Di Giulia Baroncini e del suo viaggio in bicicletta, da Trecenta, paese in cui è nata, a Chicago, sulle orme del viaggio di 130 anni fa, di Luigi Masetti, vi avevamo raccontato un paio di mesi fa, prima della partenza, ma, come molti dei fatti della quotidianità, l’arrivo di Giulia a Chicago, a inizio agosto, è stato diverso da come se l’era immaginato lei e da come, scrivendone, ce lo eravamo immaginato anche noi, così, al settantaquattresimo giorno lontano da casa, dalla camera riservata agli ospiti di una casa di Cleveland, una videochiamata ha riavvolto il filo del racconto. «Sto da Dio, altrochè» esclama decisa, seduta su una sedia, con una camicia hawaiana ed in mano una tazza di caffè ancora caldo, negli Stati Uniti è mattina presto, sul soffitto della camera un ventilatore le cui pale, ora, sono ferme.
«Da Chicago sono ripartita giusto l’altro ieri, avrei dovuto fermarmi tre o quattro giorni, mi sono fermata per dieci giorni e, quando sono ripartita, ero dispiaciuta, ma non era iniziata così bene. Qui non sono abituati al bikepacking, così, se vedono qualche viaggiatore in sella, lo fermano tutti e fanno le più svariate domande. A Chicago no, a Chicago mi fermavano tutti e mi dicevano solo “be careful”, stai attenta. Queste parole sono state uno schermo attraverso cui, almeno nei primi giorni, ho vissuto la città. Sapevo che la città poteva essere abbastanza complicata, a tratti pericolosa, non così, però. Alla fine, come altrove, sono state le persone a salvarmi dalle paure». Giulia Baroncini spiega che senza gli incontri, probabilmente, sarebbe potuto anche essere noioso, perché una camera d’albergo ed il paesaggio non possono bastare a colmare le giornate di un viaggio. Le persone l’hanno salvata, portandola a fare kayak e mostrandole la città mentre si muovevano su un fiume, oppure accompagnandola in vetta ad un grattacielo per guardare tutto dall’alto, ad un concerto jazz o su una ciclabile accanto al fiume: «Questi due mesi per me sono stati molto intensi, sembrano passati anni da quel nove giugno. Ero arrivata ad un punto di saturazione, forse anche per questo quel “be careful” mi aveva spaventato più del solito, ero stanca. Chicago mi ha ricaricato, le sue persone mi hanno ricaricato e adesso, al pensiero che fra un mese sarà finito tutto, provo già una sorta di malinconia. Non fatevi influenzare da quel che dice la gente, non troppo almeno, vivete le esperienze sulla vostra pelle. Ricordatelo».
Proprio ricordando questo principio, Giulia Baroncini ha preso una decisione: da Chicago è salita su un treno e a Cleveland è arrivata in treno. Quelle strade, quei drittoni, nel nulla, campi, case e asfalto, li aveva già percorsi all’andata, e ora sa cosa è giusto fare: «Non devo fare numeri, non mi interessa tornare a casa e vantarmi dei miei 8000 chilometri in bicicletta, preferisco farne meno, ma gustarmeli. Mi spiego? Voglio dare qualità al mio tempo. Avrei perso l’entusiasmo di pedalare per continuare a chiedermi quando sarebbe finita. Non aveva alcun senso». Qui Baroncini si sofferma per qualche minuto: «Gli americani parlano di “get a feeling”, avere una sensazione, provare qualcosa, ascoltare te stesso: ecco, noi dovremmo vivere e viaggiare così. Seguendo il “flow”, il flusso, di quel che c’è e di quello che proviamo e, se non sentiamo nulla di buono, forse, dovremmo anche trovare il coraggio di lasciar perdere, di andare altrove, di fare altro. Dobbiamo fare qualcosa per noi, per essere felici». Così, il tempo risparmiato percorrendo quei 500 chilometri in treno Baroncini lo utilizzerà per fermarsi qualche ora in più con le persone con cui si trova bene, per vedere meglio una città. Già altre volte avrebbe voluto farlo e non lo ha fatto, adesso questa occasione non la perderà più.
