Il cielo è pioggia, la strada è un sentiero, i corridori procedono in fila indiana. E’ una processione dolorosa.
Grande pubblico, due ali di folla che accompagnano i corridori, il popolo del ciclismo incoraggia tutti, dal primo all’ultimo, soprattutto gli ultimi.
Nella sporca dozzina di corridori in testa alla corsa, infangati, c’è anche la maglia gialla del leader della classifica generale. E’ Vincenzo Nibali.
Vincenzo stringe i denti, assottiglia le labbra, affila il naso, riduce gli occhi a due fessure. E allunga. Mancano 10 chilometri al traguardo. Ora, si dice, o mai più.
E’ il 9 luglio 2014. E’ il Tour de France. Ed è la quinta tappa: da Ypres ad Arenberg, in programma 155,5 chilometri con nove tratti di pavè, ma due tratti – quelli di Orchies e Mons-en-Pévèle – vengono subito condonati per le proibitive condizioni del tempo e della strada, è una giornata invernale in piena estate, e i chilometri sono d’autorità ridotti a 152.
Al ritrovo di partenza, a Ypres, in Belgio, e in Belgio il cielo sembra sempre più basso che altrove, bandiere gialle con il leone delle Fiandre che sventolano fra gli ombrelli, davanti alla Lakenhalle, il mercato dei tessuti, capolavoro dell’architettura gotica. L’atmosfera è tesa: quella di oggi è la temutissima tappa del pavé, una parte del percorso comprende le pietre della Parigi-Roubaix, “l’inferno del Nord”. In una giornata asciutta, questa corsa è polvere; in una giornata bagnata, è fango; in una giornata di ciclismo, è – sempre e comunque – guerra. Cento anni prima, proprio qui, si combatteva la Grande Guerra: il dipartimento del Nord era stato il teatro di stragi immani sul fronte franco-tedesco, e la Parigi-Roubaix veniva considerata il suo equivalente ciclistico, una lotta per la sopravvivenza, da cui bisognava sentirsi fortunati a uscirne illesi. E un po’ così, lotta per la sopravvivenza, cento anni dopo, la Parigi-Roubaix continua a esserla. I corridori dicono: portare la bici al traguardo.
Nibali guida la classifica del Tour de France già dal secondo giorno. Ha vinto, a sorpresa, sorprendendo anche sé stesso, la York-Sheffield, la seconda tappa interamente corsa in territorio inglese, sotto la pioggia: uno scatto nel finale aveva sorpreso gli avversari, forse timorosi, forse infreddoliti, forse impreparati a rispondere a quella che sembrava soltanto una provocazione. Si dice che la maglia gialla, così come la maglia rosa, sia importante indossarla l’ultimo giorno, non il primo e neanche il secondo. Ma Vincenzo pensa che sia importante indossarla, prima o poi, meglio poi che prima, ma anche meglio prima che mai. Perché la maglia gialla è onore, è orgoglio, è privilegio, e fa la storia.
Alla firma del foglio di partenza da Ypres gli avversari di Nibali – il campione uscente britannico Chris Froome, con i suoi compagni l’australiano Richie Porte e il gallese Geraint Thomas, e poi gli spagnoli Alberto Contador, Alejandro Valverde e Purito Rodriguez, lo statunitense Tejay Van Garderen… – lo guardano, lo osservano, lo scrutano. C’è elettricità, c’è timore, c’è attesa. La pioggia spoglia, rivela, mette a nudo, a rischio, anche se i corridori indossano le mantelline per proteggersi dalla pioggia, e sotto le mantelline hanno giubbetti impermeabili per non patire il freddo. Più a loro agio sembrano gli specialisti delle classiche del Nord, abituati al freddo e al pavé, e più muscolosi, più pesanti: lo slovacco Peter Sagan, lo svizzero Fabian Cancellara, l’olandese Niki Terpstra…
Al raduno di partenza ci sono, come sempre, anche i campioni di ieri a onorare quelli di oggi: il belga Eddy Merckx, è lui che ha la bandierina a scacchi in mano, perché è lui che darà il via, poi i francesi Bernard Hinault, Bernard Thevenet e Gilbert Duclos-Lassalle, il più amato è il loro vecchio connazionale Raymond “Poupou” Poulidor, che indossa una camicia gialla (lui, che la maglia gialla, in 14 Tour de France, non è mai riuscito a indossarla neppure per un solo giorno), e “Poupou” firma autografi e si concede per i “selfie” dei suoi tifosi. E c’è anche Filippo, il re del Belgio.
