Se non avessimo già saputo che questi, a Siena, sono giorni particolari, lo avremmo capito quando, scendendo da un treno giunto in stazione con diversi minuti di ritardo, un ragazzo, mentre fissavamo la sua bici con tanto di bagagli fissati alla bell’e meglio, ha detto a qualcuno lì vicino: «Manca sempre meno». Certo non ha parlato di Strade Bianche ma a cos’altro poteva riferirsi?
Il fatto è che Siena è una città in attesa e se ne accorgerebbe chiunque. C’è qualcosa di strano nell’aria: quel guardarsi in giro con aria di cercare un ciclista , un’ammiraglia o un bus. Nei bar del centro un signore ci dice che è un’attesa particolare perché si rinnova ogni anno. Non a caso la parola che usa è appuntamento: «Credo sia parte di ciò per cui gli altri ci conoscono. Una sorta di parola chiave per capire di che città stai parlando. Di Siena si possono dire tante cose, però, quando qualcuno sa che vieni da Siena di solito ti chiede: “E il Palio?”. Dopo poco tempo, segue: “E la Strade Bianche?”». Ci dice che succede perché ogni anno, più o meno nella stessa data, le persone sanno cosa accadrà qui intorno.

L’attesa dicevamo. Quella per cui ci si volta attenti al passaggio di ogni bicicletta. In certi casi capisci lontano un miglio che non si tratta di ciclisti professionisti, ma meglio controllare, non si sa mai. Perché, poi, anche i ciclisti in queste vie del centro si comportano come un pedalatore qualunque. A tratti devono zigzagare tra la gente e allora senti “op-op-op-op” che è poi un modo internazionale di segnalare il proprio arrivo. Potrebbero dire qualcosa nella propria lingua, sarebbe intuitivo il significato, invece dicono così e qualcosa significherà. Succede spesso, succederà anche domani.

Ma non solo per questo i ciclisti sono come tutti gli altri. Un fruttivendolo racconta di quando tempo fa, qualcuno si fermò da lui a prendere qualche mela. Capiamo che non è appassionato di ciclismo, non ricorda il nome e nemmeno la squadra, ma ricorda benissimo di quelle mele «lasciate ai ciclisti della Strade Bianche». Come se queste persone avessero bisogno di sentirsi utili per i ciclisti che attraversano le loro città.

Aspettare ripetevamo. Come tutti coloro che si affacciano dai vari accessi di Piazza del Campo, danno un occhio e, se non scorgono nessuno, proseguono sulle strade a lato. Pensate il ciclismo cosa combina: si può anche aspettare a passare in Piazza del Campo per cercare qualcosa che ha a che vedere con la bicicletta. Anche se è presto, anche se non si può ancora vedere molto. Arrivano appassionati, lasciano la bicicletta appoggiata al muro, magari già sporca di terra e si siedono a bere una birra. Qualcuno parla in una lingua che non conosciamo ma ci suona familiare: qualche domanda e scopriamo che è fiammingo.

Ci sono sempre tutte le finestre che si affacciano e quei vetri da cui, ogni tanto, qualcuno guarda fuori e indugia, per esempio per quel signore con una bici d’epoca e un sigaro in bocca che intravediamo qualche secondo e poi scompare.

Per chi è in Piazza del Campo aspettare è aspettare un suono, un rumore, l’insieme delle voci «che quando c’è tanta gente non senti nemmeno la tua voce, puoi sgolarti come ad un concerto». Ci dicono così. L’attesa è diversa, ma neanche tanto, sugli sterrati, dove è un aereo nel cielo a far presagire l’arrivo del gruppo. Presagire sì, perché con quella terra che si alza avresti dei dubbi. Qualcuno ci dice che si aspetta “la nuvola” che altro non è se non l’insieme dei ciclisti.

L’appartenenza la senti quando ti dicono che sono andati a vedere qualche sterrato per intuirne le condizioni o quando li senti al bar parlare del tempo di sabato, quasi fossero loro a dover correre. Invece stanno solo aspettando. «Cos’è l’attesa?» chiediamo a una ragazza in tenuta da ciclista.
«Quella cosa per cui non vedi l’ora che arrivi la gara, ma, poi, ripensandoci speri serva ancora molto tempo perché, se arriva, finisce tutto». Questa è la voce del verbo aspettare in un giovedì pomeriggio, a Siena.