Un nutrito gruppo di corridori, ridotto infine a tre, c’ha provato fino all’ultimo. Ripresi a un centinaio di metri dal traguardo. Pedalatori di un certo spessore, superstiti di una corsa spumeggiante: Narváez – il primo a perdere la ruota nel lungo sprint finale – che sono già due anni che nel weekend di apertura delle corse del Belgio azzecca le fughe buone; poi Laporte, nuova testa nello squadrone Jumbo, oggi capitano in contumacia di van Aert; e van der Hoorn, corridore ormai di culto nei nostri tempi ciclistici, che abbiamo imparato a conoscere in modo più approfondito al Giro 2021 quando vinse la tappa di Canale; che aveva previsto a novembre di andare in fuga ieri; quel ragazzo dal volto buffo, che spesso, come ieri, corre senza occhiali, che qualche anno fa ha battuto van Aert e Merlier in una corsa in Belgio e poi decise di girare l’Europa con un furgoncino Volkswagen del 1982: tra i suoi obiettivi c’era quello di prendere appunti per conoscere alcuni tratti delle classiche più importanti, Strade Bianche compresa, che chissà, fra meno di una settimana, potrebbero ispirare il suo modo di interpretare la bici, sempre all’attacco e con una certa ammirazione per le strade impolverate.

Ma quel terzetto si è visto piombare addosso il gruppo con Jakobsen ed Ewan a tutta, aggiungessimo Philipsen troveremmo i tre velocisti più forti di questo bistrattato pianeta. Jakobsen è partito lungo dribblando le scie di chi, davanti a lui, man mano sembrava frenare contro una forza invisibile che potrebbe essere la somma di fatica e vento; una scelta ponderata quella di Jakobsen, «Partendo lungo e sfruttando la scia avrei preso più velocità dei miei avversari e così è stato».

 

Jakobsen che si vedeva, centimetro dopo centimetro, avvicinare e poi affiancare da Ewan. Poi il colpo di reni che per un pugno di centimetri premiava il corridore olandese della Quick Step, capace di riprendere in mano il filo con il successo sfuggito alla sua squadra ventiquattro ore prima alla Omloop Het Nieuwsblad, gara che li ha visti, anzi, non li ha mai visti realmente competitivi su quelle che abitualmente sono le loro strade. «Lefevere contrariato dopo la Omloop? Non saprei dirlo, ha parlato in dialetto West-Vlaams e io parlo solo l’olandese. A parte gli scherzi, non è stato un bel momento il suo discorso motivazionale, diciamo, ma di sicuro ha funzionato».

Jakobsen, la storia è nota, un anno e mezzo fa rischiò la vita in corsa, proprio durante una volata, proprio durante quella parte del suo lavoro che lui preferisce: «Questo è quello che so fare meglio: amo la velocità, mi hanno dotato di gambe veloci, ci si sente bene a correre per la vittoria». Dice che la pressione che deriva da avere una squadra che corre per lui lo motiva al massimo soprattutto se, come successo alla Vuelta e come successo ieri: «I miei compagni mi dicono che lavoreranno tutti per me, perché mi considerano il più veloce in gruppo».
E intanto che quel gruppetto di corridori, ridotti a tre dopo una corsa d’attacco, manda giù l’amaro in bocca per non essere riuscito a compiere un piacere che poi è un dovere, ovvero arrivare sulla linea del traguardo e vincere, Fabio Jakobsen guarda avanti: «Parigi-Nizza, intanto, poi per la Sanremo ancora non si sa, mi dovessero selezionare mi farò trovare pronto».
E magari anche lì conquistare tutto a suon di velocità. Fosse per una questione di metri o di centimetri cambierebbe poco, ciò che importa è far risuonare le fibre veloci che qualcuno gli ha dato in dono e poi magari apparire in foto, felice, sorseggiando birra, come successo qualche ora fa alla Kuurne-Bruxelles-Kuurne.