Words: Alessandro Autieri
Voice: Luca Mich
Sound design: Brand&Soda

Chiudete gli occhi. Quello che stiamo per raccontarvi richiede una buona dose di immaginazione, non perché ci siano cose inventate sia chiaro, ma perché molto di quello che ascolterete arriva da lontano nel tempo e nello spazio. Vi invito a pensare a questa storia come ad una serie di fotografie. Le prime di un color seppia sbiadito dal tempo, che rende difficile distinguerne i contorni, intrisi come sono di realtà e leggenda; altre di un nitido bianco e nero, che ci permette di delineare meglio il contesto. Fino alle immagini dei giorni nostri, dove i colori diventano la forma, mentre la sostanza si nasconde dietro cocenti delusioni, a volte risulta effimera come un talento sprecato, altre, come vedremo poi, raggiunge quello che sarà il massimo splendore nelle vicende del ciclismo colombiano.

Dobbiamo immaginarci l’inizio di questa storia come un esercizio di fatica in sella a bici pesanti come cancelli, che percorrono strade impolverate: è il ciclismo dei pionieri andini. 

Sono visi scavati quelli dei protagonisti della nostra storia. Tutti zigomi e mento. Espressioni tagliate dalle rughe e arse dal sole, povertà, pesanti maglie di lana e corse disputate con divise e scarpe da calcio.

Ci sono secchiate di acqua prese in faccia dai tifosi che incitano, o bastonate date da quelli che urlano contro. Lunghi allenamenti in bicicletta passati fumando decine di sigarette seduti in sella, fughe notturne in mezzo a strade così rappezzate che persino le bestie da soma si rifiutano di attraversare. Serate concluse a raccogliere le energie bevendo brandy o tequila. 

Sono racconti di tubolari appesi al collo, foglie di verza messe sotto il berretto per difendersi dal caldo, polvere che ti soffoca i polmoni e brucia palpebre sottili come unghie. E i protagonisti sono personaggi di una povertà tale che quando scendono dal loro paese per recarsi in una città più grande, e vedono per la prima volta una bicicletta, pensano si tratti di parti smontate di un’automobile. Spesso sono ragazzi poco più che analfabeti, ma che diventano, nell’immaginario collettivo della cultura popolare colombiana, così simili agli Dei da costruirci attorno storie intrise di un alone di mistero e anche di un tocco di magia.

Le prime apparizioni in Europa sono quelle di corridori scambiati per oggetti del mistero e del folclore. Le bici diventano via via più moderne: ma non i visi. Tratti inequivocabili di discendenze andine, di sangue chibcha, di stregua riluttanza alle più svariate avversità della vita. Di campi seminati a mais e coltivazioni di platani, di vette silenziose, altipiani che formano il carattere e donano resistenza ad altitudini impossibili per i rivali europei. “Buffi topolini scuri”, venivano chiamati così inizialmente quando ancora non erano presenza costante in gruppo. Snobbati, guardati dall’alto in basso da occhi petulanti come si fa quando in una locanda di un piccolo paese di provincia entra uno straniero mai visto, spaesato dalle fatiche di un lungo viaggio.

Nei decenni successivi arrivano in Europa, proprio a compimento di lunghi viaggi, corridori che hanno sempre addosso quello stampo che sa di antico. Volti scuri, a volte di statura piccolissima, altre volte enormi con mani da gigante, ma spesso poco avvezzi al dispotismo del grande ciclismo europeo. Perlopiù scalatori, con gambe autentiche e febbrili, muscoli intagliati da quei continui su e giù nelle province più disparate della regione dei Cafeteros tra Bogotà e Medellin. Capaci di sfoderare potenti attacchi in salita e di smarrire la bussola non appena la strada smette di salire e si lancia in discesa. «Sono sempre stato nervoso all’idea di cadere» raccontava Ramon Hoyos Vallejo, ma dobbiamo immaginarcelo come un pensiero comune allo scalatore colombiano. Una specie di legge che appare nelle loro sacre scritture. «Ho sempre temuto di uccidermi in una curva in discesa ed è per questo che cercavo sempre di prendere più vantaggio possibile in salita».

Si arriva così ai giorni nostri, a quelle foto colorate, accese, a quella generazione che sogna, oggi come allora, di vincere il Tour de France. Di ragazzi che ora riescono a frequentare con più regolarità la scuola mentre i genitori lavorano nei campi o nelle fattorie. Sognano un riscatto per la propria famiglia e corrono su bici più che decenti, se paragonate a quelle del passato. Nel giro di poco tempo si ritrovano a pedalare per il mondo arrivando giovanissimi in Europa e cavalcando bolidi che fino a un momento prima avevano visto solo in televisione – chi la possedeva – o nelle fotografie, oppure descritte in radio dai giornalisti colombiani. 