Dieci minuti prima del via una campanella ordina ai corridori e al pubblico di abbandonare il villaggio e di portarsi alla partenza. Pronti, via, il via ufficioso alle 13.48 dal cuore della città medievale. Davanti, i leader delle classifiche (la maglia gialla Nibali, la maglia verde Sagan, la maglia a pois Cyril Lemoine, francese, e la maglia bianca Romain Bardet, francese), protetti fino all’ultimo istante dagli ombrelli delle miss. Dietro, tutti gli altri, confusi, uniti, silenziosi. In tutto, 194 dei 198 che hanno cominciato il Tour quattro giorni prima. I corridori pedalano ordinatamente dietro l’ammiraglia di Prudhomme. Il via ufficiale dopo una passerella di tre chilometri e mezzo per le vie della città, alle 13.57, dal cimitero militare. Qui il silenzio si fa ancora più pesante, e consapevole.
Poi, ed è una fortuna, la corsa. Chilometro zero. Striscione. L’andatura è subito forte, si va a più di 50 all’ora. Per spezzare l’attesa, per combattere il freddo, forse anche i timori, se non la paura.
Il Tour de France è la più importante e imponente corsa per i professionisti del ciclismo. Nacque nel 1903, sei anni prima del Giro d’Italia. Consisteva in sei tappe, per un totale di 2428 chilometri. Si iscrissero in 80, partirono in 59, arrivarono in 21. Vinse Maurice Garin, uno spazzacamino valdostano, che però era emigrato in Francia per trovare lavoro e, trovato il lavoro, come per ringraziamento, aveva scelto la cittadinanza francese. Garin era un faticatore inesauribile: in quel primo Tour staccò il secondo, il francese Lucien Pothier, di quasi tre ore, e il terzo, anche lui francese, Fernand Augereau, di quasi quattro ore e mezza.
Garin – un’aria più vecchia dell’età, i capelli corti e i baffi a manubrio, e un’altezza, 1,62, ideale per intrufolarsi nei camini ma anche per scalare le montagne o superare, ma sotto, i passaggi a livello chiusi – era una stella: nella prima Parigi-Roubaix della storia, nel 1896, era arrivato terzo, poi aveva vinto quelle del 1897 e 1898. E in quei giorni ottocenteschi era ancora italiano! Invece, nel secondo Tour, Garin venne squalificato perché durante la corsa aveva preso il treno… Dalla vittoria di Garin a oggi sono passati 111 anni, e il Tour si è fermato solo per le guerre: dal 1915 al 1918 per la Prima guerra mondiale, dal 1940 al 1946 per la Seconda. Poi si è sempre ingigantito, per fama, gloria, prestigio, anche soldi. Finora, cinque corridori italiani hanno conquistato otto volte il Tour de France: Ottavio Bottecchia nel 1924 e 1925, Gino Bartali nel 1938 e 1948, Fausto Coppi nel 1949 e 1952, Felice Gimondi nel 1965 e Marco Pantani nel 1998.
Dopo la vittoria di Pantani, è cominciata l’era di Lance Armstrong. Il texano ha scritto la storia: sette vittorie consecutive. Ma quando si è scoperto che, per vincere, lui e la sua squadra si erano dopati, le sette vittorie gli sono state cancellate. E pensare che Nibali credeva in Armstrong e nella sua favola: da un letto d’ospedale, operato di cancro al cervello, al podio sui Campi Elisi, padrone del mondo, almeno di quello che va a pedali.
Intanto il gruppo si è allungato. E poi già spezzato. Pozzanghere, rotaie, spartitraffico. Nibali – dorsale 41 – sa che deve concentrarsi soltanto sulla corsa, sgombrare la mente da pensieri e preoccupazioni, liberare il corpo da emozioni e timori. “Qui, oggi, non ci si può distrarre neppure per un solo istante”, ha detto il direttore sportivo Beppe Martinelli, nella riunione del mattino, sul pullman, prima della partenza. “Qui, oggi, ci giochiamo il Tour de France”, ha ripetuto Martinelli, cercando di cogliere lo sguardo dei suoi corridori e penetrare, se non nella loro anima, almeno nella loro testa. Non sono quei 2 secondi di vantaggio di Nibali sui suoi diretti avversari, ma sono quei 13 chilometri di pavé che li separano dal traguardo, e che sono rischiosi, crudeli, infidi, perfino fatali. “Qui, oggi, scriviamo la storia”, ha esclamato Martinelli alzandosi in piedi e chiudendo la riunione, convinto che la storia si faccia anche a forza di pedali.
