Hop Cycle, Pogliano Milanese

Hop, in inglese, significa luppolo ed il luppolo è un ingrediente fondamentale del processo produttivo della birra. Deriva da questa pianta il caratteristico sapore amaro della bevanda che solletica il palato e pizzica la gola. In realtà, il luppolo ne arricchisce anche l'aroma e contribuisce alla sua conservazione a causa delle spiccate qualità antibatteriche, ma non è di questo che vogliamo occuparci, non è da qui che vogliamo partire, quanto piuttosto dall'accostamento di due parole che abbiamo scorto in via Torquato Tasso, a Pogliano Milanese, su un'insegna di un azzurro acceso: Hop Cycle, bike service e beer shop. Hop Cycle ovvero una ciclofficina con birreria, nella traduzione italiana. Luppolo e bicicletta, entrambe parti del vocabolario giornaliero di Andrea Porrati, che ci guida nei segreti di questi locali. Da circa vent'anni, Andrea trascorre le proprie giornate dietro un bancone, gestisce una birreria, un Irish Pub e conosce bene ogni sfumatura di quella bevanda. La bicicletta, invece, è arrivata successivamente, a trent'anni, in un momento in cui si era reso conto di aver bisogno di moto, di movimento e libertà: aveva, quindi, ripescato dal garage la vecchia bicicletta che gli era stata regalata per la cresima e le prime pedalate le aveva mosse così. Qualche tempo e quella bici era da sistemare, alcuni pezzi andavano cambiati e altri, invece, aggiustati, ma una bici resta una bici, ammaccata o nuova di zecca. Di fatto, Hop Cycle nasce, coniugando il nuovo incontro e la costante presenza, nel primo periodo successivo alla pandemia da Covid19, dall'idea di cambiare gli orari di lavoro della birreria e dalla voglia di cogliere un'occasione che Porrati aveva sempre desiderato. Infatti, pur restando dietro il bancone, spesso si trovava a raccontare qualche giro in bicicletta, a scambiarsi pareri su una salita o una discesa, magari a leggere un libro o una rivista che avevano a che fare con il ciclismo e, cosa ancor più sorprendente, le persone che lo ascoltavano, a cui faceva domande ed a cui dava risposte, avevano lo stesso interesse. Sì, a ripensarci bene, l'aria in birreria era diversa da vari mesi.

«Quando mi chiedono qual è la "missione" di Hop Cycle, rispondo sempre che sarebbe bello portare il mondo della bicicletta dentro le persone. Il punto è che, se ci guardiamo bene attorno, sono in tanti ad essere in qualche modo attratti dalle due ruote, in diverse declinazioni, velocità, modalità, ma esiste una curiosità forte e diffusa per questo mezzo, per quel che si può fare con una bici. Spesso, però, queste persone non sanno come muoversi, come interfacciarsi con il nostro mondo, così si fermano, si arrendono, ne restano fuori». L'idea di Hop Cycle, in effetti, si sviluppa proprio a partire da sei amici che, dapprima, fondano un cycling club, per andare in bicicletta assieme, poi sviluppano il concetto Hop Cycle, attorno a quella birreria in cui Andrea lavorava da anni. In quest'ottica, Andrea Porrati frequenta un corso da meccanico per acquisire le competenze che gli permetteranno di lavorare in ciclofficina: «Non è stato facile. Anzi, confesso che, nei primi tempi, avevo quasi il timore di farmi vedere dai clienti mentre ero intento a lavorare. Tante cose da ricordare e, soprattutto, tutte cose a cui non ero abituato. Il pensiero costante era rivolto al possibile giudizio: magari stavo sbagliando, magari quel guasto non si riparava così. Insomma dovevo confrontarmi con la manualità pura di questo mestiere». L'officina, infatti, come sempre, è in vista, affinchè chiunque possa sapere esattamente cosa sta accadendo, in quel momento, alla sua bicicletta: una sorta di usanza nelle ciclofficine. In birreria, invece, c'è un divano, con libri e riviste, varie pubblicazioni negli anni, tavoli da occupare e birre in frigo: sì, se il cliente se la versa autonomamente nel bicchiere, non ci sono limitazioni nella vendita.

Parliamo di birre fresche, "beverine", di solito chiare, con un gusto amaro che si rivela dissetante per i lunghi giri in bicicletta. I pochi metri dietro il bancone sono il luogo in cui Andrea ha sviluppato la capacità di comunicare, di mettersi nei panni degli altri, di accogliere. «In un Irish Pub come il nostro, non c'è il servizio al tavolo. Le persone arrivano e si avvicinano al bancone stando in piedi e guardandoti negli occhi. In quegli istanti, il dovere di chi è dietro il bancone è quello di far sentire le persone benvenute, di farle capire che, in un modo o nell'altro, le si stava aspettando. Insomma bisogna farla sentire comode, serene, tranquille. Si può fare attraverso un sorriso, il modo di salutare, le parole, ma è necessario farlo. Io lo faccio da vent'anni, ho imparato a farlo». Il discorso cambia direzione, torna alle biciclette e all'empatia che serve in quell'ambito: «Sarà capitato a tutti di entrare in qualche officina e trovare il gestore pensieroso, innervosito, magari afflitto da problemi o pensieri. In quella circostanza ci siamo sentiti sicuramente a disagio, in difficoltà. Il nostro proposito è quello di non creare mai quella situazione, perché sappiamo quanto è brutta».

La ricerca, insomma, è quella di un'atmosfera amichevole, che permetta l'incontro e la conoscenza, ma anche l'esplorazione. Un ciclista, nei pensieri Hop Cycle, è così: un esploratore, talvolta un viaggiatore lento, che non guarda i tempi e la velocità, ma prova a conoscere quel che trova e non si rassegna mai a ciò che c'è. Non è un caso che, certo, in bicicletta, da Pogliano Milanese, si può andare al Sacro Monte di Varese, sul monte Bisbino, una salita di diciotto chilometri per testare la resistenza e la fatica, ma il giro più bello, quello che più spesso viene proposto ai visitatori, è una via accanto alla statale dove è situata la ciclofficina-birreria: «Parlo di sterrati, tratturi, in gran quantità. Ci passiamo accanto tutti i giorni, eppure è servita una bicicletta per scoprirli, altrimenti sarebbero rimasti lì, in mezzo ai campi, senza che li conoscessimo. Sai che da qui, attraverso queste stradine, è possibile arrivare fino a Milano, al centro di Milano, al Duomo. Mentre si ride, si scherza, si cresce, aprendosi sempre a persone nuove. Soprattutto in sicurezza, lontano dai pericoli della strada dove, purtroppo, manca sempre più il rispetto e, senza rispetto, che si sia in bici, in macchina o a piedi, non c'è convivenza».

I pedalatori che si uniscono al gruppo si sorprendono, anche se di viaggi ne hanno già fatti: hanno raccontato ad Andrea di quei giorni da Londra ad Edimburgo e ancora a Londra, piuttosto che di chi, in quattro anni diversi, partendo da Milano, si è recato dapprima a Palermo, poi a Santiago, ad Istanbul e ad Edimburgo. Anche Andrea vorrebbe diventare un cicloviaggiatore vero e proprio, ha in testa un viaggio in Irlanda, il suo luogo dell'anima, che, per vari motivi, ha sempre rimandato ed è sicuro che il gravel sarà sempre più il futuro del mondo bici. Un mondo che, anche quando era solo una passione, ha sempre cercato di scrutare nei dettagli: «Personalmente non riesco a fare le cose a metà e, quando mi interesso a qualcosa, vado fino in fondo. Cerco di capire tutto ciò che c'è attorno all'oggetto del mio interesse, amplio il panorama. Con il lavoro sono arrivate le responsabilità, ma sono imprenditore da anni e so affrontarle. Un giro in bici, ad esempio, è una buona soluzione». In merito alla conoscenza dell'oggetto bicicletta da parte dei clienti, vi sono da fare varie differenziazioni: chi conosce di più, chi di meno, chi vuole conoscere e chi, invece, si illude di sapere: qualcuno, addirittura, porta a casa i pezzi rovinati della bici per controllarli, altri cercano ancora di prendere confidenza con le cose più semplici. Dentro l'officina guardano tutti e Andrea sorride: «Di solito, chi guarda con più morbosità, con più attenzione, è chi, poi, a casa, è abituato a smanettare a propria volta sulla bicicletta- il sorriso diventa una risata decisa- e talvolta sono proprio loro, con i loro tentativi, a causare il danno che noi tentiamo di sistemare».