In Europa iniziano ad andarci a vivere attratti da contratti sostanziosi, dalla possibilità di diventare veri atleti sulla falsariga dei grandi campioni. Diventano veri atleti con la mentalità giusta e vanno a correre nelle squadre più importanti, imparando le abitudini del corridore europeo, pur mantenendo vive le radici dalla loro terra. Sono corridori che più moderni non si potrebbe e con una caratteristica prettamente colombiana: la capacità innata, grazie alla statura e alla struttura fisica e biologica, di andare forte in salita. 

Ma torniamo al principio. A quelle immagini prima color seppia e poi in bianco e nero. Partiamo dagli anni Cinquanta per raccontare il lungo viaggio di evoluzione della specie ciclistica colombiana. Iniziamo da Efraín Forero: “El indomable Zipa”. Zipa, perché arrivava da Zipaquirá, a una manciata di chilometri da Bogotà. Dove, oltre mezzo secolo dopo, nascerà un certo Egan Bernal. Ecco da dove tutto comincia, da dove parte la grande epopea del ciclismo colombiano che ha come obiettivo, come sogno di un popolo intero mosso dalla passione per il ciclismo, di vincere, un giorno, il Tour de France. Anche se, almeno inizialmente, è già un grande traguardo poterlo correre. Si parte da Efrain Forero, si diceva, capace di mettere assieme un atto eroico ancora più che sportivo e che ancora oggi lui stesso ha la forza di rievocare, nonostante i novant’anni suonati.

Efraín Forero aveva vent’anni nel 1950, uno in più quando vinse la prima edizione della Vuelta a Colombia. Una corsa nata per permettere la propagazione di quel lungo suono che proveniva dall’Europa e dove Giro d’Italia e Tour de France riempivano le pagine dei giornali. E come in Italia e in Francia anche in Colombia sarà un giornale a organizzare l’evento. Non vi è nulla di più calzante alla narrazione di uno sport come il ciclismo e anche i direttori dei quotidiani d’oltreoceano lo comprendono, cogliendo al volo il momento e ne facendone la loro fortuna. 

Naso appuntito, occhi chiari, sopracciglia folte, Efraín Forero nel 1950 voleva dimostrare che sì, anche nella povera Colombia, così lontana dal centro nevralgico del ciclismo conosciuto, era possibile organizzare una corsa a tappe; voleva mostrare come qualsiasi cosa fosse possibile in bicicletta. Anche in Colombia. Il tutto mentre in Europa Bartali, Coppi, Kübler, Koblet e pochi anni dopo Bobet, Gaul e Anquetil sarebbero diventati leggende dello sport. 

Forero salì sul Parámo de Letras: ottantatré brutali chilometri di ascesa a 3.760 metri di altitudine. Alcune cronache narrano di chi, prima di lui, morì nel tentativo.

«Salendo verso il Parámo de Letras lo scenario cambiò velocemente. A un certo punto mi imbattei in villaggi bruciati: era la guerriglia? mi domandai. Andai avanti lo stesso. Mi fermai un po’ dopo quando trovai un luogo dove poter bere aguapanela e prima di scollinare trovai un lago così limpido da avere sfumature cristalline. Mi fermai nuovamente e feci il bagno». Dopodiché si gettò in picchiata e quando Efrain raggiunse il centro abitato di Manizales era notte fonda. Ma non c’era il canto dei grilli o lo stridere delle cicale a fare da contorno. C’era solo un cielo buio con disegnata una mappa di puntini bianchi. C’era una schiera di gente che lo attendeva come di solito si fa con gli eroi. La prova, giudicata impossibile dai più, era stata superata. Gli scettici si convinsero: l’anno dopo toccava alla Vuelta. 

Forero vinse sette delle dieci tappe organizzate, compresa proprio quella che prevedeva l’arrivo a Manizales con la scalata del Parámo de Letras. Si avviò con quel suo attrezzo a due ruote per un viaggio di quasi 1.200 chilometri. Partirono in 35 quasi tutti colombiani e secondo le cronache del tempo, arrivarono in 30, anche se c’è che chi dice che furono in 33 a finire quella corsa. 

