Al primo piano dell’azienda agricola Le Volpere di Col San Martino c’è una maglia in una teca. Una maglia tricolore in una teca di vetro, per la precisione. Unico oggetto su un’intera parete, è giustificata da una piccola targhetta, ma nessuno la legge: chi frequenta la stanza sa benissimo vita, morte e miracoli di quella maglia tricolore. Appartenne a Guido De Rosso, il più forte ciclista di sempre di Col San Martino.
In questa frazione di Farra di Soligo, mi spiega Mario, nipote di Guido, il cognome De Rosso è piuttosto comune. Col San Martino non fa comune, anche se ha circa 4000 abitanti, è benestante e tanto grazioso che stride ridurlo al ruolo di frazione. C’è stato un momento, addirittura, mi dice tra le righe Mario De Rosso, in cui Col San Martino era per il ciclismo italiano ciò che era New York per il basket americano: la Mecca del gioco. Guido De Rosso vinse il Tour de l’Avenir del 1961 e – erano tempi diversi – tornò a casa in treno. Scese a Cornuda, una ventina di chilometri a sud-ovest di Pieve di Soligo e non si sa come tutti erano al corrente che quel valoroso ciclista sarebbe sceso dal treno. Ogni paese brulicava di gente a bordo strada per salutare il giovane campione.
Arrivato finalmente a Col San Martino, vi fu una grande festa in piazza. Mario mi mostra una foto incredibile di suo zio tenuto sulle spalle da qualche tifoso. Sbuca col petto dalla folla, che lo acclama: tutti sembra vogliano fargli le congratulazioni, gridargli evviva, toccarlo. Un braccio proteso ci riesce, mentre una bambina è a cavalcioni sulle spalle degli adulti per poter ammirare la ventunenne speranza del ciclismo italiano. Da tutte le finestre si affacciano le persone, De Rosso tiene in mano e sventola orgoglioso un bouquet di fiori. Fausto Coppi era morto da poco più di un anno e il corridore più forte del mondo, nei primi anni Sessanta, non solo non era italiano, ma era pure francese: Jacques Anquetil. A Col San Martino bastava Guido De Rosso.
De Rosso è passato professionista e ha avuto successo. Due Milano-Vignola, un Giro del Piemonte, due Trofeo Matteotti, un podio finale al Giro d’Italia: nel 1964, l’anno in cui forse andò più forte. Mario ricorda soprattutto un aneddoto che gli raccontava lo zio: al Giro del Trentino del 1963 (all’epoca si correva su giornata unica) nei chilometri finali Ercole Baldini gli disse «Guarda Guido, tirami la volata e ti do diecimila lire». Forse pensando di non potercela fare, De Rosso accettò. Tirò per tutto il chilometro finale, tirò fino a che non sentiva male ai polmoni, tirò la volata finché non chiuse gli occhi per la fatica. Quando li riaprì, vide la linea bianca sotto la ruota anteriore. Si voltò, Baldini era dietro. Guardò avanti a sé: non c’era proprio nessuno. Aveva vinto lui. Dopo il traguardo Baldini gli disse che se le poteva anche sognare, quelle diecimila lire.
«Ricordo benissimo i pomeriggi d’estate con mio zio e mio padre a mangiare anguria e guardare il ciclismo» dice alla vigilia del 74° Trofeo Piva il presidente dell’A.C. Col San Martino, società organizzatrice della corsa, Mario De Rosso. Il giorno della gara si sarebbe svegliato al più tardi alle 5:30 e il giorno dopo è dappertutto: lo trovo al pranzo con la polizia e la scorta tecnica, sulla salita di Combai dove uno sponsor regala a tutti flûte di Prosecco (gentilezza di cui ho abusato), all’arrivo e alle premiazioni, ad oltranza.
Una persona che invece non mi aspettavo di trovare alla partenza di Col San Martino è Gianni Savio. La squadra del Principe non partecipa, ma lui è qui a parlare con chiunque. Trentacinque squadre al via realizzano un notevole via vai di persone, mezzi di corsa, meccanici: la giostra colorata intasa tutta piazza Rovere. Di tutti i corridori presenti, Tyler Hannay è particolarmente interessante. Viene dall’isola di Man e vive a Lamporecchio perché corre con la Mastromarco, ha svariati denti sbeccati da cadute in bici e voglia di correre perché, abituato al freddo britannico, questi nuvoloni neri senza pioggia equivalgono per lui ad un clima quasi tropicale. Nicolò Buratti del Cycling Team Friuli è arrivato secondo alla Gent-Wevelgem pochi giorni fa ed è quindi uno dei favoriti per la corsa di oggi: «Credo di essere, sì, tra gli uomini più forma». Non ha i guanti e sta iniziando a piovere: sto andando a metterli, assicura, anche se dopo il tempaccio belga non teme più nulla.