Anche per quanto riguarda la birra, la conoscenza non è così diffusa e, anzi, spesso si affida agli usi e alle mode del momento: «Non si chiede una IPA perché si sa cos'è, la si chiede perché la chiedono tutti, cosiccome, prima, tutti chiedevano una doppio malto. Però noto che c'è una fetta di clienti con gusti particolari, che assaggia birre particolari e lo fa con voglia di sperimentare. Credo che la conoscenza stia crescendo e questo ne sia un segno».

Hop Cycle è ancora una realtà giovane e i suoi sei fondatori hanno in mente varie strade per il futuro, per portare la birreria-ciclofficina a divenire sempre più un marchio riconosciuto e riconoscibile che possa essere conosciuto in tutta Italia ed arrivare a creare dei propri prodotti e delle proprie linee. Per fare questo, Andrea Porrati si sofferma su alcuni aspetti da implementare: «Non siamo in una posizione agevole quando si tratta di fermarsi per un caffè al volo o magari per una birra, ci troviamo su una statale e chi non parte con l'idea di venire da noi difficilmente si ferma per caso. Lavoriamo continuamente anche sotto questo profilo, sempre provando a mettere al centro la cultura, necessaria, fondamentale, qualunque cosa si voglia fare». Qualche ultima battuta, in libertà, come succede quando si inizia a conversare di una passione, mentre Porrati ci confessa che ha sempre seguito con grande attenzione Peter Sagan per le vittorie ma, ancor di più, per la freschezza che ha portato in gruppo e nel ciclismo. Un breve racconto della Strade Bianche, una delle sue gare preferite, una Granfondo che ha corso, fra gli sterrati senesi, poi una parentesi riguardante la Coppa Bernocchi che non sarà una fra le gare più importanti del calendario ciclistico, «ma attraversa i percorsi della zona che anche noi percorriamo sempre, sono posti a cui sono legato e vedere i professionisti sfidarsi su quelle strade mi fa sempre effetto». Una birra, ancora qualche bicicletta e via. Del resto, l'abbiamo detto, siamo da Hop Cycle e luppolo e bicicletta sono gli elementi chiave.


Bike Store Mugello

«Ogniqualvolta mi capita di vedere una persona che ha un'idea, un progetto, un desiderio, fino ad arrivare ad un sogno, grande o piccolo che sia, e, per trasformare questo qualcosa annidato nella mente, sceglie la bicicletta, io mi emoziono, mi prende una sensazione bella e forte che non riesco a spiegare. La bicicletta è un veicolo che può cambiare la realtà che ci circonda ed a me sembra sempre incredibile». Le parole di Amerigo Rizzuto prendono forma sotto i suoi baffi, lunghi e scuri, d'altri tempi, modellati quasi come in un dipinto, a far da contrasto ai capelli chiari: ogni tanto se li accarezza, mentre parla, spesso mentre riflette. Non è passato molto tempo da quando abbiamo iniziato a parlare: siamo a Borgo San Lorenzo, in provincia di Firenze, all'interno del Bike Store Mugello, in via Beato Angelico 3/5, a proposito di arte e di pittori. In negozio ci sono anche Giulio Gualandi e Francesco Torcasio, suoi compagni d'avventura quando tutto, in questi locali, è cominciato o, per meglio dire, ricominciato.


Suoi compagni di avventura e di incoscienza, di sana follia a riguardarsi indietro, ma allora avevano circa venticinque anni ed a vent'anni, si sa, ci si butta più di pancia, di istinto sui sogni, senza stare troppo ad analizzare. Era il gennaio del 2017, sette anni fa: «Abbiamo imboccato questa strada a tutto gas, le paure manco sapevamo cosa fossero. Avevamo voglia di un qualcosa di simile a quello che poi è diventato il Bike Store Mugello e l'abbiamo fatto. Questo posto, bisogna dirlo, esiste da circa settant'anni, di padre in figlio, ma, in quell'inverno, era "incerottato". Dovevamo togliere quei cerotti, aprire le finestre, dare aria e spazio a questo luogo». Ci pensano Amerigo, Giulio e Francesco, tre ragazzi che si conoscono sin dai banchi di scuola, compagni, soci, amici, che con la bicicletta, fin dai tempi dello studio, sono abituati a fare di tutto: sprint, volate e rincorse ai cartelli, spostamenti in città o nei campi, a metterci le mani, sporcarla, pulirla e risistemarla.


La prima giovinezza l'hanno vissuta così ed è stata talmente bella da far credere loro che per i giovani sia importante conoscere questa possibilità che, anche quando non porta a lunghi viaggi, porta a piccole rivoluzioni quotidiane, nelle abitudini e nei modi di fare ciò che si è sempre fatto. All'inizio, sono addirittura troppo giovani per un'attività imprenditoriale, così danno vita ad un'associazione sportiva, poi si presenta l'occasione, la colgono e del resto vi abbiamo già detto.


«Ad Amerigo ragazzo, ovvero al me stesso di sette anni fa, farei i complimenti per tutto il lavoro che faceva, per quanto spingeva, per la voglia di mettersi in gioco in quel mestiere, per tutte le rinunce. Non gli incuterei timori o paure, che col senno di poi vedo chiaramente, altrimenti si rischia di restare a pensare, senza mai iniziare veramente. Però un qualcosa da suggerirgli lo avrei: gli direi di formarsi anche sulla gestione aziendale e sui numeri. Vorrei che quel ragazzo evitasse di lamentarsi come fanno in tanti, nei meeting, del fatto che con le biciclette non si guadagna, ma guardasse a tutto ciò che è cambiato nel settore, alle svariate occasioni che ci sono in più, in questo mondo: quando pensiamo ad una mountain bike, oggi, pensiamo a diverse sfaccettature di bicicletta che, una volta, nemmeno esistevano. Il nostro campo si è modificato radicalmente negli ultimi anni, purtroppo l'imprenditoria spesso resta ferma a quel che c'era, noi non possiamo permettercelo. La conoscenza è l'antidoto contro la lamentela». Sì, la lamentela non fa parte del modo di essere di Amerigo, preferisce guardare alle soluzioni. Basti pensare che, agli inizi di questa attività, c'era sempre più da fare e per quei tre ragazzi il tempo libero si riduceva davvero all'osso. Soprattutto stavano quasi scomparendo le pedalate, i giri in bicicletta, magari verso Corella, un piccolo paese fantasma qui vicino, raggiungibile attraverso diversi tornanti, così da soprannominarlo "mini Stelvio", da cui si vede il Mugello, il Monte Falterona e, talvolta, anche l'Abetone innevato. Nemmeno la domenica era più un buon giorno per il vento in faccia. Il Bike Store Mugello aumenta il personale, organizza una turnazione più strutturata, tornano le pedalate e tutto sembra più facile. Amerigo indica il cancello d'entrata: «In quei momenti abbiamo capito che devono esistere due dimensioni: quella del negozio e quella della nostra amicizia. Facciamo una riunione a settimana e cerchiamo di risolvere i problemi prima che nascano. Se, però, nascono devono restare all'interno di quel cancello che vedi chiuso».