Dimostrarono che era possibile percorrere quelle strade, superare il Parámo de Letras, l’Alto de la Linea, scavallare la cresta della Cordigliera attraversando, bici in spalla, torrenti che con la pioggia si tramutavano in fiumi indomabili, strade piene di buche e polvere, che mutavano forma in impraticabili campi di fango. Temperature che oscillavano da oltre trenta gradi a vicino lo zero: scenari da romanzo. 

La corsa maturò grande interesse nella popolazione, nonostante fossero gli anni de “La Violencia” in Colombia, in cui morirono circa duecentomila persone. Era uno scontro tra chi apparteneva a due diversi schieramenti politici, che seminarono il terrore per tutta la nazione. Omicidi, rappresaglie, sparizioni, interi villaggi bruciati. Il dramma di quegli anni si incrociò con la strada della Vuelta a Colombia. 

Efraín Forero lasciò il ciclismo a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Doveva lavorare per coprire le spese dei numerosi viaggi a cui lo costringeva questo sport. «Sono stanco di dover andare in giro a cercare sponsor e farmi dire che sono un vagabondo» fu il suo commiato. Erano altri tempi. 

Prima di abbandonare, Forero incrociò la strada di Ramón Hojos Vallejo. Gelataio prima, macellaio poi, persino muratore. Divenne in breve tempo “Don Ramón de Marinilla”, il primo degli Escarabajos, dei coleotteri o scarabei diremmo noi, più o meno, il nome con cui ancora oggi vengono chiamati gli scalatori colombiani. Idolo nazionale, cinque volte vincitore della Vuelta a Colombia: fu accolto in aeroporto, al rientro a casa al termine di una corsa, da duecentomila persone, tanto per darne la misura della grandezza.

Imparò ad andare forte in bicicletta facendo il fattorino. «Dopo essere caduto il primo giorno di lavoro divenni esperto nel gestire le regole della strada e del mezzo, ma le consegne avrei preferito farle correndo a piedi». Una volta lo credettero morto. «Una notte ci fu una rapina in macelleria. Uno degli apprendisti che dormiva nel negozio fu pugnalato a morte. Lo chiusero nel congelatore e lo trovarono due giorni dopo a faccia in giù, disteso sul pavimento, i suoi vestiti intrisi di sangue nero. Rattrappito e indurito dal ghiaccio. Quando rinvenirono il corpo io ero via a fare una commissione: al mio rientro cercai di farmi spazio nella confusione della folla, davanti alla porta della macelleria. Chiesi a uno sconosciuto cosa stesse succedendo. Mi rispose: ma niente, è che hanno ucciso Ramon Hoyos».

Fu raccontato da Márquez e poi dipinto da Botero che lo conobbe quando ancora faceva il fattorino e consegnava carne a casa dell’artista: quel dipinto si chiama La Apoteosis de Ramón Hoyos ed è una delle opere più importanti nella collezione del grande pittore. «Non mi assomiglia per niente» disse un giorno Ramon Hoyos, a un incontro con la stampa, riferendosi al soggetto del dipinto. «Mi ricorda più “El Pajarito” Buitrago» – uno dei suoi più grandi rivali.

In compenso il nostro sconfisse Coppi e Koblet, in Colombia in una gara di esibizione. Era il 1958, e quell’evento, nonostante fossimo nella fase calante della carriera dei due corridori, divenne in poco tempo il più importante della storia sportiva del paese sudamericano. Il Campionissimo, l’ex vincitore del Tour de France ed ex detentore del record dell’ora che vola in Colombia per partecipare a una corsa di esibizione contro il grande campione antioqueno . Salendo i quarantadue chilometri de l’Alto de Minas, Coppi e Koblet svennero per il caldo, si racconta. La leggenda si mescola ai fatti chiaramente, dopo oltre mezzo secolo. Si dice addirittura che alla vigilia di quella tappa, Ramon Hoyos offrì a Coppi e agli altri avversari europei chorizos ed empanadas ripiene di patate e carne: tutto pur di metterli in difficoltà, e com’è come non è, funzionò.

E se inizialmente furono i campioni del Tour a recarsi in Colombia, bisogna aspettare ancora qualche anno prima che accada il contrario. Succede a metà anni ‘70, Quando Martin Emilio Rodriguez, detto “Cochise” per la sua grande passione per i film western andò a correre nel vecchio continente. siamo a metà degli anni ’70 e in Colombia era stato già eletto come “personaggio sportivo dell’anno”. «Ti hanno votato dieci milioni di colombiani: perché l’anno prossimo non ti candidi alle elezioni presidenziali?» – gli chiese un giorno Gonzalo Arango un noto poeta e scrittore colombiano, fondatore del movimento di controcultura artistica chiamato Nada-ismo. 

