Tracce Bike Shop, Genova

Potrebbe essere una sera, una delle tante, in cui Genova ed il suo mare sono avvolti nel buio. Genova in un ritratto, come la narrava Giorgio Caproni, nella notte la pensiamo così: "Genova di solitudine, straducole, ebrietudine. Genova di limone. Di specchio. Di cannone. Genova da intravedere, mattoni, ghiaia, scogliere. Genova grigia e celeste. Ragazze. Bottiglie. Ceste. Genova di tufo e sole, rincorse, sassaiole". Le finestre delle case sono quadri illuminati e chissà cosa accade dietro le tende, mentre il mare è mosso. Chissà la felicità, la paura, la stanchezza ed i pensieri. Chissà il giorno che nascerà, il domani, ora dov'è, come suona o risuona alle orecchie, come si compone nell'immaginazione. Da qualche parte c'è Marco Bragagnolo, già nel letto, è una delle sere in cui il sonno non vuole arrivare, turbato da qualche preoccupazione: «Ti giri e ti rigiri nel letto, non funziona. Qualcuno conta le pecore in questa circostanza, ognuno ha i propri trucchi. Personalmente mi visualizzo in bicicletta, da solo, tranquillo, con una leggera brezza che mi viene incontro, magari sull'Alta Via dei Monti Liguri, dove compaiono i pascoli e la natura regna sovrana. Riempio questa situazione di dettagli e, lentamente, le braccia di Morfeo mi avvolgono». Qualcosa di simile allo stare sdraiati sul letto, occhi al soffitto, dopo il click che spegne la luce in camera, a pensare ad un amore per ritrovare serenità. La bicicletta è un amore per Marco Bragagnolo, un amore nato presto, forse un poco "immaturo", o solamente diverso, più forte, toccante, com'è nell'adolescenza, ed evolutosi negli anni, cresciuto con lui, migliorato come un buon vino, non più quel che "strazia", che toglie la fame, ma che si deposita e resta.

«Era un sentimento morboso, che, dapprima, aveva molto a che fare anche con l'estetica dell'oggetto bicicletta, che mi affascinava, mi ammaliava. Mi piaceva andare a pedalare e su quell'istante si è costruito quel che c'è ancora oggi, perché quando prendo la bicicletta percepisco qualcosa di simile ai superpoteri. A cinquantotto anni posso ancora alzarmi dieci metri sopra il terreno e isolarmi da tutto il resto, dimenticarlo, metterlo all'angolo. Non servono grandi giri, anche il bike to work è sufficiente». La prima bicicletta è quella acquistata con tutti i risparmi di un'estate di lavoro, ai tempi della scuola, quella che pareva bellissima, unica, invece, con gli occhi degli adulti e con lo sguardo di oggi, era davvero modesta, "un cancello", come si dice in gergo ciclistico. La prima mountain bike, invece, è arrivata all'inizio degli anni novanta, «quando prendevo e mi rifugiavo nei boschi a pedalare, per, poi, finire a fare portage, a portarla in spalla quella bici perchè, ad un certo punto, non avevo la forza per spingere sui pedali». Così, sulla terra, c'erano le orme della sua camminata e le tracce incise di quei copertoni. Traccia è una parola chiave, in questa storia, non solo perché "Tracce Bike Shop" è il nome del negozio di Marco, in via Monte Grappa 26r, a Genova. Si tratta di una parola importante perché può essere declinata in più modi: traccia come segno, come orma, come percorso da seguire, come indizio di un qualcosa da cercare, come ispirazione. Proprio per questo motivo Marco è legato a quel nome anche se, a dire il vero, non l'ha ideato lui, bensì il suo socio dei primi anni di attività, all'inizio degli anni duemila, «in un vero e proprio buco di trenta metri quadrati, con officina e abbigliamento all'interno». Bragagnolo aveva iniziato a lavorare in una videoteca e, nel tempo, anche quella era diventata una passione, ma il richiamo del primo negozio di biciclette a Genova era irresistibile: così forte da recarvisi sempre per dare una mano, appena poteva, ma i tempi non erano ancora maturi. Giusto qualche anno, la cessione della videoteca, un lavoro da rappresentante e questa nuova realtà che permetteva a quelle farfalle nello stomaco di trasformarsi in un mestiere, con al centro la mountain bike ed il gravel di cui Bragagnolo si prende cura da tanti anni.

«La videoteca aveva fatto germogliare una passione, un interesse, che prima non c'era. Nel caso delle biciclette è accaduto esattamente l'opposto: la passione ha costruito quel che c'è oggi. Non è facile perché la passione è un filo ossessione, tormento, qualcosa che non ti molla mai, che non ti concede respiro. Da quando lavoro con le biciclette, il mio mondo è tutto concentrato qui, pedalo molto meno, ogni tanto mi manca. Sono un lavoratore autonomo, lo sono sempre stato, e come tale non ho altra scelta che prendere il lavoro che c'è, anche se sono stanco, anche se è il periodo delle ferie. Non si va via finchè non è finita: la mia dimensione del dovere è questa». Nel 2007, il negozio viene ingrandito, ma quello che vediamo oggi è nato nel 2015: siamo sopra la stazione Brignole, il locale è esteticamente piacevole, non ci sono arredi standard, bensì molta artigianalità, oggetti pensati e realizzati da chi vi lavora, le lampade, ad esempio, costruite con vecchie ruote libere. Nel periodo dei lavori, della ristrutturazione, il negozio è restato chiuso solo dieci giorni e, se qualcuno fosse passato di lì, avrebbe visto proprio Marco ed i suoi dipendenti, la sua famiglia, a progettare, montare, smontare, ripulire, dopo aver girato per paesi e città e aver osservato altri negozi simili, qualche "bike cafè", per raccogliere idee ed imparare. «Lo dico con fierezza ed un certo orgoglio: ovviamente non potevamo occuparci noi dei quadri elettrici, i professionisti erano necessari, ma direi che circa l'80% dei lavori è stato eseguito da me, parenti e amici. Qualcosa di simile ai tempi dell'alluvione». La ferita che si cela dietro il ricordo dell'alluvione è profonda, sottolineata da un inciso spiazzante e sincero: «Era già successo nel 2011, è ricapitato nel 2014. Ricordo come ora un dialogo con l'unico dipendente che avevo in quel periodo, che mi aveva anche aiutato nella strutturazione del locale: è stato il primo a dirmi che dovevamo cambiare luogo, andare via da lì». Quel signore sapeva che Marco da molte notti non dormiva più, controllava il cielo e, se qualche goccia d'acqua cadeva a terra, restava a controllare, temendo l'ennesimo disastro.

Eppure, anche dopo l'alluvione del 2014, Tracce Bike Shop è ripartito e Bragagnolo ha progettato il nuovo negozio come mai aveva fatto prima, con una cura al dettaglio e al particolare che avrebbe ben potuto essere spazzata via da quell'acqua a fiotti e dal dover ricostruire tutto da capo, così chiedere "perché" viene spontaneo: «Il fango e la terra da quei locali non li abbiamo tolti da soli, sono venute tante persone ad aiutarci: amici, clienti, conoscenti, che non hanno esitato a sporcarsi le mani per noi. Abbiamo scoperto una vicinanza che non ricordavamo, che, forse, nemmeno sapevamo di avere. Quei sentimenti che si manifestano nei momenti più difficili. Allora siamo riusciti a trovare la forza per ripartire». A Genova, dove probabilmente il genovese puro non c'è nemmeno più, ma le sue caratteristiche, quelle stereotipate che strappano un sorriso, sono ben riconosciute e riconoscibili, oltre ad essere sintetizzate da un detto: “Sono di Genova, rido poco, stringo i denti e parlo chiaro" . A Genova, dove la bicicletta sta divenendo sempre più un mezzo di trasporto, dove si sono ampliate le ciclabili e si è investito su un nuovo tipo di mobilità, dove il clima è mite, la neve non c'è praticamente mai, e la natura è dietro al mare, ma la convivenza con gli automobilisti continua ad essere complessa e per quella serve solo il tempo, la cultura ed il reciproco rispetto, in un settore, quello delle biciclette, che, come dice Marco, ha ancora un mercato immaturo ed in periodi di difficoltà, come gli ultimi tempi, questo emerge: «Se dovessi narrare il mio lavoro tramite le soddisfazioni economiche, ti direi di lasciare perdere, di cambiare discorso. Invece non te lo dico, perché per descrivere il mio lavoro non c'è altro di meglio di raccontarti che, nonostante i sacrifici, le rinunce, non trovo, nemmeno nel pensiero, un mestiere in grado di farmi stare meglio e rendermi più felice di quanto lo sia oggi. A questo potrei aggiungerti la voglia di imparare, senza cui non avrebbe senso essere qui. Senza l'umiltà di cosa staremmo parlando?».

Da questa percezione deriva il bisogno, la necessità costante, di imparare, soprattutto rispetto alla bicicletta, un oggetto, un mezzo di cui la conoscenza difetta ancora oggi, pur con tutte le differenze date dalle varie tipologie di bici: la mountain bike, ad esempio, spiega Bragagnolo, è più un "gioco", "alla buona", qualcosa di rustico, diversa, in questo, dal professionismo su strada. In comune c'è sempre il senso di comunità, pur in qualcosa che è e resta molto personale, anche intimo, se vogliamo, perché l'esperienza in bici è, di fatto, qualcosa di unico per ciascuno. La possibilità di stare insieme deve diventare una chiave di lettura costante quando si parla di ciclismo: «Ci sarà sempre un negozio che avrà prodotti migliori, che venderà di più, a cui, in questo senso, non ci si potrà nemmeno raffrontare, perché se ne uscirebbe sconfitti, ma non deve essere questa la gara. Tracce vorrà organizzare sempre più eventi, incontri, permettere lo svilupparsi di quel dialogo, di quell'empatia, sempre difficile da raggiungere, anche perché i genovesi sono abbastanza freddi, diffidenti, devono conoscere prima di aprirsi. Ma è un fatto generale, l'empatia è essenziale per questo lavoro e per ogni rapporto umano che abbia una base solida, noi intendiamo dare questa interpretazione al nostro mestiere». Marco Bragagnolo torna con il ricordo ad una pedalata prima di Natale, organizzata dal negozio, che ha avvicinato molte persone in un momento no, è questo che intende: ritrovarsi e stare meglio. Ognuno con una propria lettura del ciclismo, per questo in "Tracce" ci sono quattro diverse generazioni a lavorare, sino ai più giovani, perché ciascuno traduce a proprio modo l'esperienza dei pedali e così la trasmette.

Ora la sera è davvero calata: "Genova città intera. Geranio. Polveriera. Genova di ferro e aria, mia lavagna, arenaria. Genova città pulita. Brezza e luce in salita". In una camera, appena spenta la luce, qualcuno starà prendendo sonno e chissà che non pensi a un viaggio in bici, come Marco Bragagnolo da tanti anni a questa parte.


Residence Les Fleurs, Gressan

Le mani di nonno Stefano e dei suoi amici più stretti, circa settant'anni fa, a Gressan, nella conca di Pila, in Valle d'Aosta, mescolavano la malta e posizionavano mattoni dalle prime luci dell'alba sino a quando la sera allungava le prime ombre nei cortili e la luna brillava tra le montagne. Erano gli inizi degli anni cinquanta, gli anni della ricostruzione: quell'uomo, dopo essersi dedicato all'agricoltura, al commercio del legno ed anche alla siderurgia, senza l'aiuto di alcuna ditta edile, iniziava a costruire il primo albergo della zona, «un alberghetto a gestione familiare», nel periodo in cui il turismo estivo cominciava a svilupparsi in una regione a prevalente vocazione agricola. "Les Fleurs", sarebbe stato il suo nome, come la frazione del paese: dove nonna passava ore ed ore in cucina, per più di quarant'anni, preparando "i suoi piatti" per chi chiedeva ospitalità e una calda pietanza. Il bar, il ristorante, l'albergo e anche i vecchi "alimentari", negozi che oggi non esistono praticamente più, dove, allora, la gente del paese faceva la spesa e chiamava per nome la signora alla cassa: più lontano, i loro vigneti e meleti che li avrebbero accolti nel periodo della pensione, quando a "Les Fleurs" sarebbero giunti dapprima la mamma e lo zio di Tiziano Saltarelli e, ancora dopo, Tiziano stesso e la moglie Nathalie.

Nel frattempo, negli anni sessanta, anche l'inverno diventava stagione di viaggi e la neve, lo sci, cambiavano forma: si vedevano le prime seggiovie ad un posto, i nuovi impianti, le telecabine, fino alle seggiovie, da Aosta a Pila, che facevano sembrare lontanissimo il periodo in cui quei nonni sciavano con mezzi primitivi e risalivano la montagna a piedi, battendo in questo modo la pista. In fondo, quei momenti si possono intuire osservando l'arredamento del Residence Les Fleurs, il cui tema principale è il territorio: ecco gli sci del nonno e dello zio di Tiziano, da un lato, dall'altro lo slittino che adoperava la nonna, oppure quella vecchia e ben curata bicicletta Bianchi degli anni cinquanta: «Noi viviamo qui dalla mattina alle sei fino alla sera a mezzanotte, non voglio pensare a tutte le ore che passo qui perché, se lo facessi, probabilmente, un giorno o l'altro, finirei per darmi del matto, ma, proprio per questo, le pareti di questi locali non potevano che essere riempite dalla nostra vita, dai nostri ricordi». Nathalie, spesso, lo rammenta al marito: gli dice che, non appena lascia il paese di Pont- Saint-Martin, gli si legge la nostalgia sul volto, allora Tiziano si volta, sorride e, rassegnato, esclama: «Per me la montagna è tutto, sono maestro di sci, appena sveglio cerco il Grand Combin, il Monte Bianco, il Cervino: come potrei accettare un altro orizzonte?».