Il primo ad attaccare è un francese, Samuel Dumoulin. “Occhio!”, urla Martinelli nella radiolina, “la miccia è già stata accesa, la corsa sta per esplodere”. E la pioggia, invece che spegnere gli spiriti, li incendia.
Nibali è circondato dai suoi compagni dell’Astana. C’è il bergamasco Alessandro Vanotti, il suo compagno di camera, magro e saggio. C’è l’olandese Lieuwe Westra, uno specialista nelle corse del Nord. C’è il danese Jakob Fuglsang, fin troppo bello per fare il corridore, che potrebbe fare il capitano, ma in un’altra squadra, e che qui a Nibali ha giurato fedeltà. C’è Tanel Kangert, un estone con la faccia pulita da ragazzino. C’è Andriy Grivko, un ucraino che abita in Toscana. Ci sono i kazaki Maxin Iglinskiy e Dmitriy Gruzdev, impenetrabili. E c’è anche Michele Scarponi, un marchigiano smilzo, allegro, scatenato, soprannominato “l’aquila di Filottrano” perché in salita va forte, qualche volta addirittura… vola. E “Scarpa”, come sempre, cerca di sdrammatizzare: “Ragazzi, ricordiamoci bene questi posti, ché l’anno prossimo veniamo a passarci le vacanze con la famiglia”.
Il secondo ad attaccare è un estone, Rein Taaramae. “Tira vento di guerra”, pensa Nibali. “Dentro!”, ordina Martinelli nella radiolina. Sembra che il comando di Martinelli sia stato ascoltato da tutti i corridori, non solo quelli della sua Astana. Infatti, nella scia di Taaramae, che ha già raggiunto Dumoulin, si lanciano i tedeschi Tony Martin e Marcus Burghardt, il colombiano Janier Acevedo, il francese Tony Gallopin, gli australiani Simon Clarke e Matt Hayman, e poi anche Westra, il compagno di Nibali. Totale: nove uomini in fuga. “E bravo il nostro olandese volante”, commenta Martinelli nella radiolina. Aggiunge: “Tu, Westra, davanti, dai cambi regolari”, “E gli altri, dietro, a ruota, ma sempre in testa al gruppo”. Ricorda: “Tutti per Nibali”. E conclude: “Oggi è vietato addormentarsi in corsa”.
Nibali studia le facce dei suoi avversari. Nel ciclismo le facce non simulano, non fingono, non nascondono: è anche per questo che la maggiore parte dei corridori usa gli occhiali scuri anche in giornate buie. Nibali studia le facce a cominciare da quella di Froome: “Oggi mi sembra ancora più magro, più bianco, più teso, perfino più sgraziato del solito”, pensa Nibali. E conclude: “Su queste strade è a disagio, in difficoltà”. Froome era caduto nella seconda tappa, porta i segni delle ferite e delle medicazioni su gomito e ginocchio, le cadute creano dubbi e certi dubbi sono difficili da nascondere o cancellare. Froome è un corridore misterioso: nato in Kenya, da ragazzo era l’unico bianco in una squadra, anzi, in un gruppo di neri. Al primo Tour de France lottava fra gli ultimi per arrivare entro il tempo massimo, e c’è stato un Giro d’Italia in cui è stato squalificato per essersi fatto trainare da una macchina, poi invece è diventato fortissimo, quasi invincibile: secondo al Tour del 2012, primo in quello del 2013.
Poi Nibali valuta Contador: “In salita è sicuro, spavaldo, spettacolare, un ballerino acrobatico, invece sotto la pioggia sembra paralizzato”. E commenta: “Anche per lui oggi sarà una giornataccia”. Contador è un fuoriclasse: ha già vinto tre Tour de France, due Giri d’Italia e due Vuelta di Spagna, anche se un Tour e un Giro gli sono stati revocati perché risultato positivo a un controllo antidoping. Lui si è difeso sostenendo di avere mangiato bistecche contaminate da farmaci, a sua insaputa.