Il suo soprannome, Cochise, è perché andava pazzo per i film western con gli indiani: pare che dopo aver visto un film sulla vita del grande capo Apache non smettesse mai di parlare di lui. 

Il sogno di questo ragazzo era gareggiare in Europa – in Italia e Francia. Discriminato, arrivò tardi nel professionismo e divenne fedele gregario e amico di Felice Gimondi con il quale conquistò un trofeo Baracchi. Vinse due tappe al Giro d’Italia e disputò il Tour de France: fu il primo colombiano a raggiungere traguardi di questo tipo. Era uno sui generis: portava caratteristici basettoni e possedeva uno sguardo intelligente e malinconico. Era una locomotiva in pianura tanto da conquistare, tra i dilettanti, un controverso record dell’ora e il titolo mondiale dell’inseguimento individuale. Quando si parla di lui si afferma con convinzione: “se fosse arrivato più giovane in Europa, forse Eddy Merckx non avrebbe conquistato cinque volte il Tour de France”. 

Intanto con Cochise quei “buffi topolini scuri che non sanno cosa sono le Alpi”, come scrisse un giornalista italiano, fanno un altro passo in avanti. Patrocinio Jimenez mette in croce gli europei e attacca sul Tourmalet. È il Tour del 1983 e il belga Lucien van Impe, uno dei più forti scalatori di quegli anni, non riesce a tenere la sua ruota. Jimenez passerà primo sulla salita più alta di quell’edizione della Grande Boucle, conquistò la maglia a pois quel giorno, ma non riuscì a vincere la tappa buttando via la possibilità anche di vincere la classifica finale dei gran premi della montagna, perché si sosteneva, probabilmente a ragione, di come i colombiani ancora non sapessero correre in maniera tatticamente accorta. 

Qualche anno dopo arriva il tempo di Lucho Herrera, detto “El Jardinerito de Fugasugà” per il lavoro che faceva per mantenersi e aiutare la famiglia; Lucho, che da ragazzino, per sfuggire ai suoi genitori, si nascondeva tra gli alberi come il protagonista di un romanzo di Calvino. È il primo colombiano a vincere una tappa al Tour. In breve tempo diventerà lo sportivo più conosciuto del suo Paese tanto da finire, nel 2000, vittima di un’imboscata e di un rapimento da parte dei narcos. Vincerà la Vuelta nel 1987: il primo grande Giro conquistato da un colombiano. 

Ma è forse quello del 1984 l’aneddoto più interessante che riguarda Herrera, quando conquista l’Alpe d’Huez davanti a Laurent Fignon, il suo più grande rivale per via di vicende di corsa non sempre limpidissime… «Fignon era un ragazzo complicato. Odiava i colombiani: prima di morire scrisse un libro in cui ci accusava di aver corrotto lui e la sua squadra per corse che nemmeno avevamo vinto. Non ci rispettava, diceva che eravamo inferiori a loro e cercava sempre di farci del male: ci attaccava quando stavamo facendo i nostri bisogni o nelle fasi di rifornimento» racconta Herrera in un’intervista di qualche anno fa. 

E resta celebre quello che scrisse Laurent Fignon nel suo libro a proposito di una corsa che il francese disputò quell’anno in Colombia, il Clasico RCN: «All’epoca quelle gare erano sponsorizzate dalle mafie locali. Giravano soldi, pistole e cocaina. Ricordo un suiveur che nel bagagliaio della sua macchina metteva a disposizione di tutti chili e chili di polvere bianca». E una notte la provò anche lui quella polvere: aspirò un grammo in un colpo solo. «Stavo volando, avevo perso completamente conoscenza. Avevo l’impressione che le idee venissero spinte più velocemente di quanto la mia mente potesse analizzarle». Dopo una notte sveglio a far festa Fignon vinse pure l’ultima tappa, pensò di essersi rovinato la carriera, ma all’antidoping risultò pulito. Volava, letteralmente.

E così i colombiani iniziano a contare sulla scena mondiale: passo dopo passo, sembrava avvicinarsi addirittura la possibilità di vincere il Tour de France. E nel 1988 arriva infatti il primo podio nella corsa francese: il merito è di Fabio Parra, “El Condor de los Andes” che finirà terzo in classifica generale. 