Tiziano Saltarelli conosce bene la lontananza, l'ha vissuta sulla propria pelle: è cresciuto fra queste strade, qui ha studiato, ha iniziato ad andare in bicicletta, poi, quella bicicletta, da ragazzino, l'ha portato altrove. «Capisco perfettamente la metafora del ciclismo, il sacrificio, la distanza, la fatica. Non per sentito dire, non per romanticismo, bensì perché mi è successo. Non so nemmeno perché sono tornato qui, quasi come seguendo un richiamo delle origini, delle radici che che ti restano incise sulla pelle. Ad un certo punto non potevo fare altro: dovevo tornare a Gressan, dovevo continuare quel che aveva intrapreso mio nonno»: era la fine degli anni novanta, "Le Fleurs" era chiuso da qualche tempo e Tiziano non ci pensava nemmeno più, almeno fino a quel giorno, a quella nostalgia, a quell'istinto. Dove prima c'era un albergo, Saltarelli progetta un residence, attraverso una ristrutturazione completa: le camere diventano appartamenti, ma i visitatori trovano la stessa ospitalità, a tutto tondo, degli inizi, il bar ed il ristorante e la storicità di un luogo che era entrato negli anni duemila. Tiziano e Nathalie lavorano, sistemano, si guardano attorno, osservano tutto quel che accade, sono la terza generazione a farlo, e, in anni di esperienza, sono certi che quei locali, quel residence, siano, per molti, qualcosa in più. La loro è una sorta di teoria, un teorema dimostrato grazie a formule fatte di incontri e piccole o grandi condivisioni: «Esiste una sorta di trasformazione che si verifica in luoghi come questo, sarebbe bello studiarla. Basta osservare le persone quando arrivano e quando se ne vanno, tornano a casa: all'inizio c'è freddezza, talvolta spaesamento nel ritmo della vita quotidiana, un poco di cinismo, di aggressività, quella forma di pretesa che si manifesta nelle richieste. Qualche giorno, qualche notte e quello strato di negatività si dissolve, si manifesta una nuova gentilezza, il desiderio di restare qualche minuto a parlare, cercando qualcuno da ascoltare e che possa, a propria volta, ascoltarci».
La società, prosegue Tiziano, è cambiata in maniera netta in questi settant'anni, le persone si sentono sempre più sole, isolate, faticano ad interagire con gli altri e, con il mondo virtuale, spesso questa interazione non è nemmeno più richiesta. Una situazione già complessa, con, sullo sfondo, la frenesia in cui tutti siamo immersi: la vacanza è una via di fuga, dove, giorno dopo giorno, si riscopre la possibilità, forse il dovere, della lentezza, allora i visitatori diventano libri aperti, spalancati: «Più di una volta, di fronte ad alcune confidenze, mi sono chiesto cosa avessi fatto per meritarmele, per essere degno di quella fiducia. La verità è che tutti abbiamo necessità di raccontare cosa facciamo e perché lo facciamo, se non accade, appena si apre un varco, che ci mette a nostro agio, iniziamo a parlare e non vorremmo più fermarci».

Le rose hanno mostrato le spine più di una volta, il bilancio del ritorno resta positivo, per i bei momenti, le situazioni vissute inaspettatamente e anche perché «mi ha lasciato la possibilità di sognare». Dice Tiziano che la sensazione è la medesima di quando si scala il Mont Ventoux o una salita epica, si fatica a stare a ruota e, ogni due per tre, ci si chiede perché lo si stia facendo, se non si poteva stare bene anche evitandosi quello strazio. Mentre si riflette, passano i metri, si arriva in cima e, dall'alto, quasi non si ricordano più le maledizioni lanciate a quell'asfalto, alla neve, alla grandine, al freddo. «Qualche volta ho pensato di acquistare un cartello enorme, il più grande possibile, e scriverci, a caratteri cubitali: "Chiuso per sempre". Giusto per esser certi che tutti lo sapessero, che nessuno venisse a cercarmi chiedendomi di riaprire. Tutti i giorni dubito, ma, alla fine, sono sempre sicuro che sia questo il mestiere che mi completa, che tutto il tempo libero in più non mi farebbe stare bene quanto mi fanno stare bene queste mura, in fondo, sono in un bel punto del cammino, così quel cartello non lo appendo mai». All'interno del Residence Les Fleurs, piuttosto, al mattino presto, soprattutto in estate, progetta tracce da percorrere in bicicletta e le affida ai clienti pedalatori: l'idea è di mostrare sempre nuove strade, luoghi meno conosciuti, ben sapendo che sarà quel destriero che ha nome bicicletta ad accompagnare il viaggiatore chissà dove.
Ecco perché se, quando inforca la bici, gli si chiede dove sia diretto, Tiziano non sa quasi mai cosa rispondere: «Sono nato nel 1973, ho cinquant'anni e la valle d'Aosta mi ha visto crescere eppure, a conti fatti, forse ho sempre conosciuto solo il cinque percento delle strade di casa. Grazie alla bicicletta ho iniziato ad andare nel paese vicino, a perdermi e tornare a casa entusiasta raccontando a mia moglie di un nuovo sentiero e vedendola sorpresa, con gli occhi sgranati a farsi trasportare dal racconto, come se stesse seguendo una traccia. Qualche ciclista torna qui, dopo il giro, e, ancora stanco, sudato, mi si avvicina e: "Ma in che posti meravigliosi mi hai mandato? Dai, preparami un'altra traccia per domani". In quell'attimo, sono la persona più felice del mondo». La bicicletta da corsa è stato il primo regalo che Tiziano ha chiesto ai genitori, per vedere delle biciclette da corsa ed i suoi idoli, Gianni Bugno o Claudio Chiappucci, ha seguito diversi Tour de France, è rimasto ore avvolto nella calura estiva del Tourmalet o della Croix de Fer, dopo aver sognato di incontrarli per così tanto tempo da non poterlo calcolare: sostiene che la bicicletta sia il mezzo migliore per pensare, per rimodulare i pensieri, mettere tutto nella giusta prospettiva, un inno alla giusta velocità, per fare amicizia, «bastano due chilometri o poco meno», e per vedere la fatica in un'altra ottica, per non temerla, come hanno insegnato le biciclette elettriche che hanno avvicinato ai pedali persone che, magari, li avrebbero evitati per timore di quella sofferenza.

L'ospitalità, nel suo vocabolario, è strettamente legata al valore dell'accoglienza, al rendere il luogo in cui si giunge come casa, «poi, non è possibile accontentare tutti, far sentire realmente ogni persona a casa, però è parte della realtà: le persone hanno esigenze differenti, desiderano un'accoglienza diversa e hanno necessità differenti, l'unica cosa possibile è augurarsi che trovino un posto che restituisca le sensazioni di casa». I progetti sono il pane quotidiano di chi fa il mestiere di Tiziano e Nathalie e anche loro ne hanno talmente tanti che «dovremmo chiacchierare minimo per altre sei ore», ma il più significativo, più che un progetto, è un auspicio: «Anche noi, prima o poi, dovremo fermarci, pensarci spaventa ma è inevitabile, nella natura delle cose. Ecco, io voglio sperare che ci sarà qualcuno pronto a continuare questo percorso, con il nostro stesso spirito. Sarebbe davvero un peccato doversi rassegnare all'idea che per "Les Fleurs", in questa società, in questo mercato, non ci sia più spazio, non vorremmo mai doverlo fare. Eppure è cambiato tutto rispetto a quando ero ragazzino io: le nuove generazioni si portano dietro un'indecisione che rende difficile anche a loro stessi scegliere come indirizzare il loro futuro. Ho due figli, tutto potrebbe essere molto naturale, chissà se lo sarà». Alla fine, il verbo più bello per ciò a cui teniamo è sempre "continuare", "proseguire: così anche per il Residence Les Fleurs, a Gressan, nell'omonima frazione, al numero 26.


Bicycle House, Napoli

Passo dopo passo, tra l'Accademia delle belle arti ed il Museo archeologico nazionale, ci inoltriamo in Galleria Principe di Napoli. Siamo nel centro storico della città, in un autentico crocevia di spunti culturali su scala metropolitana, nazionale ed internazionale, mentre all'orizzonte, nascosto dalla maestosità dei palazzi storici, si staglia il golfo e la spuma del mare a tratti invade e a tratti libera la spiaggia, proprio quando la sabbia bagnata è intiepidita da qualche raggio di sole invernale. "Bicycle House" è situata ai numeri 27-28 ed è sufficiente affacciarsi alla vetrina, tra le luci sul bancone e quelle proiettate sul muro, ad illuminare qualche bicicletta appesa, per comprendere appieno il significato di quel nome. Casa della bicicletta, sì, in senso letterale ed in senso figurato: casa ovvero costruzione adibita ad abitazione oppure luogo in cui ospitare ed essere ospitati. «Si tratta di una "casa"-esclama Massimo Minopoli, avvolto nei rumori della città- che vuole essere un punto di riferimento per ogni ciclista, urbano, da strada, mountain biker, per ogni cicloviaggiatore che arrivi a Napoli, come meta del suo viaggio, oppure che vi transiti con la prospettiva di un più ampio girovagare. Questa città, a fronte di tanta bellezza, è in grado di travolgere con la sua caoticità, di lasciare senza parole, quasi scioccato, colui che non sia abituato a viverla quotidianamente e, solo fino a qualche anno fa, pareva impossibile pensare di percorrerla in bicicletta: abbiamo riflettuto in quel periodo sul fatto che, forse, un luogo in cui sentirsi accolti potesse contribuire al cambiamento che doveva, però, necessariamente passare dalle infrastrutture». Il plurale è d'obbligo, perché parla Massimo ma si rivolge a tutti i ragazzi appassionati di biciclette che, da giovani, lavoravano assieme a lui in un'officina popolare e, non avendo gli attrezzi necessari, spesso, utilizzavano solo le mani per smontare e rimontare tutti i ferri. Era lo stesso gruppo di amici che, riunito in un movimento autonomo, organizzava critical mass e poneva l'accento sulla tutela degli utenti della strada più fragili e sui temi della sicurezza stradale, nei giorni in cui in Galleria Principe di Napoli dovevano cambiare molte cose e un progetto ministeriale, "giovani per la valorizzazione dei beni monumentali", stava ridisegnando i contorni di questa galleria dell'ottocento.

«Prima qui c'era una stazione di polizia, successivamente trasferita. All'inizio, ci trovavamo di fronte solo a tutto ciò che era da buttare per costruire un nuovo ambiente, per rinnovarlo e renderlo ospitale. Noi avevamo già in mente quello che sarebbe stato il primo "bike café" del sud Italia: ora bisognava realizzarlo». Quasi attraverso un'esperienza metafisica, mentre Massimo racconta, a noi sembra di abitare l'idea di cui parla, perché a fine 2018 quell'intenzione è diventata realtà. Allora vediamo i due ingressi, separati e comunicanti: da un lato il bike café vero e proprio, con una bicicletta Bianchi storica, quella bicicletta appesa che osservavamo da fuori, altre curiosità da scoprire e un dehors con tavolini per i clienti. Al bancone vengono studiati e serviti drinks e cocktails particolari, adattati agli avventori pedalatori: il Negroni del ciclista, ad esempio. L'altro locale, invece, è destinato all'officina, dove si effettua servizio di vendita, noleggio e assistenza, dal lunedì al sabato: la scelta di prodotti è ampia, maggiormente focalizzata sul ciclista urbano, vista la posizione al centro di Napoli, senza però, escludere accessori per il trekking e per ogni tipologia di ciclista. Ma l'officina non è solo il luogo del lavoro artigianale, in cui si smonta e si ripara: «La nostra è una ciclofficina aperta, ariosa, in tutti i sensi. Vi si svolgono dei corsi per gli utenti, in modo che possano imparare loro stessi ad aggiustare la propria bicicletta: è un calendario di sette incontri, programmati al martedì pomeriggio, in cui chiunque può iniziare a sporcarsi le mani e conoscere un mestiere. Di fatto la bicicletta è una questione culturale, ogni volta in cui si organizzano conferenze, libri, proiezioni ed incontri tematici si sta facendo un passo in avanti. Noi vogliamo provarci». Massimo Minopoli si perde così nel racconto in una serie di altre storie, conosciute negli incontri presso Bicycle House: da Paolo Franceschini, il "comicista", comico e ciclista, nativo di Ferrara, la città più ciclabile d'Italia, che vive a Napoli, al ragazzo che, per far conoscere la città, nei suoi viaggi, ha deciso di portare nello zaino una bottiglia di liquore al babà ed a chiunque gli chieda di descrivere Napoli porge un poco di quel liquore e dal profumo e dal sapore chiede di continuare ad immaginare, fino a chi viaggerà controvento per scoprire le opere d'arte che più gli interessano. Tre esperienze diverse e uguali che legano, allo stesso modo, la bicicletta, all'arte, ad un liquore e alla scrittura.