Intanto il gruppetto dei nove fuggitivi perde i pezzi. Il primo è Acevedo: cade, si ferisce, viene ripreso. Nibali pensa: “Per lui sarà dura arrivare al traguardo”. Il secondo è Burghardt: la sua squadra lo richiama in gruppo perché ha deciso che è meglio che aiuti i suoi capitani Van Garderen e il belga Greg Van Avermaet stando accanto a loro, non davanti a loro. “Invece tu, Westra, rimani davanti, così dietro non dobbiamo tirare”, sentenzia Martinelli.
“Bene così – pensa Nibali -, la fuga va”. E per un attimo disobbedisce al comandamento di tenere alta la concentrazione. La bicicletta è una macchina del tempo e della memoria: chi ha detto che pedalare aiuta a ruminare i pensieri?
Nibali ricorda quella volta, la prima volta, la prima corsa: a Sant’Antonino vicino a Barcellona Pozzo di Gotto, dalle parti di Milazzo. “Un circuito da ripetere più volte. La maglia con la scritta Vivai Pietrafitta. La bici Vetta. L’obbligo di rimanere in gruppo il più possibile. Poi quel tizio che scatta, io che lo inseguo, fino all’ultimo giro, quel tizio sempre più imbufalito, io sempre più incollato alla sua ruota, lo sprint, quel tizio primo e io secondo, ma tutti che festeggiano me come se avessi vinto io e non lui. E mio padre che mi confida che il signor Pietrafitta era così emozionato che si è fumato un intero pacchetto di sigarette”.
“Attenzione: Froome è caduto”. E’ il km 29. Nibali viene avvertito da Martinelli, via radio, attraverso gli auricolari. Froome si rialza, è aspettato da quattro compagni di squadra della Sky, che lo aiutano a rientrare in gruppo. Ha una faccia grigia, grigia come la pioggia, come la strada, come il cielo.
“Froome sta rientrando”, avverte Martinelli, che sull’ammiraglia siede nel posto del navigatore. Martinelli dice: “Ma si vede che ha una paura boia”. E incita: “Dacci dentro, Vincenzo”.
Vincenzo ci dà dentro. Quando un avversario cade o fora, una volta se ne approfittava per attaccare, invece adesso si è combattuti fra l’istinto dell’attacco e la ragione di attenderlo, senza infierire. Lo chiamano “fair play”, ma tutti sanno che è un concetto vago: dipende da dove succede, da quando succede, da a chi succede.
Si continua a pedalare a 50 all’ora. Si continua anche a cadere, e i tratti in pavé non sono ancora cominciati. E continua anche la fuga dei sette, che però diventano sei, cinque, quattro: Gallopin, Clarke, Hayman e Westra. “Bravo il nostro olandesone”, lo incita Martinelli. Così, dietro, Nibali può sempre risparmiare fiato, sostenuto da un altro compagno, Fuglsang.
La prima ora vola via: 49,2 chilometri. “Siamo matti, siamo tutti matti”, commenta Nibali. “Se non fossimo tutti matti, non avremmo fatto i corridori”, spiega Vanotti. “E matto sarà lo scacco che oggi molliamo agli altri”, profetizza Scarponi.
E’ una gara a selezione naturale. Alexander Kristoff, norvegese, cambia la bici. André Greipel, tedesco, soprannominato “il Gorilla”, cade. Cade anche Arnaud Démare, il campione di Francia. Cade anche il tedesco Marcel Kittel. Si rialzano, tornano in bici, ricominciano a pedalare, ma staccati. Il gruppo perde i pezzi, si sgretola, si sbriciola.
La corsa diventa un martirio, il percorso un calvario.
Altre cadute. A terra anche Tejay Van Garderen e Valverde. E mancano ancora 70 chilometri all’arrivo.
Al km 60 la fuga ha più di tre minuti di vantaggio. Sarà il massimo vantaggio della giornata.
“Froome è caduto un’altra volta”, esplode Martinelli alla ricetrasmittente in ammiraglia. “Incredibile”, si lascia sfuggire il direttore sportivo, incollato a radio-corsa e al minischermo televisivo. E’ il km 85. “Stavolta non si rialza… cioè, si rialza, ma non risale in bici… si avvicina all’ammiraglia… stanno parlando… il meccanico gli prende la bici e lui sale in macchina… Froome si è ritirato”.
Il vantaggio dei fuggitivi è già sceso a due minuti e mezzo.