Dopo alcuni anni di ribalta però, i ciclisti colombiani tornano ad essere solamente corridori capaci di grandi cose in salita, ma che poi nel momento decisivo finiscono sempre per essere deficitari in qualcosa. Mejia e Rincon nei primi anni ’90 per esempio, sono corridori d’alta classifica, ma non vinceranno mai un grande giro, leggeri, abilissimi in salita, ma spesso inadatti a correre in gruppo. 

Si arriva così nei primi anni 2000 a Santiago Botero. Così diverso da molti suoi predecessori: forte a cronometro, è biondo, dalla pelle chiara e gli occhi di ghiaccio. Di lui, però non resteranno che promesse non mantenute, qualche buon piazzamento e uno splendido profilo tracciato sempre dal grande giornalista milanese: “A Medellin abita non lontano dalla casa di Pablo Escobar, dice, ma dell’argomento non vuole assolutamente parlare. Anche i suiveurs hanno un cuore e non gli fanno più domande in merito. Risulta che gli abbiano già tirato un paio di bombe in casa e che quando sta in Colombia si alleni con un poliziotto in moto davanti, uno dietro e una jeep di tifosi armati e pronti a tutto”. 

In Colombia, nel frattempo il ciclismo acquista importanza, anche a livello sociale. Vengono fatti importanti investimenti, il centro di Bogotà diventa pedalabile grazie a una ciclovia introdotta nel 1976 e che andrà via via sviluppandosi. Oggi quella strada si chiama Ciclorrutas de Bogotá, è lunga oltre trecento chilometri (è la più grande del Sudamerica e una delle più estese al mondo) e forma una rete che unisce la capitale colombiana alle aree vicine più popolose. I colombiani cambiano così il loro modo di spostarsi, la bicicletta vive un momento florido sotto molti aspetti, vengono organizzati giri turistici e veri e propri festival culturali per visitare la città e i dintorni, rigorosamente su due ruote. Il ciclismo diventa così uno degli sport più praticati, la bicicletta un mezzo di trasporto irrinunciabile e dall’epoca dei pionieri a quella dei grandi corridori che lasceranno il segno nel ciclismo, il passo è breve.

Ma noi vogliamo credere che, lontani dal razionalismo della nostra epoca, dalle nozioni sui grandi mutamenti socio culturali, ci sia qualcosa di magico, che davvero influenzi il cammino di un corridore proveniente da quei luoghi. Ai tempi di Hoyos si scriveva che, dopo di lui, dalla regione di Antioquia sarebbero usciti altri campioni capaci di rinverdire i fasti dei grandi di quell’epoca. 

Ed è così che si arriva ai giorni nostri. A Rigoberto Uran, nato proprio nel Dipartimento di Antioquia, idolo colombiano, emigrato giovane in Europa, accompagnato da titoli di giornali, che lo definivano come colui che avrebbe finalmente assicurato alla Colombia la prima vittoria in un Tour de France.

Uran va forte ovunque, ma non vince praticamente mai. Ma è proprio con lui che avverrà un cambiamento epocale nel modo di comunicare: Uran è uno che si presenta sempre sorridente nelle interviste, parla un italiano fluido, è aperto, simpatico: diventa il pioniere della nuova generazione; l’anello di congiunzione tra il colombiano di ieri e quello di oggi. Dopo di lui arriveranno Chaves e Lopez, Martinez e Higuita: tutti corridori ormai veri e propri professionisti inquadrati e consolidati, ma anche loro, almeno fino a oggi, incapaci di lasciare per davvero il segno. E a vincere quella maglia gialla non ci riuscirà nemmeno Nairo Quintana. Quando partecipa al suo primo Tour de France, Quintana ha appena 23 anni; conquista la maglia bianca di miglior giovane, quella a pois dei Gran Premi della Montagna, vince in salita l’arrivo di Annecy e finisce secondo in classifica generale alle spalle di Chris Froome. Negli anni vincerà un Giro d’Italia – sarà il primo colombiano – una Vuelta, e al Tour si batterà, ma arrivando solo vicino a conquistarlo. Già, scartiamo anche il suo di nome, perché non sarà lui il primo (e sinora unico) andino a portarsi a casa la vittoria del Tour de France. Nonostante, a una lettura più attenta, dovremmo considerarlo come il più forte colombiano di sempre e di sicuro come uno degli scalatori più vincenti degli ultimi vent’anni. 