Anche la città, nel frattempo, è cambiata, è migliorata, sono aumentate le ZTL, la realizzazione di piste ciclabili è incrementata e, grazie ad una nuova concezione della mobilità, non sembra più impossibile pensare di utilizzare la bicicletta per andare a fare la spesa, a scuola ed al lavoro: «Napoli dovrebbe assomigliare sempre più ad Amsterdam, a Londra. Ci sono cartelli che segnalano la necessità di proteggere l'utente più fragile, che indicano i limiti di velocità; sono utili ma non bastano. Servono i fatti. A Bologna è successo qualcosa di davvero importante con l'introduzione della "città 30", sogno che avvenga anche qui. L'associazione "Napoli Pedala" si batte anche per questo, come la nostra vicinanza alle istanze della Fondazione Michele Scarponi». Sì, perché qualcuno che ha paura ad uscire in bicicletta c'è ancora ed è comprensibile, ma non è giusto, soprattutto nel 2024. Ad ogni visitatore Massimo e gli addetti del locale provano a fornire qualche semplice regola, istruzione, per sentirsi più tranquillo: come muoversi in strada, l'utilizzo della carreggiata, la possibilità di fare le prime uscite in bicicletta insieme a qualcuno maggiormente esperto per prendere confidenza, la necessità di indossare il casco, di rendersi il più visibili possibile sulla strada, l'opportunità di scegliere strade meno trafficate, anche se chilometricamente più lunghe, tra le altre cose. Gli aperitivi del giovedì, su questi temi, riuniscono persone delle più svariate provenienze e dai più svariati lavori: dal dottore di Capri, al ciclo-fattorino, passando per il ricercatore del CNR. Girare per Napoli in bicicletta significa anche andare a scovare nuovi angoli o avere la possibilità di vedere in maniera differente luoghi già ben conosciuti: è nata così Napoli Obliqua, con lo scopo di accompagnare alla scoperta di posti meno conosciuti o più difficili da visitare. Pensiamo, per citarne uno, al quartiere residenziale di Capodimonte, situato su una collina e noto per l'omonimo Museo che ospita arazzi, porcellane, ma anche opere pregevoli di Tiziano e Caravaggio.

Ciascuno, poi, ha un proprio stile e un proprio modo di interpretare lo spostamento in bicicletta: «Bisogna dirlo: prima di consigliare una bicicletta è indispensabile sapere che progetti ha colui che la comprerà. Ovvio è che, ad esigenze differenti, corrispondono modelli e necessità diverse. Le domande, tuttavia, spesso possono essere invasive, chiedere non è mai facile, allora si cerca di capire guardando, ascoltando, senza esagerare con le richieste. Una comprensione silenziosa, basata sull'osservazione. Spesso la bici identifica la persona, il suo carattere, la sua indole». Massimo smette qualche istante di parlare, guarda meglio: un cliente è appena arrivato in negozio, chiama un collaboratore, chiedendo di offrirgli assistenza, poi riprende concedendosi un ghigno in segno di entusiasmo per quel che sta per dire. «A me piace davvero ogni elemento della bicicletta, ogni pezzo, ogni ingranaggio. Mi innamoro di ogni bici come accade in adolescenza. Credo che un bambino vada messo il prima possibile su una balance bike. Ogni tanto prendo un catalogo e mi metto a sfogliarlo: perdo la cognizione del tempo, devono venire a cercarmi». La scelta delle biciclette in negozio segue una triplice direttiva: la qualità, l'affidabilità e la garanzia. Minopoli si concede una parentesi sull'uso di acquistare biciclette in negozi non specializzati che, quindi, per forza di cose, peccano nella conoscenza e nell'attenzione a determinati dettagli, talvolta anche grossolani: «Il mezzo è semplice ma ha una meccanica sofisticata che spesso non viene compresa dagli utenti. Sai il motivo? Perché il cliente si basa, di solito, sul tempo della riparazione effettuata da un professionista, allora pare tutto facile e anche il lavoro tende a perdere il suo vero valore economico. Il punto è che chi svolge questo lavoro ha studiato, si è preparato, non sono cose che può fare chiunque. Quella professionalità è da rispettare e da riconoscere».


Il tutto in un mercato delle bici che è cambiato, con l'evoluzione della tecnologia, dell'elettronica e, soprattutto, delle bici elettriche che hanno ampliato la platea dei pedalatori, in quanto anche coloro che inizialmente temevano la fatica o pensavano di non essere all'altezza hanno voluto provare e si sono sentiti a proprio agio. Le "porte da aprire", come le definisce Massimo, ovvero le innovazioni possibili, sono ancora molte e chi fa questo mestiere non vede l'ora di spalancarle.
Il cliente entrato pochi minuti prima si ferma davanti all'officina ad osservare il lavoro dei meccanici, Massimo Minopoli spiega che, ove possibile, si cerca di coinvolgere il cliente anche nella riparazione, poi la butta sul ridere, citando un cartello, visto qualche tempo fa, che recitava: «Cinquanta euro per la riparazione, cento euro per osservare, centocinquanta euro per suggerire al meccanico come operare». Un'ultima occhiata al dehors, ai tavolini all'esterno, alle persone che camminano in Galleria Principe di Napoli: il pensiero va proprio ad un buon caffè napoletano. La sensazione è di essere nel posto giusto, Minopoli ce la conferma, non prima di chiederci se sappiamo come debba essere un buon caffè. Tentenniamo, allora ci svela la regola delle cinque c: «Comm' Caspita Coce Chistu Cafè». La impariamo, prendiamo la tazzina ed iniziamo a sorseggiare.


Ditta Artigianale, Firenze

Il caffè è pronto, in tazzina. «Calma, avvicinati lentamente e annusa l'anima della bevanda, prima di mettere la bustina di zucchero: cogli le note floreali e quelle di nocciola. Il tuo viaggio sarà suddiviso in tre sorsi. Il primo ti restituirà un'esplosione di gusto e acidità, durante il secondo, invece, avrai la possibilità di cogliere le note dolci, potrebbero essere di cioccolato, di nocciola, talvolta di frutta tropicale. Sarà, però, solo il terzo sorso a restituirti ciò che il tuo palato tratterrà: un sapore di mandorla, di nocciola, oppure di frutta, di mandarino, di ananas, di lime, di arancia». Siamo a Firenze, in Ditta Artigianale, ed a parlare è l'ideatore di questa realtà, Francesco Sanapo. Il suo linguaggio è quello di uno studioso, ma l'esperienza in cui affonda le radici tutto questo è originale, primigenia: il caffè che sua madre gli preparava ogni mattina, prima di svegliarlo per andare a scuola o all'Università. Solo qualche settimana fa, Francesco era in Colombia: più di quaranta ore di viaggi in macchina, almeno dieci aerei interni, da una parte all'altra del paese, su e giù, per conoscere, per capire come il gusto del caffè, in continuo cambiamento negli anni, continuerà a modificarsi, per scoprire nuove varietà, stare in contatto diretto con i produttori locali, visitare le loro piantagioni, scoprire eccellenze e tornare in Italia con dei piccoli quantitativi, trenta grammi, di quello che, probabilmente, sarà il caffè nel futuro. Così il caffè, l'abitudine di casa, quella parola molto simile in quasi tutte le lingue del mondo, con solo qualche venatura differente, l'ha portato lontano, dove non sarebbe potuto arrivare nemmeno con i più bei sogni, ma dove, in fondo, i desideri erano sempre andati. Ad un'altra velocità.


Scintille accese dallo studio, dai libri e Francesco Sanapo è certo che non vi siano molti altri modi per accendere "fuochi" che resistano alle avversità: siano essi sotto forma di passione o assumano qualunque altro aspetto o profilo. «Solo lo studio porta davvero a conoscere e per dedicarsi a qualcosa, anima e corpo, è necessario sapere, altrimenti non si può costruire nulla di duraturo. Lo studio fa "detonare", permette alle fiammelle che ci sfiorano di sorreggersi, altrimenti sono fuochi fatui, destinati ad estinguersi. Tutti i viaggi li ho affrontati così, guidato dalla curiosità, delle nuove varietà, dei processi di fermentazione, della tostatura e, appena conoscevo qualcosa, non vedevo l'ora di condividerlo». Così Ditta Artigianale è costruita anche grazie alle letture e alla conoscenza, non solo grazie ai sogni ed alle passioni. Nemmeno il nome è casuale: ad oggi, quasi nessuno usa più la parola ditta, tutti parlano di "aziende" o "attività", quello era, invece, un termine riferito alle piccole realtà di anni fa, ad un mondo artigianale. Ai periodi in cui le persone tostavano il caffè nei garages, con macchine costruite su misura, poi, l'industria ha un poco cancellato il valore dell'artigianalità: «Il nostro logo riporta ai colori degli anni settanta, noi ci siamo aggrappati a quei significati e abbiamo provato a rivederli in chiave moderna». Anche Sanapo ha iniziato lavorando per varie torrefazioni e, già all'epoca, viaggiava e scopriva diverse tipologie di caffè ma, per un motivo o per l'altro, non riusciva mai a importarle: si dispiaceva, si rammaricava. Intanto vinceva per tre anni il titolo nazionale di miglior barista, di assaggiatore di caffè e partecipava alla finale del Campionato Mondiale dei baristi, un traguardo mai raggiunto prima. «Mentre ero lì, con la coppa in mano, pronto per alzarla, decisi. "Al ritorno, rassegno le dimissioni da tutti i miei incarichi e creo un'attività tutta mia": era il 2013, acquistai la prima tostatrice, di otto chili e mi misi a tostare il caffè». Fare impresa è difficile, Francesco lo ribadisce, eppure la sequenza di fatti da quel momento in avanti è una progressione continua: il primo store, la caffetteria, per vendere il proprio caffè, quello preparato artigianalmente, ed ancora un secondo, un terzo, un quarto, fino al quinto store, di recente apertura.

«Vorremmo raccontare il caffè in tutto e per tutto e ravvivare l'antico legame che c'è tra caffè ed ospitalità, magari l'ospitalità fiorentina, in un luogo bello, da vedere e da vivere. Dico spesso che, negli anni, i bar sembrano aver perso l'anima, quasi fosse stata sfregiata da tante cose che hanno rovinato l'atmosfera e la personalità dei locali. Serve la musica giusta da ascoltare, persino la sedia giusta su cui sedere». Una personalità fatta di tante piccolezze, non a caso Francesco Sanapo spiega di aver introdotto la pasticceria in Ditta Artigianale dopo aver ricercato per anni il gusto del croissant che avrebbe voluto abbinare ai suoi caffè e non averlo mai trovato e sottolinea con orgoglio di non cercare esperti fra coloro che entrano dalla sua porta, ma, semplicemente, persone che abbiano voglia di un buon caffè, bevuto con consapevolezza. Accanto al legame del caffè con l'ospitalità c'è quello con la bicicletta: «Entrambi hanno la capacità di smascherare, di far cadere le maschere, di unire, di far incontrare. Le persone escono di casa per un giro in bicicletta, come escono di casa per un caffè: entrambe sono ottime scuse, per un viaggio nel paese vicino, dall'amico, dai genitori. Nei bar ci si ritrova per l'una o per l'altro, per entrambi capita di sedersi allo stesso tavolino». L'Italian Coffee Tour, organizzato da Francesco, prende spunto proprio da queste caratteristiche in comune: ci si ferma anche nei più piccoli borghi, nei paesini, si incontrano i sindaci ed i giornalisti, si parla e si fa parlare di caffè, magari si racconta anche l'aneddoto di quel coltivatore conosciuto in Honduras e della sua piantagione, del suo modo di lavorare. Ma la bicicletta, in realtà, è esperienza quotidiana e la Toscana offre paesaggi vari in cui spaziare: «Il mio giro classico è di circa cinquanta chilometri, attraversando le colline intorno a Firenze, tra Pontassieve e Fiesole, dove passeranno due macchine ogni ora, dove è possibile pedalare in meditazione, interrotti solamente da quella salita che scali da quando eri adolescente e che ogni volta maledici perché è dura, anzi, sempre più dura».

L'originalità è la chiave dello sviluppo di Ditta Artigianale: ogni store è differente, come è diverso ogni progetto, l'attenzione maggiore è alla comprensione del luogo in cui ci si trova e al modo per valorizzare quel palazzo o quella via. Forse la storia più affascinante a questo proposito riguarda il vecchio monastero che si trovava tra via Carducci e piazza Sant'Ambrogio: una costruzione iniziata nel 1300, proseguita nel 1800 e terminata nel 1900, dove c'erano suore e monaci, abbandonata, però, da circa cent'anni e fatiscente fino a che non è iniziato il recupero per restituirle una nuova luce. Una porzione è stata sottratta al commercio a favore dell'istituzione di un corso di formazione per i ragazzi che lavoreranno in Ditta Artigianale, ma anche per i consumatori. Formarsi su quel caffè che abbiamo in tazzina, delicata armonia, tra acidità, dolcezza, amaro e corposità, bevanda cantata anche dai cantautori, da Bob Marley fino a Francesco De Gregori, forse mai completamente conosciuta, se non superficialmente, certamente cambiata moltissimo anche solo negli ultimi quindici anni. I motivi sono vari, in primis, i figli di quei contadini che anni fa coltivavano il proprio terreno si sono specializzati, utilizzano nuove tecnologie, quindi la produzione si è modificata, ma non solo.

«Il caffè è l'esatto risultato di due componenti: l'aspetto umano, di cui abbiamo detto, e "madre natura", ovvero l'ambiente in cui è stato coltivato, l'altitudine. In Etiopia, la deforestazione ha raso al suolo interi pezzi di montagna, intere coltivazioni di bambù, altrove, nei paesi latino americani, la "roya" stermina le piantagioni, fa seccare le piante. Certo, è romantico parlare di una sorta di ricetta del caffè rimasta immutata negli anni, ma non è così, non può esserlo». Altro discorso rilevante è quello legato alla sostenibilità, al fatto che spesso chi lavora nei bar, nel nostro paese, è sottopagato, che in Italia un caffè arriva a costare al massimo un euro e cinquanta, mentre all'estero ci si trova molte volte sopra i due euro e cinquanta: una questione su cui bisognerebbe interrogarsi. Non molto tempo fa, Francesco Sanapo ha letto un articolo in cui si parlava della bassissima qualità del caffè italiano: «Potrei dire che quel pezzo abbia creato stupore, in realtà, non c'è da stupirsi: abbiamo iniziato a scegliere materie prime di non altissima qualità e tutto questo si ripercuote, per forza di cose, sulla qualità del caffè, con conseguenti strategie di mercato errate». La voce è alta, decisa, come ad indicare una via da seguire: «La mia idea è quella di riportare il caffè, la mia prima passione, al suo splendore, ai suoi periodi più belli, al sapore dell'artigianalità, della semplicità ma allo stesso tempo della competenza e della professionalità».