All'interno del negozio tutto è sistemato affinché il visitatore possa muoversi in maniera libera, stuzzicando così la sua curiosità e la sua voglia di scoprire. A grandi linee è possibile identificare tre o quattro parti principali: il mondo strada, con tre brand italiani e uno americano, la galleria, così denominata, ovvero un corridoio di circa quattro metri adibito a zona dedicata all'abbigliamento, agli accessori e alle scarpe, fino al corpo centrale e alla sezione espositiva per il mondo gravel e viaggi. L'officina, laddove si sistemano le biciclette per rimetterle in strada, è posizionata alla destra del bancone. Quando qualcuno entra nel locale, Amerigo gli va incontro ed inizia una vera e propria intervista: «Un'intervista è il regno delle domande, ma anche della conoscenza e dell'empatia. La verità è che nel nostro lavoro ci troviamo sempre, o quasi, di fronte degli sconosciuti ed è un problema guidarli così nella scelta della bicicletta che davvero vogliono, perché non sappiamo ciò di cui hanno bisogno e ciò di cui hanno necessità. Io chiedo, certo, ma racconto anche le mie esperienze, magari le mie difficoltà, cercando di arrivare a stabilire un rapporto». La costruzione di un dialogo è sempre complessa e, talvolta, non porta al risultato sperato: quella porta della confidenza e della fiducia non si apre. Magari il cliente vuole informazioni che non si è in grado di dare o, semplicemente, si hanno visioni diverse e modalità diverse di utilizzo del mezzo: «L'unica cosa da fare è essere disposti a chiedere a un collega di aiutarti, perché, in quel caso, è giusto che sia qualcun altro a cercare di capire i desideri di quella persona. Mi spiego meglio: io potrei essere adatto a consigliare un cicloviaggiatore lento e non un professionista o viceversa. Non si può sapere tutto e, nell'ottica di quell'empatia, bisogna farsi da parte». Può anche accadere che il cliente faccia scelte diverse, si rivolga ad un altro negozio e si venga poi a sapere che ha acquistato lì la bicicletta che era venuto a vedere da te: sono i giorni più difficili, quelli in cui si genera una piccola ferita. «Il mercato è così, è giusto. Non si sceglie solo in base al venditore, anche in base ai propri gusti ed è sacrosanto che la persona decida di rivolgersi altrove, ma il pensiero resta. L'idea che, probabilmente, si sarebbe potuto fare di più». Il negozio, del resto, è un universo da riempire.

All'inizio, Amerigo era all'inseguimento di ogni prodotto, quasi fosse necessario avere tutto per essere un locale all'avanguardia, per soddisfare le richieste dei clienti. Non è servito molto tempo perché capisse che non era questa la strada giusta: non basta inserire oggetti nuovi in esposizione per arrivare alla completezza, per essere adeguati ai bisogni di chi entra dalla porta, è, ancor prima, necessaria una coerenza tra i prodotti presenti e la capacità di fare scelte, perché le persone possano orientarsi nei reparti del negozio senza perdersi. Amerigo si sofferma su questo aspetto, dopo averci fatto notare che, spesso, è lo stesso problema che ha l'acquirente: «Sai cosa può ingannare nel mondo bicicletta? La passione. Essere appassionati è bellissimo ed è un fatto da tutelare, ma la passione rende ciechi e talvolta si rischia di non vedere più la linea, ben definita, che separa la semplice e pura passione dalla competenza, soprattutto in questo periodo in cui le informazioni sono reperibili da tutti. In astratto ciascuno può identificare le componenti migliori di una bicicletta, l'errore è credere che si possano sempre assemblare, mettere assieme. Talvolta non è possibile, altre non è necessario, altre sconveniente. Il nostro dovere è spiegarlo». Amerigo Rizzuto si mette quindi in ascolto, cerca di non entrare mai in contrasto con il cliente, bensì prova a consigliare attraverso la conoscenza che ottiene dal provare i prodotti, dallo sperimentare in prima persona quel che si consiglia, facendo anche qualche passo indietro, se necessario. A questo fine, ha aperto un canale youtube in cui racconta dettagli tecnici, dai più complessi ai più semplici, a quelli che si ritengono scontati ma non lo sono, l'utilizzo corretto di un garmin, ad esempio. Nel tempo, questo ha portato sempre maggiore fiducia in chi si rivolge a Bike Store Mugello.

Altro compito che il negozio ha assunto è quello legato alla sensibilizzazione in termini di sicurezza stradale. I consigli sono sempre tanti e si forniscono ogni volta in cui si consegna una bicicletta, ma non ci si ferma lì. «Quando si esce da un negozio come il nostro, si ha la testa piena di parole ed indicazioni. Io credo ed ho sempre creduto che, perché vengano recepite, sia necessario comunicarle singolarmente e far in modo che siano anche sperimentate, perché restino in mente. L'esempio resta la base». Ogni quindici giorni, a Borgo San Lorenzo, si svolge Massa Ciclica: una pedalata organizzata in cui sono stabiliti dei punti precisi.

Ci si ferma, si approfondisce un tema inerente a buone pratiche sulla strada e poi si riparte. Di volta in volta cambia la tematica, ma la modalità di svolgimento di Massa Ciclica è sempre la medesima. Ormai è quasi ora di pranzo, una piccola pausa, poi si torna qui: qualcuno arriverà, chiederà un parere, si fiderà, partirà per un viaggio lontano, in Patagonia, magari, come un ragazzo qualche giorno fa, oppure semplicemente si recherà al lavoro o a scuola. In ogni caso, le indicazioni di Amerigo, Francesco e Giulio saranno servite per approntare quel mezzo che realizza idee e progetti. Una bella soddisfazione, non c'è che dire.


Sartoria Ciclistica, Como

Fra le mura di Sartoria Ciclistica, in via Borgo Vico 54, a Como, l'attimo migliore, il più romantico, è al mattino presto, quando le acque del lago sono placide ed il sole, facendo capolino tra i monti, sparge i primi raggi fra le vie della città. Quella manciata di luce dorata arriva fino qui, si infrange sui vetri del locale, mentre la vetrofania si riflette all'interno, poco più sotto, la foto di un panorama polveroso delle strade bianche: là fuori, a quell'ora, ogni tanto, passa la "sciura Maria" che, con la sua "olandesina", sta andando in posta a ritirare la pensione o, magari, una raccomandata. Alessandro Tino osserva le sue pedalate, riflette, abbassa il volume della musica, e sottolinea: «È una ciclista, punto e basta. Siamo tutti ciclisti nel momento in cui pedaliamo, qualunque sia il motivo, qualunque sia il sogno. Ciclista è chi porta la propria Brompton sul treno, all'alba, per andare al lavoro, piuttosto che chi progetta un viaggio in Patagonia. Sono certamente ciclisti i professionisti del Giro d'Italia e del Tour de France, ma non solo loro.

Poi c'è il ciclista inteso in senso etico e, in questo senso, ciclisti dovremmo essere tutti, anche chi non pedala: perché un ciclista è una persona che porta con orgoglio la bandiera dell'ecologia, farebbe bene al nostro pianeta, che dovremmo salvaguardare, invece maltrattiamo sempre più. Chissà, forse tra una decina di anni, qualcosa cambierà». In realtà, la "sciura Maria", solo qualche anno fa, nel 2017, quando Sartoria Ciclistica era da un'altra parte della città, si limitava a guardare da fuori, con pudore, quasi con timidezza, magari rivolgendosi a qualche amica, proprio mentre era sul punto di varcare la soglia: «Ah no, questo è il bar dei ciclisti». Allora tornava sui propri passi e quel caffè lo andava a bere da un'altra parte, rinunciando a quella iniziale tentazione. La causa era una sorta di blocco mentale, quel timore dell'esclusione che abbiamo tutti quando ci rechiamo in un luogo in cui, magari, tutti condividono una passione o un interesse tranne noi. La paura di restare soli, forse di non essere all'altezza, perché diversi.

In realtà, la Sartoria Ciclistica di quei giorni era differente. Innanzitutto si trovava in un'altra parte della città, ma soprattutto era declinata in un format differente: si trattava di un bar caffetteria con un angolo dedicato a souvenirs da ciclismo. Nel periodo della pandemia, avviene un ripensamento, l'idea si evolve e si modifica: «Volevamo ricreare un ambiente il più possibile somigliante a quello di una casa ed a casa nessuno si pone problemi di sorta, anzi si sente tranquillo, sicuro, a proprio agio. Allora abbiamo pensato di mettere molti divani e divanetti, invece di tavoli in stile ristorante, nessuna tovaglia, una rete wi-fi veloce e la possibilità di prendersi tutto il tempo che si desidera, senza fretta. Apriamo al mattino alle otto e mezza e chiudiamo al pomeriggio alle quindici. La sera siamo tendenzialmente chiusi, tranne in casi di eventi o incontri particolari. È il nostro modo di vivere il primo cycling cafè in Italia». Lo dice con soddisfazione Alessandro: si sente dal tono di voce, si avverte dal linguaggio non verbale. Alessandro Tino, per i più, e anche per noi, mentre dialoghiamo, è semplicemente Alex Mitchumm: un soprannome che riporta all'albero genealogico, alle origini, a suo padre Daniele e, prima ancora, a suo nonno che si sono sempre occupati di abiti e di sartoria, in una zona come quella del lago di Como, conosciuta in tutto il mondo per il valore delle stoffe e dei tessuti prodotti: parliamo, in questo caso, di Mitchumm Industries. «Quando ho dovuto scegliere il nome da dare alla nostra creatura, ho pensato che la parola "sartoria" dovesse esserci. Non solo perché ha a che fare con la mia storia personale, soprattutto perché qui si sperimenta una vera e propria "esperienza sartoriale". Mi spiego meglio: cosa accade in una sartoria? Si cerca la miglior combinazione possibile al fine di trovare ciò che meglio si adatta alla tua pelle, quel che tu vorresti sentirti addosso.

