Erano le strade del Giro dell’Austria di diversi anni fa. Paolo Savoldelli, quel giorno, non riusciva proprio ad andare avanti sulle pendici del Großglockner. Ad un certo punto, Giovanni Fidanza, suo direttore sportivo, lo fece scendere di bici e salire in auto. Savoldelli si ritira, guarda avanti, alla stagione. Mentre è in auto con Fidanza, l’ammiraglia offre assistenza agli ultimi del gruppo, alla rete, ai velocisti che quel giorno pagheranno dazio. Ad un certo punto, vedendo la fatica degli ultimi ad arrivare in cima, Savoldelli si volta verso Fidanza: «Ma questi fanno sempre questa fatica? No, se avessi dovuto fare così tanta fatica io non avrei fatto il ciclista».
L’esempio è calzante e Fidanza, ora direttore sportivo di Isolmant Premac, ce lo racconta per spiegare come la concezione dei grandi campioni sia qualcosa di particolare, perché, spesso, i grandi campioni ragionano con le proprie gambe e possono arrivare a dare per scontato che tutti abbiano quelle stesse gambe, quella stessa forza. Tutto parte dal ritiro di Anna van der Breggen che il prossimo anno salirà in ammiraglia della SD Worx. Quanto è difficile per un campione passare dall’altra parte, dismettere la propria vita da atleta e ripartire da zero? Quali saranno i punti focali che l’olandese dovrà avere presente? Sì, perché i campioni sono coloro a cui, almeno nell’immaginario collettivo, viene tutto facile e quando ti viene tutto facile è particolarmente complesso immedesimarsi nella fatica altrui, nelle cadute e in ciò che è difficile, se non impossibile.
Giovanni Ellena, direttore sportivo di Drone Hopper – Androni giocattoli, premette che non c’è una regola, una legge, ma qualche considerazione si può fare. Qualcosa che vada oltre Anna van der Breggen, e provi a costruire un discorso generale. Ci dice che a suo avviso per essere un buon direttore sportivo devi avere provato, nella vita, non per forza in sella, a non essere capace di fare qualcosa, devi avere sentito di essere “fra gli ultimi” in qualcosa. «La regola è la fatica, da lì viene l’umiltà. I ciclisti sono umili perché prendono spesso sberle, se fai il ciclista diventi per forza umile perché la vita ti distrugge qualunque presunzione di superiorità. Mi viene da pensare che quando vinci sempre, quando vinci spesso, hai meno difese contro la frustrazione perché ci sei meno abituato. Un grande campione che sale in ammiraglia deve cercare di ricordare quella volta in cui ha fallito e si è sentito un nulla prima di parlare alla squadra».
Il punto non è che i grandi non sperimentino la fatica, anzi. Il punto è che per doti, talento, riescano ad andare facilmente oltre quella fatica. In un ruolo da direttore sportivo, colui che segna una strada, una via, è fondamentale cancellare ciò che c’è stato prima e ripartire da capo. Franco Pellizotti, Bahrein Merida, osserva: «Quando ero corridore tutti pensavano a me, avevo tutte le cure possibili. Da direttore devi offrire quelle cure ad altri. Passi da essere il primo a essere l’ultimo. Da corridore alimenti il tuo ego con le vittorie e i titoli sui giornali, la gente che ti cerca. Se un corridore della mia squadra vince una gara, in pochi verranno a fare i complimenti a me. La mia soddisfazione è nell’essere ascoltato, nella fiducia. Devi gratificarti in questo modo». Già, ma come tornano a osservare Ellena e Fidanza è un passo complesso, anche solo da accettare perché «passi da essere il primo a essere uno dei tanti. E, se non cambi testa, finisci per chiedere ai tuoi corridori ciò che avresti fatto tu, magari per dire “se lo facevo io, facevo prima. È un errore mostruoso. Se smetti, smetti. Non sei più un corridore, ma dirigi, guidi gli altri e, per farlo, ti servono caratteristiche diverse».