Siamo a Firenze e da Firenze, in estate, a giugno, per la precisione il 29 giugno, partirà il Tour de France 2024: un'occasione che cambierà la città, la riempirà di voci, colori e festa, della grande carovana della Grande Boucle, di ciclisti, professionisti o semplici appassionati. Non cambia molto, in fondo, ed il caffè resta elemento presente: ci sono macchinette anche sui bus dei professionisti, è un rito anche per loro, un momento di relax e di attesa. «Non vediamo l'ora di quei giorni, li aspettiamo da quando sono stati annunciati, ci pensiamo, fantastichiamo su quello che accadrà in città. Mi piacerebbe poter trasmettere l'idea di un luogo che non vede l'ora di accogliere, ciclisti e non, di prendere una tazzina di caffè e gustarla, in tre sorsi, dopo aver annusato il profumo che evapora, davanti a loro». Alla fine, basta davvero solo varcare la soglia di Ditta Artigianale e tutto questo accadrà, senza dubbi.


Cycle Café, Cuorgnè

I lidi ferraresi non erano cambiati in quell'estate del 2016. Le valli e le saline erano luogo di esplorazione ed escursione, talvolta l'ideale per il birdwatching, la vista, poi, cercava le pinete e le distese verdeggianti, lì vicino si sentivano i suoni ed i rumori di animali in libertà. Si poteva salire a cavallo, sugli splendidi ed agili cavalli del Delta, esemplari coraggiosi, abituati a resistere alle caratteristiche ostiche della zona, e proseguire al galoppo o al trotto, sotto il sole cocente, riprendendo fiato all'ombra di qualche albero. Addentrandosi nei paesi, tra canali e ponti, magari sul filo dell'acqua, attraverso un'imbarcazione tipica della zona, la "batana". A pochi chilometri, Ravenna, Bologna, Ferrara, Venezia, le loro strade di città, i musei ed il pullulare di voci e vita di una vacanza. Sì, era tutto uguale, anche l'afa ed il caldo di una nuova stagione, eppure Simone Magnino non era lo stesso. Era ormai da qualche giorno in quelle zone, ma non parlava, era sempre assorto, talvolta studiava, altre rifletteva, sembrava altrove, chiuso nella propria persona. In qualche pomeriggio in spiaggia, sua moglie gli aveva chiesto cosa stesse succedendo, se ci fosse qualcosa a preoccuparlo, ad inquietarlo: le risposte erano state evasive, fino a che, un giorno, appena arrivati allo stabilimento balneare, aveva iniziato a parlare e a raccontare tutte le idee che aveva riordinato in quei momenti di solitudine apparente. «Perché non apriamo un'attività per nostro conto? Ho in mente un bar, un piccolo bar caratteristico, che abbini il gusto del caffè ed il vento in faccia della bicicletta. Potremmo chiamarlo Cycle Café, anzi lo chiameremo proprio così, è il nome giusto». Lasciamoli lì e torniamo indietro a tutto quello che era successo prima di quella giornata.

Simone Magnino ricorda bene come, sin da ragazzo, sia sempre stato affascinato dalla figura del barista. Anche nelle serate, nelle nottate, in discoteca, lui restava a guardare la manualità, l'abilità di chi serviva i drink e pensava che "da grande", come si dice quando si è ragazzini, avrebbe voluto imparare quel mestiere, assomigliare, almeno in parte, a quella figura professionale. Ne aveva parlato con un amico, si era iscritto all'Istituto Alberghiero e aveva imparato i segreti del lavoro che, fino a quel momento, conosceva solo dall'esterno. Poi aveva iniziato la sua carriera lavorativa: nei locali notturni, nelle discoteche. «Di ogni giorno l'alba», potremmo dire così, e Simone era diventato il suo sogno: l'immaginazione e la realtà, ora, corrispondevano. L'arrivo della famiglia, la voglia di trascorrere la notte a casa, con la moglie e la figlia, che, oggi, ha dodici anni, il lavoro diventa diurno, in altri bar. Giorni, mesi, anni e qualcosa che si rompe proprio prima delle vacanze estive del 2016. L'esigenza di avere più spazio, di dare sfogo alle proprie idee, di interpretare in modo differente quella professione aveva iniziato "a bussare" e Magnino sentiva di dover "aprire la porta", per restare nella metafora, a quei pensieri.

Si torna ai lidi ferraresi: «Mia moglie restò qualche minuto a guardarmi, sapevo che mi capiva, ma siamo differenti a livello caratteriale e lei cercò subito di smorzare quell'entusiasmo, quella che pareva una boutade. Mi fece riflettere sul significato di ripartire da capo, sugli investimenti, sui debiti a cui saremmo andati incontro, nuovo stress, nuove preoccupazioni. Chi ce lo faceva fare? Non lo so. Sta di fatto che, appena tornammo dalle ferie, iniziai a girare per tutta la città, Cuorgnè, dove sono nato, è vero, ma dove non avevo mai lavorato, alla ricerca di un locale da trasformare nel Cycle Café». Lo trovò a inizio 2017: era un bar chiuso da tempo, anzi, chiuso più volte, con gestioni spesso sfortunate ed in particolare con un'ultima gestione che non godeva di buona nomina fra le persone del posto che, proprio per questo, dopo averlo sconsigliato rispetto a questa nuova avventura, a maggior ragione gli spiegavano che, partendo da lì, l'insuccesso sarebbe stato quasi sicuro.

«Il posto lo fanno le persone. Chi arriva a bere un caffè e chi lo gestisce. Ne avevo la certezza ed ho fatto di testa mai. Se fossi entrato qui in quel periodo, avresti avuto la sensazione di una rivoluzione imminente. Cambiai tutto, in una trasformazione radicale». Per molto tempo i vetri del locale si oscurano, mentre i lavori di ristrutturazione sono in corso. Simone Magnino ha attaccato alle vetrate vecchi fogli di giornali sportivi e soprattutto di riviste di ciclismo, già lette ed ancora custodite. Una sorta di prima traccia, di primo indizio su quello che si sta formando lì dentro. Tutt'oggi il locale è su misura, un abito perfetto per lui e per la moglie: vecchie biciclette, messe a nuovo, sono appese al soffitto, persino le luci ed i lampadari sono formati da ingranaggi o parti di biciclette. L'orologio è, in verità, formato da un cerchione di bicicletta ed anche il portabiciclette, all'esterno, è particolare: sembra quasi che, dove si appoggia il manubrio, inizi il bancone del bar. Il pannello che riporta la scritta "Cycle Café" reca anche qualche autografo di ciclisti passati da quelle parti, su tutti leggiamo il nome di Egan Bernal. Qualunque cosa, in un modo o nell'altro, riporta alla bicicletta, mentre il negozio si completa sempre più e, dalla caffetteria iniziale, cerca di introdurre nuovi servizi: esempio ne sono gli appendini con capi personalizzati, i marchi di abbigliamento da mtb, il noleggio di e-bike e un'altra idea che ronza nella testa di Simone Magnino da qualche settimana, mentre la moglie, scherzosamente, lo avverte di non cacciarsi in nuovi problemi, che non è il momento.

«Sai qual è il punto? Qui ci sarebbe tutto lo spazio per un'officina, ma è difficile trovare un meccanico che possa aiutarci. Se, però, domani mattina arrivasse un ragazzo competente e volesse lavorare qui, gli chiederei di iniziare subito. Noi siamo un punto di passaggio, per chi va al Nivolet, a Pian del Lupo, per chi arriva dall'altra parte dell'Europa o dal paese accanto, e molte volte qualcuno, vedendo il locale a tema bici, si ferma e ci chiede se le aggiustiamo anche: talvolta il problema è semplice, registrare un cambio, sostituire una camera d'aria, e posso aiutarli io, grazie agli insegnamenti di un amico, ma vorrei ci fosse un professionista. Vorrei non dover dire più quella frase: "Mi spiace, non posso aiutarti". Sì, qui starebbe bene un'officina». Forse, la prima volta in cui Magnino ci ha pensato era un giorno di pioggia battente, invernale, in cui un gruppo di ciclisti, nel corso di una gara, sfilava infreddolito da quella strada, verso Como, per concludere il tragitto nel tempo limite di una settimana: allora, a sera, Simone si sedeva al tavolo e controllava, sul cellulare, l'applicazione con i passaggi e, se un partecipante era nei paraggi del bar lo aspettava, magari gli lasciava un sacchetto con qualcosa da mangiare e da bere. A costo di cambiare orario di chiusura, di tornare più tardi a casa. Qualche mese fa, il giorno di Natale, fra i regali, una foto della bicicletta gravel che ha donato alla moglie e, soprattutto, la certezza che, ora, Cycle Café è davvero loro, l'hanno comprato, ci sono riusciti. Passando di lì, a Cuorgnè, in via Ivrea 111, si vede spesso un televisore che trasmette immagini di gare ciclistiche, d'estate la voce arriva anche fuori e sembra di essere in un altro tempo, quello in cui tutti si trovavano al bar a vedere le corse: «Anche una signora di più di settant'anni è restata meravigliata da alcuni paesaggi, quelli della Coppa del Mondo in Val di Sole, sulla neve, e ci ha chiesto se anche in Italia succedono queste cose. Altre volte, qualcuno ci chiede perché chi arriva in fondo al plotone è contento o viene festeggiato dai compagni. A noi piace spiegarlo, perché pure il ciclismo è una questione di cultura. Dovremmo farlo vedere più spesso, regalare libri e riviste di ciclismo, sfogliarle assieme, condividere un giro in bici con la famiglia, con un figlio o con i più giovani».

Quelle pedalate che a Simone, a tratti, mancano: sì, la domenica esce ancora e, quando torna, sta meglio, non a caso sostiene che la bicicletta abbia effetti benefici sia sul corpo che sulla mente, ma spesso il pensiero è rivolto al timore di cadere, di farsi male e, con il nuovo lavoro, non esistono giorni di malattia. Eppure, nonostante questo, nonostante il periodo della pandemia, arrivato solo tre anni dopo l'apertura del locale, Magnino non si è mai pentito di quella scelta, in spiaggia, ai lidi ferraresi: «Mi sono tolto la soddisfazione di partecipare alla Maratona delle Dolomiti, di concluderla e, dico di più, al ritorno, giusto una notte a casa, un passaggio dal bar, a controllare che tutto fosse apposto, per, poi, raggiungere mia moglie mia figlia a Sanremo, al mare. Quasi fossi un professionista che viene dall'altura: gli ultimi ottanta chilometri sono stati un incubo, in una calura soffocante. Mi ha salvato una Coca Cola gelata, acquistata ad una macchinetta, da un benzinaio, e un pacchetto di Haribo, mandate giù "a manate", nel corso di un calo di zuccheri. Sono partito poco dopo le cinque e mezza del mattino, sono arrivato alle diciotto: ero stanco, ma contento».

Qualche settimana fa, ad una fiera, a Rimini, Simone Magnino ha visto delle biciclette su cui erano installate, in un caso, delle carapine per il gelato, nell'altro, tutto il necessario per fare il caffè: «Non serve dire che sono partito in quarta, ho chiesto tutte le informazioni possibili e, ogni tanto, lo ricordo a mia moglie che, come qualche anno fa, mi chiede di non mettermi in testa altre stranezze, talvolta si arrabbia pure per la mia insistenza ma io non riesco ad essere che così. Mi sto immaginando spesso la bellezza del salire con una bicicletta simile sul Nivolet o a Pian del Lupo e stare lì: otto carapine di gelato o un caffè. Sono posti meravigliosi, in cui, però, mancano alcuni servizi. Potremmo portare noi qualcosa. Resta solo da convincere mia moglie». Simone Magnino sorride, è convinto che, con il suo entusiasmo, accadrà presto. Ne siamo convinti anche noi, mentre lassù, al Nivolet, la sera porta un freddo pungente, che fa da contrasto al gelato che, in estate, rinfrescherà le idee di molti. Ed è dalle idee fresche, di mare o di montagna, che si può ricominciare. Cycle Café, nel torinese, ne è la prova.


Bike Academy, Lucca

All'inizio c'era la casa dei genitori di Simone Massoni. C'erano i suoi balconi, le sue finestre e la sua porta d'ingresso, rivolte verso la via dove i passanti erano intenti ad indirizzare la loro giornata e dove i rumori della vita di paese non mancavano mai. Il paese era, in realtà, un paesino, vicino a Lucca, ma fuori dalla città, piccolo, raccolto. Uno di quei luoghi in cui, nei silenzi, si potevano ancora scorgere i suoni, i rumori, i fruscii, che lo scorrere quotidiano porta quasi a dimenticare, a cancellare, oppure a sentire distrattamente, quasi fossero una scontata parte del tutto. In qualche mattina ed in qualche sera di primavera, in qualche pomeriggio d'estate o d'autunno, però, da quella via passavano ragazzi e ragazze in bicicletta, in mountain bike, e lassù, se avessero guardato, dietro i vetri di quelle finestre, su un balcone, sull'uscio di casa, avrebbero visto un bambino con gli occhi sgranati, a osservare. Si chiamava Simone, quel bambino, ed abitava lì. Era intraprendente, potremmo anche dire coraggioso per la sua età. Sì, perché, quando gli anni sono pochi, prendere una mountain bike ed iniziare a pedalare, senza nemmeno dirlo ai genitori, è un'avventura, anche più importante e, forse, meno riconosciuta di tante altre cose che si fanno da grandi, da adulti. E le avventure, si sa, sono fatte di coraggio. Ed anche di paura, è vero, ma questo è un altro discorso.