Vero, noi ci occupiamo anche di collezioni, ma, anche a prescindere da questo aspetto, quella perfetta corrispondenza tra abito e persona è una metafora, un fil rouge, che può essere trasposto anche alla nostra idea di rapporti con le persone che vengono a trovarci». Le collezioni firmate Sartoria Ciclistica sono pensate da Alex e Annalise «come se fossero abiti nostri, attraverso ciò che piace a noi, l'unica possibilità per ideare qualcosa che interessi. Si tratta di un processo che porta anche ansia e tensione, ma quando gli scaffali si riempiono di ciò che hai progettato tu e vedi lo sguardo delle persone prima di acquistarli e la soddisfazione dopo l'acquisto passa tutto. Capisci che ne è valsa la pena».

All'esterno del locale, in effetti, notiamo uno zerbino con una scritta che riassume perfettamente la spiegazione che Mitchumm ci ha appena fatto, la filosofia alla base di Sartoria Ciclistica: "Welcome home cyclists". Fino ad ora avevamo parlato di chi, non essendo pedalatore, avesse ritrosia nel fermarsi lì, ora affrontiamo l'altro versante della questione, ci dedichiamo, per l'appunto, ai ciclisti, di qualunque tipologia. Tino pensa ad un alveare, alla casa delle api, e a tutte le api che vi entrano e vi escono, talvolta si allontanano, talvolta vi fanno ritorno: in fondo, il gruppo, il gruppetto, dei ciclisti non è molto diverso: «L'ape che torna nell'alveare sa di essere fra altre api, c'è un linguaggio comune e quindi una comprensione istantanea. Chi calpesta quello zerbino, chi legge quella frase, può finalmente abbandonare ogni maschera, ogni sovrastruttura, può dirsi: "Sono fra persone che mi assomigliano, mi capiranno, non mi giudicheranno". Fa la differenza». Come sempre, l'importante sono i dettagli ed in questo caso i dettagli prendono, ad esempio, la forma del sudore di chiunque, sceso di sella: spiega Tino che, talvolta, un ciclista ha remore nell'entrare in un locale perché sudato, sporco. C'è un'apparenza che incute pressione: la paura che tutti si voltino a guardarti per come sei vestito, per come sei messo. Sono gli stessi dubbi di chi non pedala, semplicemente al contrario: «Il mio sudore è uguale al tuo, uguale a quello di chiunque altro, per questo, se dovessi descrivere Sartoria Ciclistica, metterei un'alfa privativa davanti a qualsiasi caratteristica diversa dal desiderio di stare insieme e dall'interesse per la bicicletta: siamo a-politici, a-religiosi e così via».

In Sartoria Ciclistica, si abbinano egregiamente due termini, due usanze, due abitudini che fanno costume e tempo libero: bicicletta e caffè. Non a caso l'invito di Mitchumm è sempre stato: «Vieni a trovarmi per un caffè e un poco di sano e romantico ciclismo italiano». Il caffè, ci spiegano, è molto simile alla bicicletta e come il tè, altra bevanda che tutti conosciamo e consumiamo, fa salotto, fa familiarità. In Inghilterra c'è il tè delle cinque, in Italia si usa consumare uno o più caffè al giorno, dopo la pandemia, tra l'altro, è aumentato, nelle famiglie, il desiderio di avere una macchinetta del caffè a casa, di sedersi lì vicino, con una tazzina in mano, a chiacchierare, a raccontarsi la giornata. Il caffè di Sartoria Ciclistica è un rito che si ripete ogni volta e, soprattutto, prima dei giri in bici tutti insieme: «All'inizio della conoscenza, si sperimenta sempre una parziale diffidenza, è normale. Quella tazzina è un antipasto di confidenza: le prime domande, le prime parole. Poi si sale in sella e quel processo continua». Qui emerge chiaramente l'essenza di Sartoria Ciclistica: non un negozio di biciclette, nemmeno un normale bar. Piuttosto un concept store. Le magliette dei ciclisti, all'interno, sono appese vicino alla macchinette del caffè, notiamo quella di Tadej Pogačar al Tour de France e quella di Chris Froome, quasi una cornice di tutto ciò che accade in quei locali. «Racconto spesso che la parte più bella del mio lavoro consiste nelle ride della domenica mattina. Fa strano parlare di lavoro per un giro in bicicletta, me ne rendo conto, infatti mi sento fortunato perché quel vento in faccia fa parte del mio lavoro. Assieme alla meraviglia che sperimento ogni volta in cui mi accorgo che, pedalando, diventiamo tutti libri aperti, ci mettiamo a nudo. Quello "spogliarsi" permette la nascita di alcune amicizie: a me è successo. Allora il giro in bici lo organizzi anche dopo il lavoro, perché ti piace troppo, ti fa stare meglio, ti libera. Poi vai a mangiare un hamburger e a bere una birra». Il tutto con un occhio attento alla cultura ed alla sensibilizzazione perché, altrimenti, come sottolinea, tutto perderebbe molto di senso: «In quelle "Sunday ride" ho la responsabilità delle persone che accompagno. Spiego loro come si sta in gruppo e come si sta in strada. Che la strada è di tutti, ma, affinchè sia davvero così, serve un reciproco rispetto che è essenziale. Per questo mi arrabbio con chiunque non rispetti le regole, ancor di più se sono ciclisti, perché è il primo passo per ottenere rispetto».

Questo insieme di rapporti ed interazioni ha a che vedere con il romanticismo a cui Alex Mitchumm crede molto «a costo di sembrare fuori dal tempo, di passare per ingenuo, ma penso ancora che siano sempre le persone a fare la differenza, anche nella scelta dei fornitori applico questo criterio. Guardo sia il marchio che la persona che lo rappresenta». Insomma, Alex Mitchumm è un laghèe romantico. Quando gli chiediamo un luogo ideale, il più bello, in cui andare in bicicletta, nei dintorni di Como, mette da parte i posti de "Il Lombardia", pur famosissimi, e ci parla del Rifugio Venini, sul monte Galbiga, dove, tre anni fa, ha chiesto a sua moglie Annalise di sposarlo: da Como ci si dirige verso Argegno, San Fedele, fino a Pigra, proseguendo su una strada a mezz'asta che costeggia la montagna e arrivando a 1573 metri. Gli ultimi metri si percorrono anche in bicicletta da gravel, i panorami sono mozzafiato su Svizzera ed Italia. Sì, un laghèe romantico che saluta tutti con un "ciao", al loro arrivo in Sartoria, ma pur sempre un laghèe, ovvero un abitante delle zone del lago. «Sappiamo essere gioviali, anche caciaroni, talvolta soggetti da osteria, ma in noi resta un indole da vecchi toscanacci, quindi da testardi. Più ci dicono che qualcosa non si può fare, più proviamo a farla, anzi, vogliamo farla e, spesso, ci riusciamo anche. In fondo, i ciclisti sono così, devono essere così». Di fatto, Sartoria Ciclistica è soprattutto un punto di incontro internazionale per ciclisti e cicliste che, in inglese, si scambiano pareri ed informazioni, però, Alex Mitchumm non si ferma qui. Nel cassetto è rimasto un sogno: replicare Sartoria in altre nazioni, in altri paesi. Il luogo predestinato potrebbe essere Girona, in Spagna, forse Parigi, in Francia, ma, se proprio deve sognare, Mitchumm pensa all'America. Il sogno è nel cassetto, ma il cassetto è aperto, chissà che presto non si realizzi.


