, ci indica qualche trucco del mestiere, per essere un velocista, e che da fuori è impossibile conoscere. «Sì è vero, bisogna essere un po’ matti, ma è anche divertente. Io gara dopo gara a furia di prendere bastonate nei denti sto imparando come ci si muove, sto acquisendo abilità e consapevolezza, ma anche guadagnando il rispetto dai miei avversari. Capita di trovarti a ruota di Ewan o Philipsen e se non sei nessuno magari ti becchi anche la spallata che ti sposta, ma se inizi a farti conoscere a suon di risultati allora ti lasciano lì a giocare le tue carte».
A chiudere Dainese, un po’ Cavendish e un po’ McEwen per il modo di stare in bici nelle volate, ci parla di un rammarico e di una speranza. Il dispiacere è legato al Giro del Veneto dove andò forte dimostrando di non essere solo quel velocista puro che credeva, ma di poter tenere duro anche su percorsi impegnativi. «È vero, ma ci sono anche un insieme di cose: intanto disputare un Grande Giro ti cambia il motore, ti dà brillantezza, ti permette di pedalare a certi ritmi e io aveva appena corso la Vuelta. Poi al Giro del Veneto il livello era alto sì, ma non certo quello del mondiale». Quel giorno tanto fecero le motivazioni. «Si arrivava letteralmente davanti a casa dei miei e c’erano anche gli amici a tifarmi. È stata una giornata indimenticabile. Peccato essere arrivati terzi».
Mentre la speranza appare scontata: «Ritornare a vincere, altrimenti che velocista sarei?».