Anzi, è una storia diversa ma non così diversa. Non fosse anche perché, ad un certo punto, quel ragazzo inizierà a correre in bicicletta e sceglierà la mountain bike come "destriero". Forse quella via, forse suo zio, anch'egli legato alla terra, alle pietre e ai sentieri sconnessi di quella bici "selvaggia". Quando qualche pezzo di quella bicicletta si rompe, si rovina, manca, al ritorno da scuola, va a Lucca, in periferia, da Bike Academy: ha trovato un negozio diverso dalle botteghe a cui era abituato. Lì dentro, incontra Marco Isola, il titolare, con cui, per qualche ragione, entra in sintonia: «Ha visto aprire la porta un ragazzino, così preso dalla sua bicicletta che l'istinto l'ha portato, in qualche modo, a farsi partecipe del mio percorso. Ricordo la volta in cui gli chiesi delle ruote: "Non voglio niente, tienile, poi me le riporti dopo l'utilizzo". E succedeva sempre così». In quel momento nessuno lo sapeva, ma, da Bike Academy, in un certo senso, Simone Massoni non sarebbe più uscito e quello sarebbe diventato il suo mestiere.

C'entra una piccola delusione, una piccola paura. Non passeranno, infatti, molti mesi e Simone parlerà ai suoi genitori dell'idea di comprare una bicicletta da strada. Gli diranno di no e lui tornerà in quel negozio, piccolo e raccolto come il suo paese natale: «Marco, vorrei una bicicletta da strada, però non posso spendere molto. Ne hai una economica? A me va bene anche usata». Marco Isola non resta tanto a pensarci: «Non sto nemmeno a cercarti la bici che mi chiedi. Prendi quella, te la presto io!». Dapprima sarà una bella bicicletta in alluminio, poi, qualche tempo dopo, addirittura la bicicletta stessa di Marco. Non solo: qualche volta anche un completo per correre, qualsiasi cosa mancasse e potesse essergli utile. Passo dopo passo, quei due cementano il rapporto: maestro e discepolo. Il lavoro inizierà d'estate, mentre Massoni va ad aiutarlo, a scuole finite: «Non avevo ancora la patente, così mi accompagnava mia mamma e mi veniva a prendere la sera. Quante mezz'ore ha trascorso in auto, con la radio accesa, ad aspettarmi ed io non uscivo mai perché ero intento a parlare con Marco, a chiedere, ad imparare nuove cose e mi scordavo delle ore che passavano». Dice Simone che, per descrivere Isola, non basterebbero ore: un signore con il classico fare da bottegaio, parola che riporta all'artigianalità di una professione, persona semplice, legata alle origini e con un rapporto raro con i clienti.

Pare che Marco, negli anni, abbia sviluppato una particolare dote nel riuscire a empatizzare con chi arriva in negozio e che, spesso, dica a chi lavora con lui che è importante capire al primo sguardo ciò che desidera il visitatore per riuscire a consegnargli non solo una bicicletta, ma anche la soddisfazione di aver trovato ciò che cercava. Un desiderio di chiunque quando si fa un acquisto, una legge non scritta in Bike Academy. «Non siamo degli indovini, non possiamo prevedere nulla, ma farsi un'idea della persona che si ha di fronte serve soprattutto a metterla a proprio agio. Il rispetto si declina in varie forme: nell'usare un linguaggio semplice con chi chiede quel linguaggio, nel non complicare le cose, nel non mandarlo a casa con le idee confuse. Dove serve semplicità dobbiamo mettere semplicità. Allo stesso modo, però, dobbiamo essere pronti alla complessità, alle tante nozioni, perché qualcuno vuole saperle e ne ha pieno diritto, come noi abbiamo il dovere di essere preparati». Un aspetto importante, quanto difficile perché la sintonia con chi c'è dall'altra parte non si può spiegare, non si può insegnare.

Quel piccolo negozio dei tempi del liceo di Simone ne ha passate tante, tra cui due furti importanti e varie vicissitudini, fino ad ingrandirsi, su un fondo di seicento metri quadrati, quello che ospita tutt'oggi Bike Academy. Un luogo costruitosi piano piano, pezzo-pezzo, nel tempo, che, probabilmente non ha mai avuto un preciso disegno uniforme, dal punto di vista dell'arredamento, dell'imbiancatura, ma è sempre stato unito da qualcosa di differente che ha il suo centro in un certo modo di intendere la bicicletta. Il colore predominante è il grigio, camminiamo su un parquet. Al piano terra troviamo le diverse bici, gli accessori ed i ricambi, l'officina è sulla destra ed ha un ingresso autonomo, in modo che i visitatori possano accedervi direttamente, al bisogno. Al piano superiore, c'è il negozio con ogni tipo di abbigliamento e varie tipologie di occhiali. Poco più in là la zona dedicata al bike fitting, dove lavora il biomeccanico, un ragazzo laureato in Scienze Motorie che si occupa di tutti gli aspetti legati alla messa in sella. In officina troviamo Lissano, il meccanico di Bike Academy, quello degli inizi, affiancato da qualche tempo da Federico. Lissano ha padre italiano e madre originaria della Repubblica Dominicana, proviene dall'endurance e prova a conoscere la bicicletta sotto ogni sfumatura, anche quella legata alla responsabilità: «Ogni tanto ne parlo con Marco- prosegue Simone- poi vado in officina e mi raccomando con i meccanici. Mettere le mani su una bici è davvero un compito delicato: per il costo che ha, per la spesa che sostiene chi l'acquista ed anche e soprattutto per il fatto che viaggerà sulla strada e, per questo, deve essere sicura, è necessaria cura, attenzione ad ogni dettaglio, nessuna negligenza».

In questa direzione vanno anche i primi consigli che Simone ed i suoi colleghi danno a chiunque acquisti una bicicletta: si parla di freni, dell'utilizzo dei fanalini, del radar, dell'abbigliamento all'avanguardia, degli inserti riflettenti, del casco migliore, delle adeguate protezioni. Senza mai prescindere, però, dal fatto che la strada è luogo di condivisione, di rispetto degli utenti più fragili e nulla può ovviare a questo principio che dovrebbe diventare patrimonio comune.

«Un pizzico di dubbio resta sempre. Certe volte non ci sentiamo all'altezza, abbiamo timore di non esserlo. A me succede quasi sempre prima di iniziare la giornata lavorativa e non credo sia necessariamente qualcosa di negativo. Penso, invece, che attraverso quel timore si possa crescere, si possa continuare a studiare, a migliorarsi. Sono certo che quel timore sia il fondamento dell'umiltà di fronte a chi viene in Bike Academy. Mi dicono o mi chiedono qualcosa che non so? Devo ammetterlo e mettermi al lavoro per rimediare alla lacuna, senza fuggire, senza prendersela». Lucca è un luogo privilegiato per pedalare in direzione Versilia, per salire al Monte Serra o al Monte Pisano, per dirigersi verso l'Abetone o andare in Garfagnana, ma è anche luogo di grande passione e competenza ciclistica: «Io direi, innanzitutto, che la prima caratteristica dei lucchesi è di essere "braccini corti", penso ci conoscano in tutta Italia per questo. A parte gli scherzi, qui la bicicletta è vissuta a pieno, abbiamo ex professionisti in città, su tutti Mario Cipollini. Questo per dire che ci piace anche l'aspetto agonistico del ciclismo». Anche Simone Massoni gareggia, fra gli amatori, e, talvolta, accompagna amici alle gare. Qualche settimana fa, ad esempio è stato in Belgio, per il ciclocross, in veste di meccanico: «Se sei attento, in corsa vedi delle chicche rare che, ovviamente, non si trovano nella quotidianità. Io osservo ancora meravigliato e poi cerco di "rubare" qualche segreto che porto nel mio mestiere». L'interesse è genuino come la sorpresa, nonostante le ore ed ore vissute a contatto con il mondo della bicicletta e con ogni suo ingranaggio: «Qualcuno che ha fatto questo stesso lavoro per anni e, successivamente, ha cambiato settore, mi ha confessato di essersi allontanato da questo ambiente, di far fatica anche solo a riprendere in mano una bicicletta. A me non sta succedendo, mi auguro che non accada mai e, in un certo senso, sono certo che non accadrà, perché il mio legame con questo mezzo viene da troppo lontano».

Marco Isola, oggi, lascia sempre più spesso spazio a Simone, alle sue idee, ai suoi progetti: per esempio il sito internet di Bike Academy, qualcosa che Marco pensava da tempo, ma che ha realizzato veramente solo con l'arrivo di Massoni. Oppure al noleggio, un'altra possibilità di familiarizzare con la bicicletta e partire, per un viaggio o per una gara. «Il nostro è un essere a disposizione. A me piace interpretare così lo stare in negozio o in officina: la possibilità di esserci per il bisogno di qualcun altro. Di dare una mano, di aiutare a risolvere un problema o a scegliere». Nello spazio antistante al locale, c'è qualche macchina: chissà se c'è qualcuno a bordo, chissà se sta aspettando un figlio, un parente, un amico, all'interno del negozio, magari a chiacchierare, come qualche anno fa faceva Simone che, ora, è la voce narrante di Bike Academy.


Cicli Mattio, Piasco

Tutto è iniziato nel 1996, a Piasco, «un paese che pare dimenticato da Dio», poco più di duemilaottocento anime, il primo paese sulla strada che porta al Colle dell'Agnello, le montagne ad un soffio e "l'anima di legno", quello delle piante che con le loro radici sostengono le vette, lassù, dove in questo strano inverno la neve si fa desiderare. Piasco, ovvero il "paese delle arpe" e delle loro corde che pizzicate emettono il classico suono angelico, morbido, delicato, quasi magico. A circa duecento chilometri da qui, a Sanremo, Gabriele Colombo, il 23 marzo, conquistava la "classica di primavera", la Milano-Sanremo, davanti ad Oleksandr Hončenkov e Michele Coppolillo; da queste parti, invece, in un locale grande come il soppalco, dove, seduti su degli sgabelli, appoggiati ad una botte, trasformata in un piccolo tavolo, dialoghiamo, Silvio Mattio ricominciava. Aveva ben poco con lui: qualche chiave a brugola, qualche chiave a filiera inglese, una cassetta Campagnolo, «che all'epoca costava quattro milioni e mezzo», e un cavalletto, ma bastava questo per lavorare su qualunque bicicletta arrivasse in negozio. Anche il bagno era all'esterno, d'inverno l'acqua gelava e chi si trovava lì a lavorare, se aveva necessità di usufruire della toilette, doveva chiudere il locale e tornare a casa. All'interno, i metri quadri erano pochi, è vero, eppure le mensole, dove si esponevano gli oggetti e gli ingranaggi, sembravano sempre scarne, allora si riempivano gli spazi con le scatole vuote degli articoli già in mostra. In quel paese, qualcuno gli aveva detto che, ormai, nessuno sarebbe più andato in bicicletta, perché «ci sono le macchine», qualcun altro l'aveva avvertito: «Se ce la farai, ti considereranno un evasore, se non ce la farai ti daranno dell'incapace. Il merito non te lo riconoscerà mai nessuno». Terzo di tre fratelli, lui aveva fatto, parafrasando il gergo ciclistico, qualcosa di simile a Colombo alla Sanremo o, forse, a suo fratello Claudio, detto "Giari", "topo" in dialetto piemontese, che aveva iniziato a correre in bicicletta a seguito di un problema all'anca. "Giari" non era molto alto di statura, così tendeva agguati quando nessuno se lo aspettava e il vento contro avrebbe respinto chiunque, «figuriamoci lui, che sarebbe dovuto rimbalzare, invece vinceva». Una follia, insomma.

Suo suocero l'aveva preso da parte e gli aveva parlato, mentre Silvio pensava all'opportunità di usare a questo fine i trentacinque milioni di liquidazione dal suo precedente incarico in Michelin, appassionato di auto, fine conoscitore della meccanica dell'automobile, probabilmente sulla scia dell'altro fratello, che gareggiava nei rally e seguiva la Formula1: «Un posto a casa lo hai, comunque vada. Credo tu debba provarci, altrimenti non lo farai più». La meccanica delle biciclette è certamente più semplice di quella delle macchine, Silvio Mattio si sente a proprio agio con le mani fra l'olio e gli ingranaggi: «Avevo imparato molto bene a fare le ruote. Ricordo che l'incrocio dei raggi era particolarmente complesso, eppure mi piaceva lavorarci. Del resto, del ciclismo mi ha sempre affascinato il fatto che sia l'esatto opposto di ciò che è scontato, dell'ovvio. Puoi non essere il più forte, ma non partirai mai con la certezza di arrivare secondo, perché vincono anche i gregari, talvolta gli sfortunati, spesso i dati per sconfitti in partenza. Sembra romanticismo, è realtà». Quel romanticismo che parrebbe spazzato lontano, quando Mattio esclama: «Ho pensato almeno cento volte, in realtà molte di più, di chiudere tutto e gettare le chiavi da qualche parte, in modo che fossero introvabili. Non mi vergogno a dire che ho fatto assegni postdatati per molti anni della mia vita. Ho pensato di abbandonare tutto, ma, quando arrivi ad un certo punto, non puoi nemmeno più lasciar perdere. Hai troppe responsabilità addosso». Invece ne esce rafforzato, come tutte le cose vere.