Cicli Drigani, Borgaro Torinese

Negli anni novanta, la bottega di nonno Valerio era il rifugio perfetto per le mattinate a casa da scuola e per i pomeriggi di gioco di Andrea. Quel garage sotto casa, nel tempo, era diventato un vero e proprio laboratorio artigianale, una sorta di precipitato di un'altra epoca, mentre un signore con le mani sporche di olio e una vecchia divisa con i segni dei lavori passati portava avanti il suo mestiere. Inizialmente sui tavoli di nonno non c'erano che tanti oggetti, di svariate misure e forme, di cui ancora non immaginava l'uso, ma, ad ogni ritorno, la situazione cambiava e da quei "pezzi" prendeva vita uno strumento nuovo. Prima solo accennato, poi sempre più definito e uguale, in tutto e per tutto, a quelle biciclette che vedeva per le strade, solo che queste erano plasmate dalle mani di nonno. A dire il vero, sebbene molto più grandi, erano anche simili alla sua, a cui aveva da poco tolto le rotelle. In un angolo del cortile aveva anche portato le coppe vinte da papà Livio, a cui era stata tolta la targa originale della gara di provenienza ed incollata una nuova etichetta su cui era scritto il nome della gara immaginaria che si sarebbe tenuta quel giorno. La lista di partenza prevedeva due corridori, Andrea ed il cugino, con tanto di gomitiere e ginocchiere. Sì, accessori costruiti in gomma piuma, dai rotolini degli imballaggi che arrivavano in bottega. Alla fine, un pennarello, la scritta Specialized ed il gioco era fatto. «La costruzione di una bicicletta è, di fatto, un gioco, che resta tale anche nell'età adulta. Potrei raccontare della spada di legno che mi costruì il mio nonno materno - spiega Andrea- che abitava sotto di noi e si occupava di "cose di legno", verniciava, smontava, rigenerava. Qualche volta, quell'impugnatura non mi piaceva più, allora, con la lima e la carta di vetro, la modificavamo e tornava perfetta. Insostituibile. I giochi sono così, li vogliamo a misura della nostra fantasia. Vale anche per la bicicletta. Un catalogo non può soddisfare queste esigenze. Allora c'è il nostro mestiere». In via Lanzo 207, a Borgaro Torinese, oggi c'è Cicli Drigani che, apparentemente, sembra un'altra storia rispetto a quella bottega artigianale, tuttavia ne è solo la prosecuzione: da una bottega artigianale, a un negozio sotto un portico, da due a sei vetrine, all'officina distaccata, fino alla sede odierna, nel 2019. Dall'osservare la collina di Torino per trovare ispirazione, al perdersi fra le colline delle valli di Lanzo per lasciare andare i pensieri. Perché Andrea è Andrea Drigani, figlio di Livio e nipote di Valerio.

Poco distante, al centro estivo, in quegli anni, il telefono squillava spesso. Era la signora Giuliana, madre di Andrea, che telefonava al parroco, Don Ester, per accordarsi sull'orario in cui andare a prendere il figlio. Al mattino, l'avvertiva sempre: «C'è la tappa, posso venire a casa a vederla?». Anche Don Ester era appassionato di ciclismo e biciclette e non si perdeva una corsa. Il 5 giugno del 1999, il telefono era suonato e la cornetta era stata afferrata dalle mani del sacerdote: «Non credo serva che venga a prendere Andrea. Marco Pantani non parte al Giro». Ed infatti quello fu l'unico giorno in cui Andrea non tornò a casa in orario e tutto sembrava più triste. In giorni così, anche oggi, Andrea va in officina, talvolta mette le mani su qualche bici, altre volte resta solo a guardare i meccanici lavorare. Si sente meglio, non ha nulla da chiedere: «Era il luogo in cui bazzicavo da ragazzino, all'età delle scuole medie, quello in cui ho iniziato a darmi da fare, nel mio primo giorno di lavoro, nel 2012, una mattinata di luglio, con una laurea fresca fresca. Forse è per questo, forse no, ma, ogni tanto, sento il bisogno di ritornarci. Poi, magari, prendo la bicicletta ed esco a pedalare. I dubbi cerco di togliermeli così».

Certo, anche l'officina è cambiata, nel tempo: ai tempi di nonno c'erano telai saldobrasati, ruote lenticolari, qualche brevetto, quel mozzo su cuscinetto, ad esempio, utilizzato poi da Miche, e tutto quel che si trova da un piccolo artigiano. Suo padre Livio, quando si licenziò dal suo precedente incarico in Michelin, arrivò lì con il baule della macchina pieno di componenti e pezzi di ricambio per le biciclette: spese così tutti i soldi della liquidazione. Ancora oggi, Livio è il primo ad arrivare al mattino e l'ultimo ad andare via la sera e, se un meccanico è malato, si precipita in una delle sue postazioni della nuova officina e ci pensa lui. All'officina si accede sia dall'interno che dall'esterno dei locali, nel negozio, però, una vetrata permette di vederne l'interno. L'altra possibilità per osservare il lavoro dei meccanici è una balaustra, sulla rampa che porta al piano di sotto: «Spesso sorprendo qualcuno intento ad osservare dai vetri. Dico di più: su quella balaustra si appoggiano in molti e restano a scrutare per minuti e minuti. A loro piace vedere il processo di riparazione di una bicicletta, a me piace guardarli, così immersi in quell'osservazione. Mi ricordano qualcosa del mio passato».

Il negozio si estende su circa 800 metri quadrati, l'ingresso avviene tramite una rampa interna, costeggiata da foto, da molte foto, delle persone che lavorano da Cicli Drigani: la zona espositiva comprende tre brand, Specialized, Bianchi e Pinarello, ma anche diversi capi di abbigliamento. Oltre a sei meccanici è presente un settimo tecnico che si occupa di tutti gli aspetti legati alle garanzie. Proseguendo troviamo una zona per il lavaggio biciclette, il magazzino, l'area dedicata all'usato e un parcheggio bici al coperto per chi porta la propria bici da sistemare. «Se tu mi chiedessi di scegliere tra un venditore molto esperto di tecniche di vendita, ma completamente digiuno dell'ambiente bicicletta, e un altro venditore che, magari, deve perfezionarsi nella vendita, ma è appassionato, pedala, viaggia ed ha esperienze da raccontare, sceglierei, senza dubbio, il secondo. Le foto all'ingresso hanno a che vedere con questo concetto. L'empatia è il primo passo in questo lavoro: nessun catalogo potrà mai informarti sulle sensazioni che si provano in sella, sulla fatica e la sofferenza, sul vento in faccia, come nessun manuale descriverà mai la soddisfazione che si prova quando ci si trova di fronte a qualcuno che comprende quel che provi e si mette nei tuoi panni». Anche per questo motivo, Andrea ha voluto quella maxi parete che si trova all'ingresso. Una sorta di retro podio, con la scritta Cicli Drigani ripetuta in diversi colori, ma soprattutto, nella banda centrale, il motto del locale: "Immagina, costruisci, pedala". «Alla fine, questi tre predicati riassumono quel che accade qui dentro, ma, ben prima, identificano quel che ho fatto sin da bambino e che facciamo tutti. Pensiamo a una bicicletta, a quella dei sogni, la costruiamo, se è il nostro lavoro, altrimenti, più spesso, chiediamo a qualcuno di costruirla come vorremmo, poi andiamo a ritirarla e facciamo subito il primo giro. Non stiamo nella pelle». Pedalare resta un bisogno essenziale: Andrea racconta che, nel periodo della pandemia, quando si vendevano molte bici e tutti erano soddisfatti, lui, ogni tanto, si sorprendeva giù di morale, pensieroso, apatico. Sì, tutto quel lavoro, comunque importante, toglieva ogni spazio per sfogarsi in sella e lui lo pativa.