All’inizio di questa storia vi avevamo chiesto di chiudere gli occhi e immaginarvi facce dure, imprese tra leggenda e realtà. Siamo partiti da Zipaquirà, vi abbiamo raccontato di come tra i pionieri ed i corridori dei giorni nostri, nessuno avesse mai vinto il Tour de France, e di come nonostante ciò, alcuni di loro siano considerati eroi assoluti, capaci persino di far dimenticare il dramma sociale ed economico che la Colombia vive da decenni. 

Vi chiediamo allora un ultimo sforzo, chiudete nuovamente gli occhi e tornate a Zipaquirà dove sorge la Catedral del Sal, considerata la prima delle sette meraviglie dello stato colombiano. Dentro quel luogo i colori si sprecano, le sfumature si consolidano, tra viola e blu elettrico, statue di sale e di marmo. La cattedrale è un luogo sacro all’interno delle miniere di sale. Il suo custode si chiama Germàn Bernal. Sua moglie, Flor Gomez, seleziona e raccoglie garofani in un’azienda agricola, è un giorno come tanti mentre è a lavoro e inizia a sentirsi male. Vertigini, nausea, dolore allo stomaco. Pensa si tratti di un’intossicazione alimentare. Si reca dal medico di famiglia, il quale, laconico, dopo una breve visita afferma: «Sei incinta!» per poi aggiungere «Dammi la possibilità di scegliere il suo nome: chiamiamolo Egan, è un nome greco, mi pare voglia dire qualcosa come campione». Egan Bernal nasce così poco dopo la mezzanotte del 13 gennaio del 1997. 13 gennaio, come Marco Pantani guarda caso. La sua sarà un’infanzia difficile: mingherlino e fragile viene ricoverato fin da piccolissimo per una polmonite e di certo non sembra possedere i geni del campione.

E invece la sua è un’ascesa rapida, ripida, repentina. Una parete verticale che Bernal inizia a scalare giovanissimo in mountain bike, dove finirà per conquistare diverse medaglie mondiali tra gli juniores. Ma lui sogna la strada, mentre suo padre si oppone fermamente: «Il ciclismo su strada è troppo faticoso, figlio mio, richiede troppi sacrifici e non paga bene». Ma Gianni Savio, team manager dell’Androni, lo nota. O meglio: gli segnalano questo ragazzino che non ha praticamente mai corso su strada ma con valori fisici stupefacenti.

Lo porterà a vivere in Italia, in Piemonte, nella zona del Canavese dove oggi sorge un suo fan club, dove hanno persino dato il suo nome a dei biscotti, e dove lui andrà a formarsi correndo insieme ai dilettanti del posto. Va talmente forte in salita che «sembra salire come se avesse una sigaretta in bocca» dice di lui Franco Pelizzotti, dopo uno dei primi allenamenti. Ma non è solo il valore fisico, c’è dell’altro che colpisce in Bernal. «È un ragazzo serio, deciso, intelligente. Quando l’ho preso in squadra aveva 19 anni e sembrava ne avesse 30» – gli fa eco Gianni Savio. Cercava un colombiano per continuare con la tradizione che da anni lo legava al Sudamerica, e si è ritrovato in casa uno scalatore d’eccellenza, che si difende a cronometro, sa correre con intelligenza in mezzo al gruppo, districandosi tra i ventagli come un belga, e che a nemmeno vent’anni già faceva paura ai grandi del ciclismo. 

Vincerà il Tour de l’Avenir nel 2017 e dopo aver corso nella corazzata Team Sky, poi Team Ineos, passati due anni vincerà quel tanto agoniato Tour de France. È il più giovane vincitore in epoca moderna, almeno fino a quel momento, della corsa francese; il primo colombiano, finalmente, persino il primo latino americano. 

Dai fasti di Efrain Forero e Don Ramon, passando per i vagiti di Cochise, Herrera e Parra, le apparenti delusioni di Uran e Quintana, la Colombia ha fatto così tanta strada chiudendo il cerchio con Egan Bernal. E oggi, in Colombia tutti vorrebbero essere come lui. 

Geraint Thomas, suo compagno di squadra, parlò così alla fine del Tour de France vinto dal ragazzo colombiano. «Egan è il presente, ma sarà anche il futuro. Quando io avrò quarantacinque anni e sarò vecchio e grasso e seduto al pub ad osservarlo vincere il suo decimo Tour de France, potrò dire: Ehi, a quel ragazzo lì ho insegnato tutto quello che so».

Se è vero ciò che dici Thomas, la Colombia ti ringrazia.