Nibali non ha pensieri, se non quello di lottare, di sopravvivere, di lottare per sopravvivere. Pedala, pedala, pedala. Pedala, e ogni tanto bevi. Pedala, e ogni tanto mangia. Pedala, e ogni tanto pulisci gli occhiali. Pedala, e non perdere mai di vista la strada. Pedala, e cerca sempre la migliore traiettoria. Pedala, e scegli sempre la migliore ruota. Pedala, e pedala sempre come se tu fossi una parte della bicicletta, il motore, ma anche l’anima, o come se la bicicletta fosse una parte di te, le gambe, oppure le ali. Pedala, e senti quello che ti dice il corpo. Pedala, e ascolta se il pedalare non è una musica, un ritmo, un’andatura, un’armonia, una canzone. Pedala, Enzino, pedala e basta.
Sta per arrivare il primo tratto di pavé. Temutissimo. E’ quello del Carrefour de l’Arbre, l’incrocio dell’albero. Il punto decisivo della corsa potrebbe essere proprio questo: è un falsopiano, leggermente in salita, 2100 metri di pietre irregolari e, stavolta, scivolosissime. E’ uno dei punti storici e simbolici della Parigi-Roubaix. Nibali è concentratissimo: suo padre gli ha raccontato, fino alla noia, di quando Francesco Moser si era lanciato verso il primo settore di pavé con tanto impeto da volare a terra non appena la sua ruota aveva toccato le pietre bagnate. Poi, però, si era rialzato ed era andato a vincere.
Comincia la pietraia. Le bici sobbalzano, le ruote rimbalzano, i corridori vibrano. Le pietre sono sconnesse come sulle strade consolari degli antichi romani. I corridori sembrano, forse sono gladiatori. “E’ la prima volta che la faccio in vita mia”, pensa Nibali, quasi impaurito di ammetterlo perfino a sé stesso. “Però”, cerca di incoraggiarsi, “non è poi così diverso dalle strade dove andavo da piccolo”. Strade bianche, sterrate, piene di buche e di sassi, dove era indispensabile fare acrobazie per rimanere in sella. “Finora il pavé l’ho visto sui libri o alla tv, ma da vicino, sopra, addosso, è tutt’un’altra cosa”. La terra trema, la bici trema, tremano anche i corridori. E le borracce schizzano acqua o saltano per aria e ricadono sulle pietre. E fra gli spettatori c’è perfino qualche ragazzino che, sfidando bici e moto, cerca di conquistare le borracce come un trofeo.
L’”ardoisier” – è l’addetto a segnalare i distacchi, seduto dietro un motociclista – mostra la lavagna: adesso fra fuggitivi e inseguitori ci sono due minuti.
Anche la seconda ora è volata via: la media è scesa a 47,8 chilometri orari, ma rimane altissima. Una velocità folle, se si pensa alle condizioni in cui si corre. Davanti ci sono i verdi della Cannondale, la squadra di Sagan, che vuole vincere la tappa. E il gruppo si spezza in due parti: davanti Nibali, Sagan, Contador, Bardet, Lemoine e il portoghese Alberto Rui Costa, dietro Kwiatkowski, Talansky, il francese Pierre Rolland, il lussemburghese Frank Schleck… E Valverde rientra nella prima metà del gruppo. “E’ un cagnaccio”, commenta Nibali.
Comincia il conto alla rovescia. Manca una cinquantina di chilometri all’arrivo. E comincia il secondo tratto di pavé, quello di Pont-Thibault, 1400 metri. Nibali svirgola, derapa, rischia di cadere, ma rimane fra i primi del gruppo, invece Contador e Valverde sono a disagio, tirano i freni, arretrano nella seconda parte del gruppo. Cade Andrew Talansky, americano, un altro dei favoriti al Tour dopo avere conquistato il Giro del Delfinato.
“Contador e Valverde sono rimasti indietro”, conferma Martinelli.
Nibali cerca di ricordare quello che ha imparato studiando le imprese di Moser: “Non stringere troppo il manubrio, non affondare troppo le pedalate, non perdere mai di vista la strada”. Nibali cerca di fare quello che ha ascoltato dai racconti di Franco Ballerini: “Trovare quel ritmo, e quella armonia, e infine quella velocità, per poter galleggiare sulle pietre”. Nibali cerca anche di ritrovare quelle emozioni, e soprattutto quella voglia, e quella felicità, di quando andava per i sentieri, da piccolo, in Sicilia, su una mountain bike. E di quando tornava a casa, la sera, sporco e sudato, magari anche con le ginocchia e i gomiti sbucciati per una caduta, e la mamma Giovanna alzava gli occhi al cielo e sospirava, e il papà Salvatore corrugava la fronte e minacciava di segargli la bici.