Non molti anni fa, da Harrods, a Londra, è rimasto colpito da quella scritta: "Dallo spillo all'elefante". Una sorta di manifesto: «Significa che puoi trovare tutto quello che cerchi. Come fosse un piccolo mondo, un universo in cui sai che, se quello di cui hai bisogno ha a che fare con la bicicletta, da qualche parte, sopra o sotto, a destra o a sinistra, dentro o fuori, ci sarà. Può essere una bicicletta, una riparazione, un capo di abbigliamento, un massaggio, la messa in sella, un trattamento di chinesiologia, persino un caffè, in una sala relax, sfogliando una rivista, osservando delle fotografie». Dal 2012, in dodici anni, è certamente cambiato il modo di porsi dei clienti che si rivolgono a Cicli Drigani, ma anche quello di Andrea. In primis per il passaggio del tempo e l'acquisizione di esperienza, anche, però, per i vari cambiamenti che sono avvenuti nella società in questo periodo: «Ero molto giovane e, quando si è giovani, c'è sempre un poco quel retropensiero che fa si che si venga trattati con sufficienza, "perché tanto cosa vuoi saperne, sei un ragazzino". La credibilità, oltre che dal cognome che porto, viene anche dai molti giorni qui, dalle tante volte che mi hanno visto e da tutte le cose che mi hanno visto fare. Tuttavia i clienti si pongono in maniera differente anche perché la consultabilità dei dati tecnici è aumentata: conoscono di più e vogliono confrontarsi, chiedere, sapere».

Drigani riflette e afferma che questa maggiore conoscenza, a suo parere, è positiva: «Certo che capita chi vuol far vedere di saperne di più solo per il gusto di mettersi in mostra, lo sappiamo, lo accettiamo. Ma non tutti fanno così. Alcuni sfruttano le competenze acquisite per confrontarsi, anche fra loro, per consigliarsi prima dell'acquisto. Mi piace ascoltare i loro scambi, come mi piace confrontarmi a mia volta». Questa conoscenza, aggiunge Andrea, permette di eliminare quell'atteggiamento di fiducia esclusiva, senza dubbi, riposta nel venditore ed è un bene perché, quando c'è solo fiducia, obbligata dal fatto di non sapere, i timori si manifestano alla lunga. Allora si inizia a pensare che il commerciante abbia consigliato per interesse personale, per proprio
vantaggio, e questo non va bene, anche se, apparentemente, è più comodo.

Livio e Andrea qualche sera si ritrovano a pensare a Valerio che è mancato prima che Cicli Drigani diventasse quel che è oggi. Ognuno porta la propria considerazione, si dicono che sia stato proprio un peccato che non possa vedere come si è ingrandita quella bottega, «non ci sono più le biciclette Drigani, ma c'è tanto altro. Sì, nonno sarebbe stato orgoglioso». Se, dopo troppi chilometri in sella, i muscoli fanno male, Andrea torna in officina, guarda e pensa. Ricorda delle volte in cui qualcuno, sentendo quel cognome, gli ha chiesto: «ma tu sei quel Drigani?» ed ha iniziato a raccontare di un parente od un amico che era stato in negozio. Sta in silenzio. La responsabilità di «portare quella maglia» è grossa, ma lui ne è fiero. Sempre più fiero.


Bensone design shop and coffee corner, Modena

Modena è già avvolta nel primo buio, è fine dicembre, contiamo i pochi minuti che si iniziano ad aggiungere alle giornate. Stiamo pensando a una canzone, "Luci a San Siro" di Roberto Vecchioni: la musica parte, noi ascoltiamo tutto, ma cerchiamo quella frase che, poco prima, all'interno dei locali di Bensone, ci ha detto Ennio Sitta, proprietario di questo design shop, in via Levizzani 9. Sembra una poesia, sul finire della quarta strofa, eccola: «E se hai le mani sporche che importa, tienile chiuse e nessuno lo saprà». Era il primo pomeriggio e tutto era iniziato come sempre, in questo viaggio di strade, porte che si aprono, telefoni che squillano e parole: «Potrei dirti che la cosa che mi piace di più, quando sono qui, è disegnare, ma cosa sia un design shop non lo spiegherei nemmeno così. Però, certamente, la componente dell'arte in quello che facciamo è predominante ed io disegno da quando avevo circa tre anni e mezzo. Ai miei genitori avevo chiesto di iscrivermi all'Accademia di Belle Arti, solo una frase, lapidaria, in risposta: "No, non se ne parla nemmeno. Di arte non si vive, lo capirai presto". La mia rivincita verso il mondo è iniziata quel giorno, perché volevo davvero fare l'Accademia». Il papà di Ennio è architetto e pittore: «Iscriviti all'Istituto per geometri, impara e, poi, vieni in studio da me. Ti prometto che avrai lo spazio per realizzare il tuo spirito». No, Ennio non è mai andato in quello studio, papà ci è rimasto male, lo sa, ma lui non poteva, aveva altro in mente, qualcosa di più simile all'arte, pura, intatta. Il signor Sitta, ora, ha novantasei anni, ma, nei pomeriggi che passa con il figlio, discute ancora di cosa sia l'arte e, tutt'oggi, non la pensano quasi mai allo stesso modo.

All'Accademia di Belle Arti, Ennio ha, in realtà, studiato, attraverso alcune borse di studio, mentre lavorava: «Ho cinquantanove anni, quando ero giovane c'era meno democrazia nelle famiglie. Alla fine, hanno accettato che quello fosse il mio destino, è come se mi avessero chiesto di dimostrare quanto ci tenevo ed io l'ho dimostrato. Li ringrazio». Non molto tempo fa, proprio il figlio di Sitta, diciannove anni, ha voluto iscriversi ad un corso biennale di fotografia: «Sarà il suo lavoro? Chissà, ma mi sono rivisto ragazzo ed ho sentito il dovere di agevolare il suo percorso. I miei genitori, all'epoca, non lo fecero, ma erano altri tempi». Già, ma, tornando indietro negli anni, dopo il ricordo di quella rivincita, c'è il ricordo del lavoro alla libreria d'arte Panini, dove la carriera artistica si trasformò in una carriera in negozio. L'eco di Vecchioni risuona qui. «Ora lo sporco non è più solo nelle mani, che potevo nascondere, ma su tutto il corpo: uno sporco che mi piace, di pittura, di disegni. In Bensone, resto in braghette corte a dipingere e non so da quanto tempo non compro un vestito nuovo, perché non mi serve. Quando Nicolas Sarkozy e Angela Merkel arrivarono a Modena, Massimo Bottura, dell'osteria della Francescana, mi chiamò per scrivere i nomi dei segnaposti, come sapevo fare. Mi presentai con questo sporco addosso e senza documenti. Scrissi così quei nomi, mentre gli addetti della segreteria mi passavano i cartoncini. All'inizio, però, quel cambiamento ne implicò molti altri». L'arte, continua Sitta, si mantiene nel tempo perché racchiude un messaggio di verità, anche intima, non per forza pubblica, ma pur sempre verità. L'arte non paga il compromesso al gallerista, al pubblico che vuole quella determinata cosa: qui c'è l'imperfezione nell'applicazione che ne fa Ennio: «Noi facciamo anche questo, la mia arte ha tolto tanta parte del dedicato a me, per diventare punto di ascolto, di conoscenze, qualcosa di diverso rispetto a ciò che si vede in giro». La storia parte da quella libreria d'arte Panini che presto aprì una cartoleria a Modena e acquistò un'azienda storica di produzione di biglietti da visita e carta intestata, di Firenze: Sitta venne trasferito nella cartoleria di Modena, non senza dubbi e perplessità, in un vero e proprio terremoto emotivo, perché avrebbe voluto restare in libreria. Mesi dopo, girava per la città con una macchina fotografica e fotografava spesso il Duomo.