Da quel negozio, se ne formeranno due, poi tre, poi ancora due ed infine uno solo, più grande, quasi duemila metri quadrati di superficie, quello in via Donatori di Sangue, numero uno, dove ci troviamo, sempre a Piasco, non lontano da Cuneo. Nei primi mesi del 1996, erano molti i giorni trascorsi in banca, a chiedere liquidità, ma anche in quel 2010 in cui è nata questa sede le cose non erano facili. Si trattava del periodo della crisi del sistema bancario e i Mattio avevano da pagare idraulici, imbianchini, falegnami, fabbri, tutte persone che avevano dato forma a questi locali.

Il legno alle pareti è la cornice di Cicli Mattio, perché fa casa ed è un richiamo al paese, alla montagna e alla campagna, qualcosa di familiare: alle pareti del soppalco qualche ritaglio di giornale, qualche foto, poco più in là una libreria, dove ci sono riviste, ma anche libri. Non solo di ciclismo: romanzi, novelle, avventure. Ogni tanto qualcuno ne chiede uno in prestito, lo porta a casa, lo legge e lo restituisce, con sottile orgoglio di Silvio. Un tavolino ed i divanetti completano il quadro. Altrove solo biciclette, di media e alta qualità: «Il centro sono loro. L'arredamento doveva essere semplice per mettere chiunque a proprio agio. Vedi le luci là in fondo? Erano del vecchio negozio, come molte delle vecchie maglie appese e altri oggetti. Questo locale è nato a pezzi, è una sua caratteristica, a richiamare lo spirito di adattamento che abbiamo scritto anche sulle nostre magliette». L'officina è valorizzata, in un locale a parte, con accesso separato, al piano superiore gli usati, il magazzino e gli imballaggi. Il grande tavolo della sala riunioni è utilizzato anche per il pranzo dei dipendenti e gli spogliatoi sono dotati di doccia e stendino: «Parliamo spesso dell'importanza di utilizzare la bicicletta: parole sante. Ma il problema sono sempre state le infrastrutture: non dobbiamo solo chiedere alle persone di pedalare, dobbiamo metterle nelle condizioni di farlo. Una doccia sul luogo di lavoro può aiutare, ad esempio. Un fatto che segue alle parole». Piasco è legato a doppio filo al ciclismo, merito di due squadre cittadine, il Velo Club Esperia Piasco, nato nel 1972, Elisa Balsamo è passata da lì, ed il Team Vigor, nato vent'anni dopo, segnate da una sana rivalità sportiva. Negli anni, hanno vestito quelle magliette migliaia di ragazze e ragazzi, di bambine e bambini, pochi oggi sono professionisti e hanno fatto del ciclismo il proprio mestiere, ma non conta: «Una corsa ciclistica dura quattro, cinque, fino a sei o sette ore. Quante cose passano nella mente in tutto quel tempo? Ancor di più in una corsa a tappe in cui ogni giorno è un capitolo nuovo, già intriso della fatica dei capitoli precedenti. In un istante si sente di potercela fare, nell'altro ci si chiede come si arriverà al traguardo, un pomeriggio si attacca e nell'altro si maledice chi, là davanti, allunga il plotone, mentre i muscoli chiedono pietà e l'acido lattico ti divora. Non succede anche in una qualunque nostra giornata? La gente aspetta ore sui tornati perché lo sa, perché anche noi persone comuni facciamo di tutto per "andare avanti", per resistere un altro giorno o un'altra ora. Allora capiamo quei meravigliosi gladiatori in sella». E Cicli Mattio è anche un luogo di comprensione e di ascolto. Non a caso, Silvio lo descrive come una sorta di confessionale ed ogni tanto si alza, va a salutare un cliente, qualche domanda, una pacca sulla spalla, talvolta un abbraccio, vecchi amici o nuove conoscenze. Ogni tanto senti qualche cliente sorridere o ridere di gusto, sono i suoi aneddoti a scatenare la risata.

«Qui le persone si raccontano. Magari si sfogano per i problemi a casa, perché la moglie non vuole che escano in bici o che l'acquistino. Altre volte sono le prestazioni a frustrarli o il dubbio, quando si accingono a comprare una bicicletta costosa, di alto livello. Forse non fa per loro, ma un ciclista è un appassionato, sceglie sulla base della bellezza e di un richiamo primordiale che non si può contrastare. Alla fine lo dico: "Non credi di meritartela?". A quella domanda escono tutte le fatiche, le sofferenze e i problemi della quotidianità, ti guardano ed esclamano disarmati: "Sì, me la merito, senza dubbio". Sono nati così quegli "zainetti" con quella scritta». Spiega Silvio Mattio che, alla fine, è questa la parte più bella del suo lavoro, una parte da tenere sempre ben collegata a un principio: al visitatore bisogna consegnare ciò che gli serve, non ciò che si vuole vendere a tutti i costi. Altrimenti non si manca solo di professionalità, ma si è anche scorretti, a livello etico.

Silvio Mattio ci accompagna in officina, dice di volerci mostrare i meccanici all'opera: «Senza tutte le persone che lavorano qui e senza i miei soci non ci sarebbe nulla di tutto quello di cui ti ho parlato. Non sono io il protagonista, si tratta di un'attività corale con alla base regole ben precise, declinate e appese alla parete: sicurezza, amore, competenza, responsabilità ed empatia. L'errore ci sta, siamo umani, non tollero, però, la sciatteria, la mancanza di cura e di voglia e quando le noto grido, ah, se grido». L'officina è il luogo in cui, da bambini, sono cresciuti i suoi tre figli: Mattio spiega che molte cose pratiche, della bicicletta e non solo, le hanno imparate dai meccanici, dalle ore in cui restavano ad osservarli e da quanto si divertivano. Al sabato partecipavano alle gite aziendali, momenti utili a fare gruppo, a smaltire le piccole tensioni che possono generarsi sul lavoro. Poi, tutti e tre, hanno corso, Pietro gareggia ancora, quest'anno con la Visma-Lease a Bike, ma, tutt'oggi, quando possono vengono qui a dare una mano: «Ho sempre detto a loro quello che dico a tutti i giovani: non ditemi che non potete studiare, se pedalate. Certo, dovrete fare a meno di qualche momento libero, ma è la vita e, nella vita, un piano b è essenziale. Mentre gli alibi sono da bandire, sempre». Fu proprio Pietro, però, durante una gara in notturna, in maglia Vigor, da ragazzino, a dare una lezione a suo padre. Quella sera, Pietro inseguiva una fuga, in un circuito, assieme ad un altro ragazzo del Velo Club Esperia. Silvio arrivò in moto, in ritardo, trovò un varco tra le transenne e, dopo qualche giro, vedendo suo figlio sempre in testa a tirare ed il margine che non si riduceva, gridò all'atleta di Esperia: «Potresti anche dargli un cambio, ogni tanto». La gara finì, Silvio e Pietro si ritrovarono e fu proprio Pietro a prendere la parola: «Sai una cosa, papà? In quel frangente ero sempre io in testa, dall'altro lato del circuito, però, era lui a fare il ritmo. Perché hai parlato senza sapere le cose? Quel ragazzo non ha nulla da rimproverarsi».

Silvio Mattio sta in silenzio, ci pensa, i suoi occhi cambiano: «Ci illudiamo di aver visto la gara e vediamo qualche metro. Noi genitori siamo quasi tutti così. Dobbiamo cambiare, dobbiamo capire che è il divertimento dei nostri figli e devono viverlo a modo loro, senza intromissioni o giudizi». Ancora qualche racconto, proiettato nel futuro, all'orizzonte, infatti, c'è aria di cambiamento: la zona abbigliamento sarà più in vista, ad esempio. Poi, Silvio, apre la porta dell'officina e, là, in fondo, c'è Pietro intento a sistemare la propria bici, tornato da pochi giorni da un ritiro e pronto a ripartire, per la nuova stagione. Padre e figlio si avvicinano, guardano quella bicicletta, noi ci spostiamo, li osserviamo da una postazione appartata. Un altro giorno di lavoro si è concluso e, come sempre, a sera, ci si ritrova.


Hop Cycle, Pogliano Milanese

Hop, in inglese, significa luppolo ed il luppolo è un ingrediente fondamentale del processo produttivo della birra. Deriva da questa pianta il caratteristico sapore amaro della bevanda che solletica il palato e pizzica la gola. In realtà, il luppolo ne arricchisce anche l'aroma e contribuisce alla sua conservazione a causa delle spiccate qualità antibatteriche, ma non è di questo che vogliamo occuparci, non è da qui che vogliamo partire, quanto piuttosto dall'accostamento di due parole che abbiamo scorto in via Torquato Tasso, a Pogliano Milanese, su un'insegna di un azzurro acceso: Hop Cycle, bike service e beer shop. Hop Cycle ovvero una ciclofficina con birreria, nella traduzione italiana. Luppolo e bicicletta, entrambe parti del vocabolario giornaliero di Andrea Porrati, che ci guida nei segreti di questi locali. Da circa vent'anni, Andrea trascorre le proprie giornate dietro un bancone, gestisce una birreria, un Irish Pub e conosce bene ogni sfumatura di quella bevanda. La bicicletta, invece, è arrivata successivamente, a trent'anni, in un momento in cui si era reso conto di aver bisogno di moto, di movimento e libertà: aveva, quindi, ripescato dal garage la vecchia bicicletta che gli era stata regalata per la cresima e le prime pedalate le aveva mosse così. Qualche tempo e quella bici era da sistemare, alcuni pezzi andavano cambiati e altri, invece, aggiustati, ma una bici resta una bici, ammaccata o nuova di zecca. Di fatto, Hop Cycle nasce, coniugando il nuovo incontro e la costante presenza, nel primo periodo successivo alla pandemia da Covid19, dall'idea di cambiare gli orari di lavoro della birreria e dalla voglia di cogliere un'occasione che Porrati aveva sempre desiderato. Infatti, pur restando dietro il bancone, spesso si trovava a raccontare qualche giro in bicicletta, a scambiarsi pareri su una salita o una discesa, magari a leggere un libro o una rivista che avevano a che fare con il ciclismo e, cosa ancor più sorprendente, le persone che lo ascoltavano, a cui faceva domande ed a cui dava risposte, avevano lo stesso interesse. Sì, a ripensarci bene, l'aria in birreria era diversa da vari mesi.

«Quando mi chiedono qual è la "missione" di Hop Cycle, rispondo sempre che sarebbe bello portare il mondo della bicicletta dentro le persone. Il punto è che, se ci guardiamo bene attorno, sono in tanti ad essere in qualche modo attratti dalle due ruote, in diverse declinazioni, velocità, modalità, ma esiste una curiosità forte e diffusa per questo mezzo, per quel che si può fare con una bici. Spesso, però, queste persone non sanno come muoversi, come interfacciarsi con il nostro mondo, così si fermano, si arrendono, ne restano fuori». L'idea di Hop Cycle, in effetti, si sviluppa proprio a partire da sei amici che, dapprima, fondano un cycling club, per andare in bicicletta assieme, poi sviluppano il concetto Hop Cycle, attorno a quella birreria in cui Andrea lavorava da anni. In quest'ottica, Andrea Porrati frequenta un corso da meccanico per acquisire le competenze che gli permetteranno di lavorare in ciclofficina: «Non è stato facile. Anzi, confesso che, nei primi tempi, avevo quasi il timore di farmi vedere dai clienti mentre ero intento a lavorare. Tante cose da ricordare e, soprattutto, tutte cose a cui non ero abituato. Il pensiero costante era rivolto al possibile giudizio: magari stavo sbagliando, magari quel guasto non si riparava così. Insomma dovevo confrontarmi con la manualità pura di questo mestiere». L'officina, infatti, come sempre, è in vista, affinchè chiunque possa sapere esattamente cosa sta accadendo, in quel momento, alla sua bicicletta: una sorta di usanza nelle ciclofficine. In birreria, invece, c'è un divano, con libri e riviste, varie pubblicazioni negli anni, tavoli da occupare e birre in frigo: sì, se il cliente se la versa autonomamente nel bicchiere, non ci sono limitazioni nella vendita.

Parliamo di birre fresche, "beverine", di solito chiare, con un gusto amaro che si rivela dissetante per i lunghi giri in bicicletta. I pochi metri dietro il bancone sono il luogo in cui Andrea ha sviluppato la capacità di comunicare, di mettersi nei panni degli altri, di accogliere. «In un Irish Pub come il nostro, non c'è il servizio al tavolo. Le persone arrivano e si avvicinano al bancone stando in piedi e guardandoti negli occhi. In quegli istanti, il dovere di chi è dietro il bancone è quello di far sentire le persone benvenute, di farle capire che, in un modo o nell'altro, le si stava aspettando. Insomma bisogna farla sentire comode, serene, tranquille. Si può fare attraverso un sorriso, il modo di salutare, le parole, ma è necessario farlo. Io lo faccio da vent'anni, ho imparato a farlo». Il discorso cambia direzione, torna alle biciclette e all'empatia che serve in quell'ambito: «Sarà capitato a tutti di entrare in qualche officina e trovare il gestore pensieroso, innervosito, magari afflitto da problemi o pensieri. In quella circostanza ci siamo sentiti sicuramente a disagio, in difficoltà. Il nostro proposito è quello di non creare mai quella situazione, perché sappiamo quanto è brutta».