Segargli la bici? Un giorno il papà Salvatore gliela segò veramente. Vincenzo aveva dieci anni quando portò a casa la pagella del primo quadrimestre, su cui era scritto: “Il ragazzo litiga violentemente con i compagni di scuola all’uscita di classe”. Salvatore – che gli amici avevano soprannominato “il Lupo” per il suo spirito anticonformista – annunciò: “Adesso ti sistemo io”. Vincenzo pensava a un castigo, come non uscire di casa, e temeva una pena, come una sberla o una cinghiata, ma il papà Salvatore aveva deciso per qualcosa di peggio. Vincenzo seguì il papà in cantina, e quando il papà aprì l’armadietto degli attrezzi e prese una sega di metallo, Vincenzo capì. Il papà Salvatore avrebbe segato la bici. Dicendo: “E noi che lavoriamo per farti studiare… Adesso ti faccio vedere io…”.
L’”ardoisier” espone la lavagna: 1’18” tra fuggitivi e gruppo maglia gialla, 30” tra gruppo maglia gialla e Contador.
Alé, alé, alé. Lo ripete Martinelli, lo dice con gli occhi Fuglsang, se lo dice anche Nibali. E’ il momento di fare la differenza. Ha 54” di distacco dai fuggitivi, ma 20” di vantaggio su Bardet e Van Garderen, e 45” su Contador. Alé, alé, alé.
Davanti Taaramae cede, e rimangono in sei: Dumoulin, Westra, Martin, Gallopin, Clarke e Hayman. Dietro cadono il belga Jurgen Van den Broeck e l’americano Talansky. E dal gruppo di Nibali evadono l’olandese Lars Boom e il belga Sep Vanmarcke. “Quei due vanno come il vento”, pensa Nibali.
Ai meno 34 all’arrivo, Martinelli ordina a Westra di rallentare e aspettare Nibali. Westra si mette subito a tirare. Ai meno 30 Boom e Vanmarcke sono ripresi, ai meno 26 si esaurisce la fuga, e il gruppo, davanti, è composto da 18 corridori. Contador ha più di un minuto di ritardo. Ai meno 17 davanti sono rimasti 12 uomini, che stanno per affrontare il penultimo tratto di pavé, quello da Wandignies-Hamage a Hornaing, 3700 metri che non finiscono mai. Westra insiste. Quando un corridore va forte, fortissimo, si dice che vada come una moto. Nibali lo vede proprio così: trasformato in una moto. E Westra fa selezione: attaccati alla sua ruota rimangono soltanto Nibali, Fuglsang, Boom, il belga Jens Keukeleire, Cancellara, Lemoine e Sagan.
I corridori hanno maschere di fango.
Meno 10 all’arrivo, ed è qui che Nibali si dice: “Enzino, ora o mai più”.
E’ asfalto. Nibali allunga. Gli tengono dietro solo Fuglsang e Boom. Gli altri mollano: spenti, sfiniti, esauriti, anche chi – come Sagan e Cancellara – non aspettava altro che queste pietre per primeggiare, e questo tempaccio per decollare.
“Dai, Enzino”. Sei chilometri e mezzo di strada, e l’ultimo tratto in pavé, da Hélesnes a Wallers, 1600 metri. Boom accelera, veleggia, si allontana. Nibali e Fuglsang lo seguono, non lo inseguono.
“Dai, Enzino”. Boom ha qualche secondo di vantaggio, alza le braccia al cielo, e vince: “Bravo”, pensa Nibali. Fuglsang secondo a 19”: “Bravissimo”, gli dice Nibali. Terzo Nibali, dietro a Fuglsang: “E adesso aspettiamo gli altri”. Avvolto da una coperta, rimane sul traguardo. Quarto Sagan a più di un minuto, poi Cancellara. Un altro italiano, Matteo Trentin, a 1’21”. Il tempo passa. Il tempo è dalla parte di Nibali. Arriva un gruppetto di fantasmi: c’è Tony Martin, c’è Gallopin. Sono trascorsi più di due minuti. I secondi scorrono, inesorabili. Ecco finalmente anche Contador: a 2’25”.