Intanto a Cleveland, i proprietari di casa, che già l’avevano ospitata all’andata, le organizzano le giornate e lei resta senza parole: partite di baseball, gite e, qualche giorno fa, il giro “Little Italy”, con amici italo-americani, che le hanno raccontato tanto della loro storia, di come sono arrivati lì, di come si sono stanziati, della ricerca delle loro origini: «Nel loro sguardo, mentre parlavano dell’Italia, ho capito quanto sia importante anche per me l’Italia. Ho sentito quanto sia bella, quanto siamo fortunati e, forse per la prima volta, ho detto ad alta voce che sono orgogliosa di essere italiana». Siamo abituati a sentirla ridere e anche ora Giulia sorride, ma i suoi occhi sono lucidi, la sua voce increspata: lei che non parla mai di mancanze, che esprime il concetto più totale di libertà, si è commossa. «Forse casa non mi manca, perché non so nemmeno io dove vorrei fosse la mia casa, la mia città. Vorrei casa fosse ovunque, mi sento a casa ovunque. Ho cambiato quattordici case, cinque o sei paesi».
Allora la casa di Giulia è in Svizzera, nelle sue ciclabili, a Lucerna, a Zurigo, in quel fiume dove le persone si tuffano, a Strasburgo, nella ciclabile lungo il Reno, a Bruxelles, che, dopo tante volte, questa volta, in bicicletta, sembrava nuova, a Canterbury, nelle sue campagne, nei suoi cottages, a Londra, nel movimento della città, a Manhattan, nelle sue luci, nella sua gente, di notte, a New York, vista, tempo fa, a Natale, ora in estate, fra qualche tempo, a settembre, in autunno, nella zona dell’Hudson, zona che di solito gli italiani non conoscono per motivi di turismo, a Buffalo, al Lago Erie, dove la vista si apre, all’Indiana Dunes National Park, nel tramonto sulle dune dorate del parco, sul lago Michigan, con Chicago sullo sfondo, casa è perfino nelle campagne e nei drittoni tra Cleveland e Chicago.
Casa è nell’ospitalità che l’America sa donare: «Si nota proprio una sorta di contentezza nell’avere un ospite a casa. Tutte le case hanno una camera in più per gli ospiti, porte aperte, ovunque. Vogliono conoscere, scoprire, se poi dici che sei italiano vanno in estasi. Qui sono abituati al mix di culture e sono affascinati dallo scambio culturale. Non avessi avuto il biglietto dell’aereo prenotato, forse avrei allungato ancora il mio viaggio. Non perché voglia vivere qui, non credo di volerci vivere, ma quelle piccole cose che accadono durante il viaggio mi danno una carica assurda per cui a casa, ora come ora, non vorrei tornare». Accanto alle parole, il rumore dei treni che Giulia ha registrato, perché particolare, diverso da quello che si sente in Europa.
C’è l’odore delle città, particolare, caratteristico, che identifica la città americana, tra mezzi di trasporto e rotaie, quello delle campagne da respirare a pieni polmoni, e c’è il sapore delle pannocchie che anche in Italia le ricorderanno l’America. C’è la lingua in cui si parla che è compagna di viaggio: «Le lingue mi piacciono perché sono una via per entrare nel profondo di una cultura. Qualcuno diceva che parlare la stessa lingua significa entrare nel cuore delle persone, è vero. Se si vuole raccontare qualcosa, ci si riesce, ci si fa capire, ma parlare la stessa lingua è un’altra cosa. Certe volte, ora di sera, sono stanca e faccio fatica anche io, ma mi sforzo lo stesso, le persone lo apprezzano. Mi sembra bello. Per questo motivo ho insegnato qualche parola di italiano a chi me lo chiedeva e ho spiegato come vediamo noi determinate cose: le domande sono un modo di avvicinarsi, di comprendersi».
Un ragazzo di Chicago le ha raccontato di aver vissuto a Bologna, anni fa, e di voler tornare in Italia in bicicletta per un viaggio in bikepacking. La bicicletta di Giulia Baroncini oggi è ferma, ripartirà domani, con un compagno di viaggio che, per quindici giorni, la accompagnerà nel tragitto di ritorno. Seguendo il flow, dei pedali, delle ruote, del vento in faccia, del viaggio.
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