Le statistiche che tutti nominano parlano chiaro: sono pochi i grandi campioni che sono poi saliti in ammiraglia. Stefano Zanatta, Eolo Kometa, introduce un altro punto, provando a vedere la cosa con gli occhi dei corridori. «Forse è anche più facile accettare la fatica dell’essere ultimi o di staccarsi in salita quando sai che chi ti chiede di farla l’ha provata». Ellena continua: «Certe volte, quando non sai più come incitare, lo chiedi “per favore”. “Per favore tieni duro, arriva in cima. So cosa provi. Mi ricorderò di questa cosa. Te ne sarò grato”».
Zanatta pensa a Ivan Basso e Alberto Contador con cui collabora, seppur in altri ruoli, in Eolo Kometa. «Quando siamo in fuga, Alberto spesso dice: “Cosa ci vuole? Ora ha questi watt, come la salita cresce di pendenza, aumenta i watt e stacca tutti”. Certo, con le sue gambe. Ma quanti sono i corridori con le sue gambe? È difficile spiegarglielo perché lui ricorda le proprie sensazioni, è inevitabile». Prosegue Zanatta: «Al Giro di quest’anno siamo quasi sempre stati in fuga, il giorno in cui non c’eravamo, Basso mi ha subito detto: “Ma come? Non siamo davanti?”. Gli ho detto di stare tranquillo e di avere pazienza, gli ho detto che sempre davanti non si può essere. Ivan e Alberto stanno facendo questo percorso ed è un percorso che tutti i grandi campioni che assumono altri ruoli devono fare. Che sia in ammiraglia o altrove. Perché lì essere stati campioni non conta più». Anche perché, e qui Ellena è molto chiaro, qualunque corridore ha l’istinto a indicargli cosa fare, se non lo fa è perché non riesce, per questo non serve a nulla urlare nella radiolina.
La questione è questa: accettare di tornare a zero ed essere disponibili a imparare e quindi a sbagliare. «Un direttore sportivo ha studiato, non guida solo l’auto, conosce i regolamenti nel dettaglio e li rispetta. Conosce le regole non scritte e le rispetta. Puoi aver vinto di tutto, devi riprendere i libri e dirti che non ne sai nulla. Partire dalla prima pagina, non dai titoli. Questo è il consiglio».
Poi c’è quello su cui i campioni non hanno bisogno di consigli. Così chi ha vinto tante gare ha ben presente i punti in cui si può fare la differenza, la pressione che si dura a essere i favoriti, la responsabilità di dover vincere ed è fondamentale. «Alle Classiche del Nord- racconta Pellizotti- mandiamo direttori sportivi che le conoscano bene. Io non sarei in grado di dare buoni consigli, per il semplice fatto che molte cose non le saprei». Sicuramente, in queste scelte, aiuta il fatto di partire dalla squadra in cui hai corso, perché conosci l’ambiente e, da compagno di squadra, hai presente i punti di forza e di debolezza dei tuoi corridori. Pellizotti avverte: «È importante, ma nei primi tempi è difficile perché devi far capire che sei il direttore e non più il loro compagno». Fidanza prosegue: «L’autorevolezza non viene da ciò che hai vinto. Viene dal fatto che sai esattamente cosa dire, non consigli generali, ma dettagli. Che sai quando è il momento di parlare e soprattutto sai che non bisogna sempre parlare di gare, che gli atleti non vanno stressati altrimenti non rendono più».
In fondo, è questione di immedesimazione, anche di empatia. È questione di ricordare ciò che si è provato quando le cose andavano male, perché quando vanno bene non c’è nemmeno bisogno di parlare. Anche i campioni conoscono queste sfaccettature, sono quelle di quando non arrivi staccato di mezz’ora ma di venti secondi e perdi il traguardo che avevi inseguito. Quelle dei tuoi gregari che, staccati, sono arrivati mentre tu stavi tornando in albergo. Non è questione di ciò che si può fare o di ciò che è facile in assoluto, è questione di ciò che per il singolo è più o meno difficile. La prima cosa da ricordare per un campione che salga in ammiraglia è proprio che dirigere vuol dire aiutare gli ultimi, perché i primi la strada la trovano da soli. Per aiutare gli ultimi bisogna ricercare l’umiltà che ti fa essere ultimo anche se, nella tua carriera, sei sempre stato primo. È forse una delle cose più difficili, in assoluto, vivere delle sensazioni degli altri. Ma è inevitabile. Per capire e guidare.
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