Interviste al volo, fra palco tv e zona mista. Boom: “La corsa più bella della mia vita”. Nibali: “Bisogna rimanere con i piedi per terra”. Westra: “Sapevo che Vincenzo avrebbe potuto farcela”. Nibali: “Bisogna vivere alla giornata, tappa dopo tappa”. Lemoine: “Tanto di cappello a Nibali”. Nibali: “Non è successo nulla, tutto può ancora succedere”. Contador: “E’ stata una giornata molto complicata”. Nibali: “Oggi è andata bene a me, domani chissà”. Sagan: “Contento di non essere caduto, ma deluso di non avere vinto”. Nibali: “Il Tour è ancora lungo, lunghissimo, e siamo appena arrivati in Francia”. Dave Brailsford, team manager di Sky: “Una tappa devastante per Froome e tutta la nostra squadra”. Nibali: “Il pavé? In certi momenti mi sembrava di essere dentro una lavatrice”. Scarponi: “Evviva, cento di questi giorni”.
Poi il podio. Mazzo di fiori e bacio delle miss per Boom, vincitore della tappa. Mazzo di fiori e bacio delle miss per Nibali, maglia gialla, primo in classifica. Mazzo di fiori e bacio delle miss per Sagan, maglia verde, primo nella classifica a punti. Mazzo di fiori e bacio delle miss per Kwiatkowski, maglia bianca, primo nella classifica dei giovani. Mazzo di fiori e bacio delle miss per Lemoine, maglia a pois, prima nella classifica della montagna. Premio per la Astana, prima nella classifica a squadre. E premio della combattività a Westra.
Interviste in sala-stampa. Giornalista: “Davvero era la tua prima volta sul pavé?”. Nibali: “Sul pavé sì, sulle pietre no. Da piccolo, sulla mountain bike, che io chiamavo ‘mauntebbai’, non esisteva più un centimetro quadrato, sterrato o accidentato, della provincia di Messina dove non avessi pedalato”. Giornalista: “C’è un segreto da rivelare”. Nibali: “Mio padre diceva sempre che la bicicletta è libertà. E spiegava che quando la vita si fa noiosa, o arrivano le preoccupazioni, per cancellare i cattivi pensieri basta saltare in sella e pedalare forte. Ed è quello che ho fatto anche oggi”. Giornalista: “A che cosa pensavi quando pedalavi sul pavé?”. Nibali: “A quello che ripeteva Albert Einstein: la vita è come andare in bicicletta, se vuoi stare in equilibrio, devi pedalare”. Giornalista: “Sei stato un eroe”. Nibali: “Gli eroi erano quelli che andavano, sono quelli che ancora lavorano in miniera. Noi siamo dei privilegiati, andiamo in bicicletta”. “Ultime due domande”, avverte l’addetto stampa del Tour de France. Giornalista: “E’ stata un’impresa?”. Nibali: “Niente confronto a quello che fece Alfonsina Strada, l’unica donna nella storia ad avere corso il Giro d’Italia, ma quello degli uomini”. Giornalista: “Una dedica a questa maglia gialla?”. Nibali: “Sempre a loro due, mia moglie Rachele e nostra figlia Emma Vittoria”.
Nibali scende dal palco, si nasconde in un angolo, estrae il telefonino e chiama casa. “Vincenzo!”. “Rachele!”. “Bravo, hai vinto”. “Ma no, sono arrivato terzo”. C’è anche la figlia, Emma. “Emma? Sono il tuo papà”. “Pa-pà”. “Emma, sono lontano, ma ti sento vicina. E ti vorrei svelare un piccolo segreto: oggi, in corsa, mi sei stata vicinissima, addosso, dentro, in tasca. Ho preso una tua fotografia, l’ho avvolta in una busta di plastica perché non si bagnasse e non si sciupasse, e l’ho messa in tasca, una delle tasche dietro, e da dietro mi hai spinto fino all’arrivo”. Nibali si asciuga la faccia – era una goccia di sudore o una lacrima sul viso? -, sale sull’ammiraglia dell’Astana, va in albergo, entra in una camera, fa la doccia, si stende sul letto, si affida ai massaggi di Michele Pallini, e finalmente si rilassa, si riposa, chiude gli occhi. Ed è qui che, finalmente, i pensieri si sciolgono in chilometrici sogni. Se il primo sogno è vincere il Tour de France, quel sogno diventerà realtà.
Testo e interpretazione: Marco Pastonesi
Sound design: Brand&Soda