L'idea di dedicare una penna al Duomo arriva proprio così, nel momento delle penne numerate, delle Montblanc: ne venderà novecento, spesso a personalità importanti, in giacca e cravatta, e tutto cambierà un'altra volta. Nel 2007 venderà quel negozio e nascerà Bensone, in una zona non centralissima della città: «Un luogo che coniuga la tradizione con quel che ci piace fare. Un luogo dove i clienti sono spesso persone a cui, al mattino presto, vado a comprare le arance ed il prosciutto al mercato. Qualche volta li tratto anche male, scherzando, ma sanno come sono fatto, il rispetto profondo che ho per chiunque arrivi qui: mi hanno sempre perdonato tante volte. La mia serietà deriva dalla leggerezza con cui prendo le cose del mondo». Nel 2018 Bensone fa casa dov'è tutt'oggi: si amplia, si aggiunge la caffetteria «che tanto voleva la Veronica», la moglie di Ennio e, poco tempo dopo, anche le biciclette. Come in un flashback, Ennio Sitta torna ragazzino, quattordicenne, in Liguria, in una casa delle vacanze, sul mare, con una finestra affacciata su una curva: stava lì ad ascoltare il rumore, il suono, delle bici da corsa quando giravano quella svolta. Il padre gli comprerà una bici da corsa al suo ritorno a casa: lui, intanto, continuava a giocare a pallone e quando usciva in bicicletta aveva una canottiera con scritto, in inglese, Top One: «Non sapevo l'inglese, così leggevo “topone” e mi chiedevo come mai quel nome per me, che non ero alto o grosso». Una risata convinta e il racconto torna a fluire: «Ho sempre trovato grande affinità con quello che rappresenta la bici: a mio avviso equivale alle ali della libertà. Parlo di un mezzo ideale per godere di quello che ci circonda, per sentirsi liberi di esprimersi». Ennio Sitta preferisce la salita alla discesa, ama stare da solo, il gravel e la dimensione del viaggio, in cui confluiscono tutti i suoi allenamenti: Veronica
ha una bicicletta a pedalata assistita con cui l'anno scorso ha fatto il primo viaggio, assieme a lui, quest'anno il progetto è una pedalata da Dobbiaco fino in Slovenia.

All'interno di Bensone, oltre alle biciclette, tre brand, e alla caffetteria, oggettistica varia, «prodotti che troviamo o che ci trovano, in un modo o nell'altro. Nel nostro caso non è l'impronta commerciale a farceli scegliere, ma la bellezza della cosa, la qualità o l'idea che si annida dietro al prodotto. Per esempio, guarda quel gin fatto con il fieno della Val Casias. Sono chicche di eccellenza che, spesso, non sono ospitate nei negozi specializzati». La bicicletta resta uno degli strumenti più amati da Sitta: anche i suoi artisti preferiti pedalavano o, comunque, avevano un legame più o meno stretto con le due ruote. Della possibilità di un negozio simile, di un design shop, per l'appunto, ha saputo grazie a una pagina instagram, dedicata ad un locale di Parigi che ha avuto l'occasione di visitare, trovandosi in Francia per una fiera, ed inizialmente la bici era stata ideata con la formula del rent a bike dal centro storico, durante il periodo del Covid: «Non sapevo proprio nulla di questo mondo. Di tutti i piccoli riti dei ciclisti, di quanto la bici assuma una sorta di sacralità per gli appassionati, dei loro giri e della voglia di raccontare. Qualcuno arriva qui apposta per quello, per narrare un suo viaggio agli amici ed io, ultimamente, ho solo amici ciclisti. In questo modo ho imparato qualcosa in più della bicicletta, della sua capacità di restituire quello che si è disposti a darle». Come spiega Sitta, è difficile conoscere Bensone solo attraverso il racconto, bisogna viverlo per sperimentare l'andare e venire, i caffè, gli incontri, i dipinti, le riviste, le pedalate. Allo stesso modo, è possibile comprendere la responsabilità ed il coraggio di cui Ennio parla: due sentimenti vissuti quotidianamente, ma resi normali, d'abitudine, cosicchè se gli si chiede di individuare un momento di particolare coraggio negli ultimi anni, fatica ad individuarlo: «Forse il più importante è stato il momento in cui ho deciso di fare anche magliette speciali, dedicate a qualcuno o qualcosa. Ricordo che, la prima volta, ne acquistai diecimila, a prezzi esorbitanti. Beh, per diversi giorni mi sono chiesto se sarei, poi, riuscito a venderle, ma sono eventi particolari, per il resto un'attività del genere comporta un coraggio e una responsabilità giornalieri». Non tutti lo chiamano Ennio Sitta, qualcuno lo soprannomina Dottor Stamp, sarà per i dodicimila timbri, utilizzabili su qualsiasi struttura, che Sitta ha ideato e progettato, quando ancora l'uso del timbro non era così diffuso.

In serigrafia c'è un detto: «Chi si ribella si autoproduce». Sitta ha fatto così, con un pezzo di gomma e un tampone: «Di fatto, ho industrializzato un'idea. Resterà anche dopo di me, per i miei collaboratori e per chiunque vorrà utilizzarla». Attraverso quell'idea sono nate magliette che hanno catturato l'attenzione di tutti: su tutte quella dedicata alla collina di Puianello, vicino a Modena, particolarmente amata dai ciclisti, con la scritta "Puianello state of bikes". Ma l'arte di Ennio Sitta è multiforme: recentemente ha dipinto, insieme alla moglie, il garage di Michil Costa, a Corvara, con pennarelli e pennelli. I percorsi in bici da queste parti, però, sono molti, con un occhio particolare al gravel, per la presenza degli argini dei fiumi Secchia, Panaro e Tiepido, verso Vignola, la terra delle ciliegie, verso Peschiera o verso i boschi. In città, invece, c'è ancora molto da lavorare per consegnare alle nuove generazioni una realtà davvero a misura di bicicletta, nonostante a Modena quasi tutti si spostino in sella: «In un mondo in cui si rincorre la velocità, gli automobilisti dovrebbero capire che più ciclisti ci sono, più veloci sono gli spostamenti. I ciclisti non fanno del bene solo alla propria persona, questo è un tema. Altro tema è la città del futuro, ci penso spesso: ognuno può influire sulla città che viviamo attraverso scelte, relazioni, decisioni, non è un fatto da poco. Forse si potrebbero stendere delle linee guida del cambiamento, con le idee di ciascuno, in modo da partecipare in maniera attiva al cambiamento». Dal 2024, Bensone, probabilmente, terrà meno prodotti, meno oggetti, ma vi dedicherà ancora più cura, più attenzione, più precisione, cercando di crescere, come fanno le persone, di anno in anno: «Penso che il negozio sia un bel negozio, ma sia rimasto ancora adolescente. L'adolescenza è una bellissima età, pur con tutte le sue difficoltà, ma resta un passaggio e diventare grandi è necessario. Essere adulti significa, anzitutto, acquisire consapevolezza e Bensone dovrà capire quel che ha fatto e quello che potrà ancora fare. Solo così riuscirà veramente a realizzarsi».
A Modena è ormai sera, "Luci a San Siro" è alle ultime note, ancora qualche istante ed inizieremo a scrivere tutto quello che abbiamo ascoltato.


Ciclostazione, Atripalda

Avellino era lontana da tanti, troppi, anni. Marco Argentino se ne era andato da giovane: era partito per Bologna per il servizio militare, senza pensare che, poi, il caso, la storia, il destino, la volontà gli avrebbero fatto trovare casa, lavoro e famiglia a circa settecento chilometri dal paese in cui era nato. Se ne era andato verso Bologna e si era trovato a vivere e lavorare poco più in là, tra Parma e Mantova, per ben undici anni. Marco era dipendente, con la qualifica di perito elettrotecnico, in un’azienda: a tratti il suo mestiere lo soddisfava, a tratti meno, ma restava una certezza, un punto fermo fra molte variabili.

A sera, a fine turno, passava nell’ufficio del suo direttore, prendeva una sedia e si sedeva accanto alla scrivania, stava a guardare, ad ascoltare: dopo una giornata densa di impegni, di appuntamenti e di decisioni da prendere, quello era il momento in cui il dirigente dell’azienda, al telefono, sbrogliava le matasse più complicate, trovava accordi, pianificava. Argentino racconta che quelle telefonate le ricorda ancora oggi, perché da quelle telefonate imparava sempre qualcosa che, attraverso la vita di fabbrica, non aveva modo di apprendere. Non erano tanto i concetti a colpirlo, ma il modo con cui si potevano cercare soluzioni a grossi problemi, anche dopo la stanchezza di una giornata di lavoro. Il suo responsabile era calmo, riflessivo, pensava, proponeva, appuntava e trovava la quadra, davanti ad un bicchiere di vino. A quegli incontri, Marco pensava spesso, soprattutto durante i suoi giri in bicicletta, quelli delle pause e del tempo libero. Non si sa come le idee fluiscano nella mente, se il loro scorrere sia casuale o tenuto sempre stretto da un preciso filo conduttore, sta di fatto che, all’improvviso, in una pedalata, poco più di tredici anni fa, un pensiero prese forza e, piano piano, spazzò via tutto quello che, fino a quel giorno, l’aveva tenuto aggrappato a quella certezza, il lavoro sicuro: «Mi capitò di riflettere su come sarebbero state le mie giornate da lì a dieci anni e la prospettiva mi terrorizzò. Ero esattamente in grado di prevedere ogni istante. Capisci? Non ci poteva essere alcuna sorpresa, alcun cambiamento. Sapevo tutto e tutto era prevedibile, deciso fissato. Il mio lavoro era parte di questa prevedibilità asfissiante».

