Contributo di Michele Merelli
Per la mia famiglia, bici è sinonimo di vacanza. E’ occasione di ritrovarsi. Sì, perché, lavorando in pizzeria, Ferragosto, Natale e Pasqua non possono essere giorni di ferie. Così, da più di 10 anni, che io fossi in Olanda per studio o che mio fratello fosse impegnato in qualche gara ciclistica in giro per l’Italia, la bici con le sue ruote tornavano periodicamente a riunirci.
Spesso la tappa della nostra riunione era il Nord. Le classiche di primavera: “La Liegi” e “Il Fiandre”. Vacanze piene di difficoltà altimetriche, di muri in sanpietrini, alleggeriti da birre d’abazia e stroopwaffle. Alleggeriti dal pubblico che, 24 ore prima del passaggio “dei pro”, saluta da fuori casa gli amatori, supportandoli e, se fa freddo, magari offrendo caffè caldo. La loro passione, segnalata dalle bandiere col leone belga delle Fiandre, è indescrivibile. Così come è indescrivibile la macchina di turismo e di bellezza che nasce intorno a giornate come il giro delle Fiandre. L’ultima volta che ci siamo stati, mio fratello scherzava: “Sarebbe bello avere quella casa lì, con la terrazza sul Koppenberg”.
La nostra terrazza a Orezzo dà su Passo Ganda. Da qualche anno, la salita è stata introdotta come tassello fondamentale del Lombardia. La quinta, autunnale, non a caso spesso un po’ dimenticata Classica Monumento. Sancisce la fine della stagione ciclista. Quest’anno, sancisce la fine della carriera di un grande ciclista, Thibaut Pinot. Il terrazzo di Ganda è dove il collettivo artistico belga PNCHR ha deciso di rendere omaggio all’atleta, dipingendo per terra quello che ho subito associato ad un “piccolo Bansky per la Valseriana”.
Ma spesso in Italia i sogni durano meno di 24 ore. Non aspettano “i pro”. Con il tramonto del giorno, la dimostrazione di quanto non sappiamo valorizzare la nostra bellezza (e quella che dall’estero vengono a promuovere): la faccia di Pinot vandalizzata insieme ad altre scritte che aspettavano il Lombardia.
La meraviglia dell’essere al centro del mondo ciclistico è stata così sostituita da amarezza e delusione. “La street art è anche questo”, mi han risposto i ragazzi del collettivo su Instagram. Sì, è anche questo, ma non deve per forza essere questo.
Tanti i temi che si potrebbero aprire dopo quanto è successo: sulla cultura dell’andare in bici e del farlo in modo sicuro, sul valore ecologico, sociale e di salute che questo sport può dare. Tanti gli insegnamenti che può darci il Belgio, a riguardo.
Ma è la stessa bicicletta ad insegnare a pedalare e “fare sito”, spezzando parole e pensieri (e un po’ di rabbia) a colpi di costanti pedalate. Domani – in via del tutto eccezionale – anche a forza di sospiri d’attesa, di urla di supporto e di pa’ e strinù.
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