Su un paradosso si basa il ciclismo. Da una parte è uno sport che crea, plasma e rifornisce la propria mitologia grazie all’anzianità, al frequente ripetersi di cose molto simili. Per questo paragoniamo i campioni di diverse epoche cercando di rivedere il vecchio nel nuovo («il baby Merckx») e nel commentare la corsa ci riferiamo a dinamiche già viste, muovendoci in un solco tracciato.
Dall’altra parte, il ciclismo – e in particolare le corse a tappe di tre settimane – attende impaziente il climax, il momento di massimo stupore. Una sorta di taglio di Fontana di quella tela che è la normalità, la ripetizione di cui sopra. Improvvisamente, guardando attraverso quello squarcio, routine e cliché subiscono un’alterazione. Ci si trova coi piedi all’aria, smarriti: l’unica possibilità, a quel punto, è cercare di capire dove si è, cosa si sta facendo e cosa si sta guardando.
È la sensazione che ha vissuto, credo, gran parte delle persone accorse sul Monte Lussari ieri. E io con loro. Mi guardavo attorno e non riuscivo a smettere di ridere: gente che cantava, gente che ballava, gente che voleva godersi un momento storico. Ho sentito il collega di podcast (oggi esce l’ultima puntata di GIRONIMO!) Leonardo Piccione, sempre equilibrato nei giudizi, con una voce piena d’emozione e adrenalina. Daniel Friebe, che presenzia a tipo 100 giorni di corsa in bicicletta l’anno, ha scritto che è stata «una delle giornate più memorabili in 23 anni che mi occupo di ciclismo».
Ogni tanto capita, insomma, di essere parte della storia mentre accade, di vedere tutto da posizione privilegiata. Si riesce a dare un’occhiatina, fugace e presbite, dentro allo squarcio della tela. Non sono sicuro di aver capito cosa ci sia dall’altra parte, e non vorrei rifare questa esperienza domani, perché il bello, in questo caso, sta nel raro. Ma è per quel singolo momento che seguiamo una cosa assurda e brutale come il Giro d’Italia.