La ricerca, insomma, è quella di un'atmosfera amichevole, che permetta l'incontro e la conoscenza, ma anche l'esplorazione. Un ciclista, nei pensieri Hop Cycle, è così: un esploratore, talvolta un viaggiatore lento, che non guarda i tempi e la velocità, ma prova a conoscere quel che trova e non si rassegna mai a ciò che c'è. Non è un caso che, certo, in bicicletta, da Pogliano Milanese, si può andare al Sacro Monte di Varese, sul monte Bisbino, una salita di diciotto chilometri per testare la resistenza e la fatica, ma il giro più bello, quello che più spesso viene proposto ai visitatori, è una via accanto alla statale dove è situata la ciclofficina-birreria: «Parlo di sterrati, tratturi, in gran quantità. Ci passiamo accanto tutti i giorni, eppure è servita una bicicletta per scoprirli, altrimenti sarebbero rimasti lì, in mezzo ai campi, senza che li conoscessimo. Sai che da qui, attraverso queste stradine, è possibile arrivare fino a Milano, al centro di Milano, al Duomo. Mentre si ride, si scherza, si cresce, aprendosi sempre a persone nuove. Soprattutto in sicurezza, lontano dai pericoli della strada dove, purtroppo, manca sempre più il rispetto e, senza rispetto, che si sia in bici, in macchina o a piedi, non c'è convivenza».

I pedalatori che si uniscono al gruppo si sorprendono, anche se di viaggi ne hanno già fatti: hanno raccontato ad Andrea di quei giorni da Londra ad Edimburgo e ancora a Londra, piuttosto che di chi, in quattro anni diversi, partendo da Milano, si è recato dapprima a Palermo, poi a Santiago, ad Istanbul e ad Edimburgo. Anche Andrea vorrebbe diventare un cicloviaggiatore vero e proprio, ha in testa un viaggio in Irlanda, il suo luogo dell'anima, che, per vari motivi, ha sempre rimandato ed è sicuro che il gravel sarà sempre più il futuro del mondo bici. Un mondo che, anche quando era solo una passione, ha sempre cercato di scrutare nei dettagli: «Personalmente non riesco a fare le cose a metà e, quando mi interesso a qualcosa, vado fino in fondo. Cerco di capire tutto ciò che c'è attorno all'oggetto del mio interesse, amplio il panorama. Con il lavoro sono arrivate le responsabilità, ma sono imprenditore da anni e so affrontarle. Un giro in bici, ad esempio, è una buona soluzione». In merito alla conoscenza dell'oggetto bicicletta da parte dei clienti, vi sono da fare varie differenziazioni: chi conosce di più, chi di meno, chi vuole conoscere e chi, invece, si illude di sapere: qualcuno, addirittura, porta a casa i pezzi rovinati della bici per controllarli, altri cercano ancora di prendere confidenza con le cose più semplici. Dentro l'officina guardano tutti e Andrea sorride: «Di solito, chi guarda con più morbosità, con più attenzione, è chi, poi, a casa, è abituato a smanettare a propria volta sulla bicicletta- il sorriso diventa una risata decisa- e talvolta sono proprio loro, con i loro tentativi, a causare il danno che noi tentiamo di sistemare».

Anche per quanto riguarda la birra, la conoscenza non è così diffusa e, anzi, spesso si affida agli usi e alle mode del momento: «Non si chiede una IPA perché si sa cos'è, la si chiede perché la chiedono tutti, cosiccome, prima, tutti chiedevano una doppio malto. Però noto che c'è una fetta di clienti con gusti particolari, che assaggia birre particolari e lo fa con voglia di sperimentare. Credo che la conoscenza stia crescendo e questo ne sia un segno».

Hop Cycle è ancora una realtà giovane e i suoi sei fondatori hanno in mente varie strade per il futuro, per portare la birreria-ciclofficina a divenire sempre più un marchio riconosciuto e riconoscibile che possa essere conosciuto in tutta Italia ed arrivare a creare dei propri prodotti e delle proprie linee. Per fare questo, Andrea Porrati si sofferma su alcuni aspetti da implementare: «Non siamo in una posizione agevole quando si tratta di fermarsi per un caffè al volo o magari per una birra, ci troviamo su una statale e chi non parte con l'idea di venire da noi difficilmente si ferma per caso. Lavoriamo continuamente anche sotto questo profilo, sempre provando a mettere al centro la cultura, necessaria, fondamentale, qualunque cosa si voglia fare». Qualche ultima battuta, in libertà, come succede quando si inizia a conversare di una passione, mentre Porrati ci confessa che ha sempre seguito con grande attenzione Peter Sagan per le vittorie ma, ancor di più, per la freschezza che ha portato in gruppo e nel ciclismo. Un breve racconto della Strade Bianche, una delle sue gare preferite, una Granfondo che ha corso, fra gli sterrati senesi, poi una parentesi riguardante la Coppa Bernocchi che non sarà una fra le gare più importanti del calendario ciclistico, «ma attraversa i percorsi della zona che anche noi percorriamo sempre, sono posti a cui sono legato e vedere i professionisti sfidarsi su quelle strade mi fa sempre effetto». Una birra, ancora qualche bicicletta e via. Del resto, l'abbiamo detto, siamo da Hop Cycle e luppolo e bicicletta sono gli elementi chiave.


Bike Store Mugello

«Ogniqualvolta mi capita di vedere una persona che ha un'idea, un progetto, un desiderio, fino ad arrivare ad un sogno, grande o piccolo che sia, e, per trasformare questo qualcosa annidato nella mente, sceglie la bicicletta, io mi emoziono, mi prende una sensazione bella e forte che non riesco a spiegare. La bicicletta è un veicolo che può cambiare la realtà che ci circonda ed a me sembra sempre incredibile». Le parole di Amerigo Rizzuto prendono forma sotto i suoi baffi, lunghi e scuri, d'altri tempi, modellati quasi come in un dipinto, a far da contrasto ai capelli chiari: ogni tanto se li accarezza, mentre parla, spesso mentre riflette. Non è passato molto tempo da quando abbiamo iniziato a parlare: siamo a Borgo San Lorenzo, in provincia di Firenze, all'interno del Bike Store Mugello, in via Beato Angelico 3/5, a proposito di arte e di pittori. In negozio ci sono anche Giulio Gualandi e Francesco Torcasio, suoi compagni d'avventura quando tutto, in questi locali, è cominciato o, per meglio dire, ricominciato.


Suoi compagni di avventura e di incoscienza, di sana follia a riguardarsi indietro, ma allora avevano circa venticinque anni ed a vent'anni, si sa, ci si butta più di pancia, di istinto sui sogni, senza stare troppo ad analizzare. Era il gennaio del 2017, sette anni fa: «Abbiamo imboccato questa strada a tutto gas, le paure manco sapevamo cosa fossero. Avevamo voglia di un qualcosa di simile a quello che poi è diventato il Bike Store Mugello e l'abbiamo fatto. Questo posto, bisogna dirlo, esiste da circa settant'anni, di padre in figlio, ma, in quell'inverno, era "incerottato". Dovevamo togliere quei cerotti, aprire le finestre, dare aria e spazio a questo luogo». Ci pensano Amerigo, Giulio e Francesco, tre ragazzi che si conoscono sin dai banchi di scuola, compagni, soci, amici, che con la bicicletta, fin dai tempi dello studio, sono abituati a fare di tutto: sprint, volate e rincorse ai cartelli, spostamenti in città o nei campi, a metterci le mani, sporcarla, pulirla e risistemarla.


La prima giovinezza l'hanno vissuta così ed è stata talmente bella da far credere loro che per i giovani sia importante conoscere questa possibilità che, anche quando non porta a lunghi viaggi, porta a piccole rivoluzioni quotidiane, nelle abitudini e nei modi di fare ciò che si è sempre fatto. All'inizio, sono addirittura troppo giovani per un'attività imprenditoriale, così danno vita ad un'associazione sportiva, poi si presenta l'occasione, la colgono e del resto vi abbiamo già detto.


«Ad Amerigo ragazzo, ovvero al me stesso di sette anni fa, farei i complimenti per tutto il lavoro che faceva, per quanto spingeva, per la voglia di mettersi in gioco in quel mestiere, per tutte le rinunce. Non gli incuterei timori o paure, che col senno di poi vedo chiaramente, altrimenti si rischia di restare a pensare, senza mai iniziare veramente. Però un qualcosa da suggerirgli lo avrei: gli direi di formarsi anche sulla gestione aziendale e sui numeri. Vorrei che quel ragazzo evitasse di lamentarsi come fanno in tanti, nei meeting, del fatto che con le biciclette non si guadagna, ma guardasse a tutto ciò che è cambiato nel settore, alle svariate occasioni che ci sono in più, in questo mondo: quando pensiamo ad una mountain bike, oggi, pensiamo a diverse sfaccettature di bicicletta che, una volta, nemmeno esistevano. Il nostro campo si è modificato radicalmente negli ultimi anni, purtroppo l'imprenditoria spesso resta ferma a quel che c'era, noi non possiamo permettercelo. La conoscenza è l'antidoto contro la lamentela». Sì, la lamentela non fa parte del modo di essere di Amerigo, preferisce guardare alle soluzioni. Basti pensare che, agli inizi di questa attività, c'era sempre più da fare e per quei tre ragazzi il tempo libero si riduceva davvero all'osso. Soprattutto stavano quasi scomparendo le pedalate, i giri in bicicletta, magari verso Corella, un piccolo paese fantasma qui vicino, raggiungibile attraverso diversi tornanti, così da soprannominarlo "mini Stelvio", da cui si vede il Mugello, il Monte Falterona e, talvolta, anche l'Abetone innevato. Nemmeno la domenica era più un buon giorno per il vento in faccia. Il Bike Store Mugello aumenta il personale, organizza una turnazione più strutturata, tornano le pedalate e tutto sembra più facile. Amerigo indica il cancello d'entrata: «In quei momenti abbiamo capito che devono esistere due dimensioni: quella del negozio e quella della nostra amicizia. Facciamo una riunione a settimana e cerchiamo di risolvere i problemi prima che nascano. Se, però, nascono devono restare all'interno di quel cancello che vedi chiuso».

All'interno del negozio tutto è sistemato affinché il visitatore possa muoversi in maniera libera, stuzzicando così la sua curiosità e la sua voglia di scoprire. A grandi linee è possibile identificare tre o quattro parti principali: il mondo strada, con tre brand italiani e uno americano, la galleria, così denominata, ovvero un corridoio di circa quattro metri adibito a zona dedicata all'abbigliamento, agli accessori e alle scarpe, fino al corpo centrale e alla sezione espositiva per il mondo gravel e viaggi. L'officina, laddove si sistemano le biciclette per rimetterle in strada, è posizionata alla destra del bancone. Quando qualcuno entra nel locale, Amerigo gli va incontro ed inizia una vera e propria intervista: «Un'intervista è il regno delle domande, ma anche della conoscenza e dell'empatia. La verità è che nel nostro lavoro ci troviamo sempre, o quasi, di fronte degli sconosciuti ed è un problema guidarli così nella scelta della bicicletta che davvero vogliono, perché non sappiamo ciò di cui hanno bisogno e ciò di cui hanno necessità. Io chiedo, certo, ma racconto anche le mie esperienze, magari le mie difficoltà, cercando di arrivare a stabilire un rapporto». La costruzione di un dialogo è sempre complessa e, talvolta, non porta al risultato sperato: quella porta della confidenza e della fiducia non si apre. Magari il cliente vuole informazioni che non si è in grado di dare o, semplicemente, si hanno visioni diverse e modalità diverse di utilizzo del mezzo: «L'unica cosa da fare è essere disposti a chiedere a un collega di aiutarti, perché, in quel caso, è giusto che sia qualcun altro a cercare di capire i desideri di quella persona. Mi spiego meglio: io potrei essere adatto a consigliare un cicloviaggiatore lento e non un professionista o viceversa. Non si può sapere tutto e, nell'ottica di quell'empatia, bisogna farsi da parte». Può anche accadere che il cliente faccia scelte diverse, si rivolga ad un altro negozio e si venga poi a sapere che ha acquistato lì la bicicletta che era venuto a vedere da te: sono i giorni più difficili, quelli in cui si genera una piccola ferita. «Il mercato è così, è giusto. Non si sceglie solo in base al venditore, anche in base ai propri gusti ed è sacrosanto che la persona decida di rivolgersi altrove, ma il pensiero resta. L'idea che, probabilmente, si sarebbe potuto fare di più». Il negozio, del resto, è un universo da riempire.

All'inizio, Amerigo era all'inseguimento di ogni prodotto, quasi fosse necessario avere tutto per essere un locale all'avanguardia, per soddisfare le richieste dei clienti. Non è servito molto tempo perché capisse che non era questa la strada giusta: non basta inserire oggetti nuovi in esposizione per arrivare alla completezza, per essere adeguati ai bisogni di chi entra dalla porta, è, ancor prima, necessaria una coerenza tra i prodotti presenti e la capacità di fare scelte, perché le persone possano orientarsi nei reparti del negozio senza perdersi. Amerigo si sofferma su questo aspetto, dopo averci fatto notare che, spesso, è lo stesso problema che ha l'acquirente: «Sai cosa può ingannare nel mondo bicicletta? La passione. Essere appassionati è bellissimo ed è un fatto da tutelare, ma la passione rende ciechi e talvolta si rischia di non vedere più la linea, ben definita, che separa la semplice e pura passione dalla competenza, soprattutto in questo periodo in cui le informazioni sono reperibili da tutti. In astratto ciascuno può identificare le componenti migliori di una bicicletta, l'errore è credere che si possano sempre assemblare, mettere assieme. Talvolta non è possibile, altre non è necessario, altre sconveniente. Il nostro dovere è spiegarlo». Amerigo Rizzuto si mette quindi in ascolto, cerca di non entrare mai in contrasto con il cliente, bensì prova a consigliare attraverso la conoscenza che ottiene dal provare i prodotti, dallo sperimentare in prima persona quel che si consiglia, facendo anche qualche passo indietro, se necessario. A questo fine, ha aperto un canale youtube in cui racconta dettagli tecnici, dai più complessi ai più semplici, a quelli che si ritengono scontati ma non lo sono, l'utilizzo corretto di un garmin, ad esempio. Nel tempo, questo ha portato sempre maggiore fiducia in chi si rivolge a Bike Store Mugello.

