A Fiera di Primiero c’è un cartello. Anzi, per dirla meglio: a Fiera di Primiero, i cartelli sono molti, come in ogni città toccata dal Giro d’Italia, ma noi ne notiamo uno in particolare. I cartelli sono tanti perché la gente ha voglia di parlare con i ciclisti del gruppo e le scritte sono un modo per farlo e per farlo in maniera universale: scrivere un nome ed un cognome è il modo migliore per arrivare dall’altra parte, per farsi capire da tutti, perché non serve traduzione, il pensiero arriva, è come sentirsi chiamare. Si scrive sulle strade oppure su un pezzo di carta o di cartone ed il messaggio è trasmesso, a qualunque distanza, quasi fosse un messaggio in una bottiglia, da un’isola lontana. Dicevamo, ne abbiamo notato uno, la scritta, colorata: “Sei il mio campione”. Un adulto, una bambina, un numero, il dorsale, il 215, ed una bicicletta: nient’altro su quel cartello. A tenerlo fra le mani è un’altra bambina, la figlia di Andrea Pasqualon: il padre è in corsa al Giro d’Italia. Partiamo da qui, non solo perché la partenza è l’inizio della giornata, partiamo soprattutto da qui perché oggi, più che in altri giorni, molte cose che sembrano solitamente importanti, fondamentali, sono diventate particolari. Sì, quella bambina, con la parola “campione”, intendeva solo in parte quel che intendiamo tutti: evocava quella tipologia di campione, certamente, colui che vince tanto, che vince spesso, magari corse importanti, ma parlava, in realtà di qualcosa di diverso, di un sentimento: quello che permette di vedere, di sentire, sarebbe meglio dire, attentamente quello che fanno le persone e di rendergli merito, di far davvero sfumare tutto il resto in un particolare.
Lo fanno quasi tutti i figli con i loro padri, ma non sono gli unici. Lo fa il gruppo con la fuga, quando la riprende ed in molti, se non si è in fasi concitate di gara, si voltano verso i fuggitivi per un complimento, un gesto di assenso, per dire “comunque bravi”. Nelle retrovie accade spesso, succede fra gli ultimi, che magari faticano a tenere le ruote del plotone, ma nella fuga si riconoscono. Eppure, a guardare il risultato, sono più le fughe che non arrivano di quelle che arrivano, però l’abbiamo detto, alcune cose diventano dei particolari e si sente altro, si ascolta altro. È la storia, ancora una volta, di Mirco Maestri, Andrea Pietrobon, Filippo Fiorelli e Mikkel Honorè: i fuggiaschi della diciottesima tappa, verso Padova. Dicono che Honorè abbia sempre un libro a portata di mano e che i trasferimenti sul bus li impieghi studiando i luoghi in cui si arriva: in fondo, è un modo per rendere un dettaglio tante cose insormontabili, perché la stanchezza e la fatica, dopo tre settimane fanno assomigliare tutte le strade, fanno “pesare” di più qualunque gesto, persino il continuare a sperare, fondamentale per i ciclisti. A loro, quando mancano sessanta chilometri al traguardo, si aggiunge anche Edoardo Affini: un uomo pericoloso ciclisticamente parlando, uno di quelli che affronta il vento e spesso lo batte. Insomma, uno di quelli da non fare andare via. Il gruppo lo sa e agisce di conseguenza: si dice “tenere a bagnomaria”, vuol dire controllare e aspettare, vuol dire soffrire.
Perché lo si fa? Forse perché pensando a quello che può succedere, la vittoria, pure quello diventa un dettaglio. Forse perché “essere in fuga al Giro d’Italia” è la situazione che tutti i ciclisti hanno sempre sognato e si farebbe a prescindere. Il resto, pur importante, diventa anche qui un particolare. C’è una visione di mezzo. Le persone a bordo strada seguono lo stesso principio: spesso le abbiamo viste assiepate in tratti in cui non c’era nulla, forse un distributore di benzina, in tratti in cui non sarebbe successo nulla, quasi certamente. Erano in una festa, in una celebrazione, il resto era un dettaglio di poco conto, pur se nella quotidianità non si sceglierebbe quel posto per aspettare, in una giornata dalle nuvole pazze. Tim Merlier, “il Mago”, soffia a Jonathan Milan il poker, in questo Giro d’Italia. Lo fa in una volata confusa, frenetica, dove i particolari sono realmente il centro del mondo, dove in un attimo si perde la ruota del proprio “treno” e tutto diventa più difficile, mentre Simone Consonni cerca invano di ristabilire il contatto, di riagganciare il legame. Si lancerà da solo, fra le insidie di un gruppo al massimo dello sforzo, e centrerà il secondo posto: deluso, come lo è un velocista quando non vince. Seduto accanto a una transenna verrà consolato, occhi negli occhi: il tutto di un ciclista, il disappunto per un risultato, è in fondo un particolare per chi lo aspetta a fine tappa e pensa alle insidie di una giornata, di una volata.
Alberto Dainese è senza parole accanto a un’altra transenna: quarto posto, il miglior piazzamento di tutto il Giro d’Italia, come a Napoli ma oggi è peggio. Perché si è più vicini a casa e perché le occasioni, avvicinandosi alla fine sono meno, sempre meno e per un ciclista è sempre più difficile. Ora quella delusione occupa l’intero suo universo, chissà che fra qualche tempo non diventi un dettaglio di una giornata in cui era lì a giocarsela. Le cose cambiano di peso con il tempo, per questo vanno avanti gli uomini, per questo vanno avanti le biciclette.