La corsa è massacrante. Circa 3000 metri di dislivello disposti su quasi 180 chilometri sono un’enormità per la categoria. Nove volte Combai (2,2 km al 7,4%) e tre volte, nel finale, il terribile strappo di San Vigilio (mezzo chilometro al 12%, con punte al 22% e in parte cementato) selezionano i corridori giro dopo giro. È una corsa a eliminazione sulla quale, per la gioia di molti corridori, è spuntato uno splendido sole che ravviva il verde delle colline del Prosecco. L’ultima ascesa verso i cipressi affianco la chiesetta di San Vigilio è affrontata benissimo da Alessio Martinelli della Green Project-Bardiani, Sergio Meris della Colpack e Davide De Pretto della Zalf. In discesa, però, ripidissima picchiata verso il centro di Col San Martino, rientra Giacomo Villa della Biesse-Carrera e anticipa la volata, beffando i tre di testa.
Nel ricostruire il concitato finale, Alessio Martinelli confessa che negli ultimi 500 metri non c’era accordo nel terzetto di testa. Lui ha sfruttato il lavoro dei compagni di squadra Pinarello e Pellizzari, ma si è fatto sorprendere: «Il rientro di Villa, ai 300 metri penso, mi ha colto alla sprovvista. È partito subito, quindi sono partito anch’io, ma era troppo tardi. Per rientrare dev’essere andato fortissimo in discesa». Mentre finisce la frase, il massaggiatore della Green Project-Bardiani («il signor Piro, Piro per gli amici») tira fuori un asciugamano e glielo passa energicamente sul viso, ripulendolo da sudore e polvere.
Sul palco, Martinelli è più che presentabile. Giacomo Villa è al settimo cielo, ma composto. Non è una vittoria arrivata a caso: è andato molto forte al GP Industria di Larciano e un suo compagno di squadra, Anders Foldager, ha già centrato il podio in una corsa tra i professionisti, la Per Sempre Alfredo. Con Foldager avevo parlato già allo scorso Trofeo Piva, quando mi aveva stupito per determinazione a parole e grinta sui pedali. Quest’anno è un po’ diversa: «Arrivo da una settimana di raffreddore e febbre», mi dice in partenza. All’arrivo, invece, descrive con una sola parola la sua corsa: «Fuck». È contento di aver aiutato Villa, certo, ma gli ho di nuovo visto negli occhi quel guizzo del vincente, quello per cui “ok ha vinto un mio compagno ma volevo vincere io”, che lo farà andare lontano al piano di sopra.
Villa è stato tatticamente perfetto nel finale, ma proprio negli ultimi metri ha avuto un brivido. L’arrivo è leggermente in salita e non appena si è assicurato della vittoria si è alzato sul manubrio per festeggiare emulando le ali di Wout van Aert a Calais. Così facendo ha rischiato di cadere e di perdere la volata. «Proprio ieri ho visto il video di Van Aert che esultava facendo il condor: non ricordo quale tappa fosse, ma mi è rimasto in mente. Allora ho pensato lo faccio anch’io. Poi mi sono girato, ho visto Martinelli e mi sono rimesso a pedalare». Non sa di quanto ha vinto, quindi magari non ci sarebbe stato bisogno di tornare a pedalare, ma l’arrivo gli «sarà di lezione». Ha vissuto un momento di terrore, certo, ammette in modo più colorito.
Di tutte le cose che è stato il 74° Trofeo Piva, due pianti mi rimarranno impressi. Sono molto diversi tra loro. Il primo è quello di David Ruvalcaba, messicano 9° all’arrivo, alla prima prestazione di questo livello in una corsa internazionale. I suoi compagni della AR Monex lo hanno circondato e riempito di complimenti e a un certo punto David non è più riuscito a trattenere le lacrime. Il secondo pianto, invece, è quello della signora Franca del Ristoro Collagù, un delizioso posticino in cui sfamarsi sulle colline del Prosecco. Quando le chiedo delle origini di quel capanno adibito a locanda, risponde che era il sogno di Andrea Bortolin, agricoltore travolto da un trattore in una vigna poco distante. Bortolin aveva lavorato molto per la promozione del territorio, che dal 2019 è tra i Patrimoni dell’umanità UNESCO e la cui cura va molto oltre la produzione del vino, come assicurano Silvia dell’azienda agricola Riva Granda o Luca, cerimoniere della Confraternita di Valdobbiadene.
Il lavoro in questi vitigni particolarmente scoscesi è definito non a caso eroico: al piano terra dell’azienda agricola Le Volpere di Col San Martino c’è una scritta, grossa, che sintetizza bene le persone che lavorano qui: «Viticoltori di pendio». Salite, biciclette, Prosecco: il Trofeo Piva è la più precisa rappresentazione di una parte di Veneto tanto bella che non sembra vera.
Foto: Alessio Pederiva
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