Altro compito che il negozio ha assunto è quello legato alla sensibilizzazione in termini di sicurezza stradale. I consigli sono sempre tanti e si forniscono ogni volta in cui si consegna una bicicletta, ma non ci si ferma lì. «Quando si esce da un negozio come il nostro, si ha la testa piena di parole ed indicazioni. Io credo ed ho sempre creduto che, perché vengano recepite, sia necessario comunicarle singolarmente e far in modo che siano anche sperimentate, perché restino in mente. L'esempio resta la base». Ogni quindici giorni, a Borgo San Lorenzo, si svolge Massa Ciclica: una pedalata organizzata in cui sono stabiliti dei punti precisi.

Ci si ferma, si approfondisce un tema inerente a buone pratiche sulla strada e poi si riparte. Di volta in volta cambia la tematica, ma la modalità di svolgimento di Massa Ciclica è sempre la medesima. Ormai è quasi ora di pranzo, una piccola pausa, poi si torna qui: qualcuno arriverà, chiederà un parere, si fiderà, partirà per un viaggio lontano, in Patagonia, magari, come un ragazzo qualche giorno fa, oppure semplicemente si recherà al lavoro o a scuola. In ogni caso, le indicazioni di Amerigo, Francesco e Giulio saranno servite per approntare quel mezzo che realizza idee e progetti. Una bella soddisfazione, non c'è che dire.


Sartoria Ciclistica, Como

Fra le mura di Sartoria Ciclistica, in via Borgo Vico 54, a Como, l'attimo migliore, il più romantico, è al mattino presto, quando le acque del lago sono placide ed il sole, facendo capolino tra i monti, sparge i primi raggi fra le vie della città. Quella manciata di luce dorata arriva fino qui, si infrange sui vetri del locale, mentre la vetrofania si riflette all'interno, poco più sotto, la foto di un panorama polveroso delle strade bianche: là fuori, a quell'ora, ogni tanto, passa la "sciura Maria" che, con la sua "olandesina", sta andando in posta a ritirare la pensione o, magari, una raccomandata. Alessandro Tino osserva le sue pedalate, riflette, abbassa il volume della musica, e sottolinea: «È una ciclista, punto e basta. Siamo tutti ciclisti nel momento in cui pedaliamo, qualunque sia il motivo, qualunque sia il sogno. Ciclista è chi porta la propria Brompton sul treno, all'alba, per andare al lavoro, piuttosto che chi progetta un viaggio in Patagonia. Sono certamente ciclisti i professionisti del Giro d'Italia e del Tour de France, ma non solo loro.

Poi c'è il ciclista inteso in senso etico e, in questo senso, ciclisti dovremmo essere tutti, anche chi non pedala: perché un ciclista è una persona che porta con orgoglio la bandiera dell'ecologia, farebbe bene al nostro pianeta, che dovremmo salvaguardare, invece maltrattiamo sempre più. Chissà, forse tra una decina di anni, qualcosa cambierà». In realtà, la "sciura Maria", solo qualche anno fa, nel 2017, quando Sartoria Ciclistica era da un'altra parte della città, si limitava a guardare da fuori, con pudore, quasi con timidezza, magari rivolgendosi a qualche amica, proprio mentre era sul punto di varcare la soglia: «Ah no, questo è il bar dei ciclisti». Allora tornava sui propri passi e quel caffè lo andava a bere da un'altra parte, rinunciando a quella iniziale tentazione. La causa era una sorta di blocco mentale, quel timore dell'esclusione che abbiamo tutti quando ci rechiamo in un luogo in cui, magari, tutti condividono una passione o un interesse tranne noi. La paura di restare soli, forse di non essere all'altezza, perché diversi.

In realtà, la Sartoria Ciclistica di quei giorni era differente. Innanzitutto si trovava in un'altra parte della città, ma soprattutto era declinata in un format differente: si trattava di un bar caffetteria con un angolo dedicato a souvenirs da ciclismo. Nel periodo della pandemia, avviene un ripensamento, l'idea si evolve e si modifica: «Volevamo ricreare un ambiente il più possibile somigliante a quello di una casa ed a casa nessuno si pone problemi di sorta, anzi si sente tranquillo, sicuro, a proprio agio. Allora abbiamo pensato di mettere molti divani e divanetti, invece di tavoli in stile ristorante, nessuna tovaglia, una rete wi-fi veloce e la possibilità di prendersi tutto il tempo che si desidera, senza fretta. Apriamo al mattino alle otto e mezza e chiudiamo al pomeriggio alle quindici. La sera siamo tendenzialmente chiusi, tranne in casi di eventi o incontri particolari. È il nostro modo di vivere il primo cycling cafè in Italia». Lo dice con soddisfazione Alessandro: si sente dal tono di voce, si avverte dal linguaggio non verbale. Alessandro Tino, per i più, e anche per noi, mentre dialoghiamo, è semplicemente Alex Mitchumm: un soprannome che riporta all'albero genealogico, alle origini, a suo padre Daniele e, prima ancora, a suo nonno che si sono sempre occupati di abiti e di sartoria, in una zona come quella del lago di Como, conosciuta in tutto il mondo per il valore delle stoffe e dei tessuti prodotti: parliamo, in questo caso, di Mitchumm Industries. «Quando ho dovuto scegliere il nome da dare alla nostra creatura, ho pensato che la parola "sartoria" dovesse esserci. Non solo perché ha a che fare con la mia storia personale, soprattutto perché qui si sperimenta una vera e propria "esperienza sartoriale". Mi spiego meglio: cosa accade in una sartoria? Si cerca la miglior combinazione possibile al fine di trovare ciò che meglio si adatta alla tua pelle, quel che tu vorresti sentirti addosso.

Vero, noi ci occupiamo anche di collezioni, ma, anche a prescindere da questo aspetto, quella perfetta corrispondenza tra abito e persona è una metafora, un fil rouge, che può essere trasposto anche alla nostra idea di rapporti con le persone che vengono a trovarci». Le collezioni firmate Sartoria Ciclistica sono pensate da Alex e Annalise «come se fossero abiti nostri, attraverso ciò che piace a noi, l'unica possibilità per ideare qualcosa che interessi. Si tratta di un processo che porta anche ansia e tensione, ma quando gli scaffali si riempiono di ciò che hai progettato tu e vedi lo sguardo delle persone prima di acquistarli e la soddisfazione dopo l'acquisto passa tutto. Capisci che ne è valsa la pena».

All'esterno del locale, in effetti, notiamo uno zerbino con una scritta che riassume perfettamente la spiegazione che Mitchumm ci ha appena fatto, la filosofia alla base di Sartoria Ciclistica: "Welcome home cyclists". Fino ad ora avevamo parlato di chi, non essendo pedalatore, avesse ritrosia nel fermarsi lì, ora affrontiamo l'altro versante della questione, ci dedichiamo, per l'appunto, ai ciclisti, di qualunque tipologia. Tino pensa ad un alveare, alla casa delle api, e a tutte le api che vi entrano e vi escono, talvolta si allontanano, talvolta vi fanno ritorno: in fondo, il gruppo, il gruppetto, dei ciclisti non è molto diverso: «L'ape che torna nell'alveare sa di essere fra altre api, c'è un linguaggio comune e quindi una comprensione istantanea. Chi calpesta quello zerbino, chi legge quella frase, può finalmente abbandonare ogni maschera, ogni sovrastruttura, può dirsi: "Sono fra persone che mi assomigliano, mi capiranno, non mi giudicheranno". Fa la differenza». Come sempre, l'importante sono i dettagli ed in questo caso i dettagli prendono, ad esempio, la forma del sudore di chiunque, sceso di sella: spiega Tino che, talvolta, un ciclista ha remore nell'entrare in un locale perché sudato, sporco. C'è un'apparenza che incute pressione: la paura che tutti si voltino a guardarti per come sei vestito, per come sei messo. Sono gli stessi dubbi di chi non pedala, semplicemente al contrario: «Il mio sudore è uguale al tuo, uguale a quello di chiunque altro, per questo, se dovessi descrivere Sartoria Ciclistica, metterei un'alfa privativa davanti a qualsiasi caratteristica diversa dal desiderio di stare insieme e dall'interesse per la bicicletta: siamo a-politici, a-religiosi e così via».

In Sartoria Ciclistica, si abbinano egregiamente due termini, due usanze, due abitudini che fanno costume e tempo libero: bicicletta e caffè. Non a caso l'invito di Mitchumm è sempre stato: «Vieni a trovarmi per un caffè e un poco di sano e romantico ciclismo italiano». Il caffè, ci spiegano, è molto simile alla bicicletta e come il tè, altra bevanda che tutti conosciamo e consumiamo, fa salotto, fa familiarità. In Inghilterra c'è il tè delle cinque, in Italia si usa consumare uno o più caffè al giorno, dopo la pandemia, tra l'altro, è aumentato, nelle famiglie, il desiderio di avere una macchinetta del caffè a casa, di sedersi lì vicino, con una tazzina in mano, a chiacchierare, a raccontarsi la giornata. Il caffè di Sartoria Ciclistica è un rito che si ripete ogni volta e, soprattutto, prima dei giri in bici tutti insieme: «All'inizio della conoscenza, si sperimenta sempre una parziale diffidenza, è normale. Quella tazzina è un antipasto di confidenza: le prime domande, le prime parole. Poi si sale in sella e quel processo continua». Qui emerge chiaramente l'essenza di Sartoria Ciclistica: non un negozio di biciclette, nemmeno un normale bar. Piuttosto un concept store. Le magliette dei ciclisti, all'interno, sono appese vicino alla macchinette del caffè, notiamo quella di Tadej Pogačar al Tour de France e quella di Chris Froome, quasi una cornice di tutto ciò che accade in quei locali. «Racconto spesso che la parte più bella del mio lavoro consiste nelle ride della domenica mattina. Fa strano parlare di lavoro per un giro in bicicletta, me ne rendo conto, infatti mi sento fortunato perché quel vento in faccia fa parte del mio lavoro. Assieme alla meraviglia che sperimento ogni volta in cui mi accorgo che, pedalando, diventiamo tutti libri aperti, ci mettiamo a nudo. Quello "spogliarsi" permette la nascita di alcune amicizie: a me è successo. Allora il giro in bici lo organizzi anche dopo il lavoro, perché ti piace troppo, ti fa stare meglio, ti libera. Poi vai a mangiare un hamburger e a bere una birra». Il tutto con un occhio attento alla cultura ed alla sensibilizzazione perché, altrimenti, come sottolinea, tutto perderebbe molto di senso: «In quelle "Sunday ride" ho la responsabilità delle persone che accompagno. Spiego loro come si sta in gruppo e come si sta in strada. Che la strada è di tutti, ma, affinchè sia davvero così, serve un reciproco rispetto che è essenziale. Per questo mi arrabbio con chiunque non rispetti le regole, ancor di più se sono ciclisti, perché è il primo passo per ottenere rispetto».

Questo insieme di rapporti ed interazioni ha a che vedere con il romanticismo a cui Alex Mitchumm crede molto «a costo di sembrare fuori dal tempo, di passare per ingenuo, ma penso ancora che siano sempre le persone a fare la differenza, anche nella scelta dei fornitori applico questo criterio. Guardo sia il marchio che la persona che lo rappresenta». Insomma, Alex Mitchumm è un laghèe romantico. Quando gli chiediamo un luogo ideale, il più bello, in cui andare in bicicletta, nei dintorni di Como, mette da parte i posti de "Il Lombardia", pur famosissimi, e ci parla del Rifugio Venini, sul monte Galbiga, dove, tre anni fa, ha chiesto a sua moglie Annalise di sposarlo: da Como ci si dirige verso Argegno, San Fedele, fino a Pigra, proseguendo su una strada a mezz'asta che costeggia la montagna e arrivando a 1573 metri. Gli ultimi metri si percorrono anche in bicicletta da gravel, i panorami sono mozzafiato su Svizzera ed Italia. Sì, un laghèe romantico che saluta tutti con un "ciao", al loro arrivo in Sartoria, ma pur sempre un laghèe, ovvero un abitante delle zone del lago. «Sappiamo essere gioviali, anche caciaroni, talvolta soggetti da osteria, ma in noi resta un indole da vecchi toscanacci, quindi da testardi. Più ci dicono che qualcosa non si può fare, più proviamo a farla, anzi, vogliamo farla e, spesso, ci riusciamo anche. In fondo, i ciclisti sono così, devono essere così». Di fatto, Sartoria Ciclistica è soprattutto un punto di incontro internazionale per ciclisti e cicliste che, in inglese, si scambiano pareri ed informazioni, però, Alex Mitchumm non si ferma qui. Nel cassetto è rimasto un sogno: replicare Sartoria in altre nazioni, in altri paesi. Il luogo predestinato potrebbe essere Girona, in Spagna, forse Parigi, in Francia, ma, se proprio deve sognare, Mitchumm pensa all'America. Il sogno è nel cassetto, ma il cassetto è aperto, chissà che presto non si realizzi.