Qualche indizio, forse qualche ricordo, di come si poteva andare via da quel percorso segnato, tracciato, a dire il vero, c’era già nella sua gioventù. C’era papà Achille che non era un gran pedalatore, anzi, non era affatto un pedalatore, ma, se si trattava di meccanica, aveva un guizzo acuto: «Le nostre erano delle gare: ci davamo un tempo e un problema da risolvere e, alla fine, vinceva chi aveva risolto la problematica meglio e più velocemente. All’inizio era sempre lui a spuntarla, ultimamente, invece, qualche volta lo battevo. Penso ai suoi occhi: si vedeva che era infastidito dal fatto di non essere più il vincitore, ma allo stesso tempo in quelle pupille ruggiva un antico orgoglio. Era come se dicesse: “In fondo, ti ho insegnato bene”. Se proprio qualcuno doveva superarlo, era felice che fossi io».

Anche il nonno di Marco, aveva un talento particolare parlando di meccanica. Marco Argentino guarda quella scintilla del passato e le lascia spazio e tempo, la trasforma in un fuoco: frequenta corsi di meccanica a Milano, Torino, Bologna, alla Fiera di Verona, studia e scopre che ad Avellino, quella città lontana da molti anni, in cui era nato e cresciuto, non c’era un negozio di biciclette come quello che aveva in mente, quello di cui si era trovato a parlare con Stefania, sua moglie, originaria del Friuli Venezia Giulia. Qualche tempo dopo, tra il 2010 e il 2011, Marco e Stefania venderanno la casa al nord, torneranno ad Avellino e con quei soldi compreranno un locale e molte biciclette: la Ciclostazione, agli inizi, è questa. «Ci hanno preso per dei folli e posso anche capirli, almeno in parte. I cambi di vita improvvisi non sono quasi mai compresi. Ho ben in mente il primo giorno di apertura: cercavo parole di comprensione, di coraggio, cercavo carezze, in realtà, trovavo schiaffi. Ognuno mi metteva davanti ad altri dubbi, a nuove paure, accrescendo quelle già presenti in me. Era importante rendere esplicita la mia volontà, nonostante tutto e tutti, nel tempo ho imparato a farlo sempre più, così mi hanno capito».

Quel locale di 80 metri quadrati, diviene poi di 120, 180, fino ai 300 metri quadrati odierni, circondati da vetrate che lasciano filtrare tutta la luce possibile: «Si tratta di una reminiscenza di quando lavoravo in ditta. Se, quando mettevo il naso fuori a sera, col buio, qualcuno mi avesse chiesto che tempo aveva fatto quel giorno, non lo sapevo. Non sapevo se ci fosse stato il sole, nuvole grigie o pioggia: ho sempre desiderato che chi mettesse piede alla Ciclostazione potesse vedere il cielo fuori e non perdere contatto con il mondo esterno». All’ingresso, si nota subito un grande bancone, con l’officina a vista sulla destra, mentre, sulla sinistra, si scorge un’ampia gamma di biciclette, da corsa, gravel, a pedalata assistita. Alla Ciclostazione si effettuano visite biomeccaniche e si noleggiano biciclette per gite e viaggi.

«Il noleggio è, spesso, la chiave che avvia la passione. Un tentativo, un giro, e si torna in negozio a comprare la propria bicicletta, quella che si custodisce con cura in garage, pulendola con un panno dopo ogni uscita».

Fuori da quelle vetrate, a pochi chilometri di distanza si apre l’Irpinia verde, dove non servono ciclabili e le strade ed i paesi si svuotano, facendo spazio al viaggiatore. Si possono fare chilometri e dislivello: Marco propone, ad esempio, una visita all’Abbazia del Goleto, attraverso un sentiero stupendo, di cui lui stesso si innamorò. Si tratta delle terre di tre vini Docg e delle loro cantine, belle da visitare, in cui perdersi, dandosi la possibilità di scoprire terre che, probabilmente, si potrebbe pensare siano partite in ritardo nella riflessione sul tema ciclabilità, in realtà, sono partite nel momento in cui tutto era pronto perché questa operazione iniziasse.

Appena qualcuno arriva qui, Argentino lo accoglie con una domanda, apparentemente semplice, quanto complessa, scendendo in profondità: «Domani mattina, cosa vorresti fare con la bicicletta che acquisterai?».

A quel punto, si inizia a parlare , si crea empatia, rapporto umano: «In un mondo in cui sono sempre più importanti i contatti virtuali, tramite facebook o whatsapp o altri social, io resto un appassionato dei rapporti umani, del linguaggio del corpo, della calligrafia, della psicologia, dello stare in mezzo alla gente, con il piacere di guardarla negli occhi. Credo sia l’unica possibilità che abbiamo di crescere, di imparare, anche di correggere gli errori che inevitabilmente si fanno, soprattutto agli inizi. La tecnologia può aiutare, ma serve equilibrio. Le persone sono più importanti e devono restare il centro. Se non si perde il contatto con il lato umano, è possibile gestire ogni problema con maggiore serenità, evitando di non dormire la notte, come accadeva tempo fa. Resta un lavoro difficile, come può essere difficile lavorare in famiglia e condividere ogni cosa. Ma la difficoltà non toglie nulla alla bellezza, alla soddisfazione».

In questi anni di Ciclostazione, anche Marco e Stefania sono cresciuti e cambiati ed in un veloce replay mentale proprio Argentino rivive alcuni dei passaggi che più hanno avuto un impatto sul loro modo di vivere la professione: le prime volte che si vendeva una bicicletta e, magari, si sbagliava, le preoccupazioni economiche, soprattutto dell’avvio, quando ogni errore pesava di più, il nervosismo provato per qualche cliente particolarmente “saputello”, come lo definisce Marco, che non ne vuole sapere di ascoltare consigli o indicazioni, giornate intere perse dietro a nervosismi e qualche frustrazione, soprattutto le “tirate di giacca” di qualche amico o conoscente a cui non si sapeva come e cosa rispondere.

«Dopo i primi quattro, forse cinque anni di attività abbiamo attraversato un periodo complicato in cui rientravano tutte queste esperienze. Dieci giorni di chiusura sono, però, bastati per mettere un punto e ripartire: si trattava di fare uno step decisivo, passare dalla visione di un appassionato di ciclismo a quella di imprenditore, preservando la carica di passione, ma inquadrandola in maniera più ferrea all’interno di una logica lavorativa, mettendo da parte il lato istintivo e affettivo che portava agli errori».


In questo percorso, si rivelerà fondamentale un ragazzo, Giuseppe, che, all’apertura della Ciclostazione, aveva poco più di sedici anni, oggi ne ha ventotto ed è professore universitario in Germania. In quei giorni, Giuseppe era spesso in negozio, chiedeva informazioni, voleva conoscere, ma, allo stesso tempo, raccontava ciò che sapeva e delle biciclette conosceva davvero quasi tutto, a tal punto da creare imbarazzo in Marco: «Oggi posso dirlo. Mi è capitato di vederlo arrivare e di spiegare a Stefania o a qualche collaboratore di dire che non c’ero, che ero via per lavoro o per altri impegni. Non era una situazione nuova: all’inizio, molti clienti ne sanno più di te, devi accettarlo, ma lui ne sapeva davvero molto, non riuscivo a rispondere alle domande che mi faceva e ci restavo quasi male. A casa ripensavo spesso alle figure che, magari, avevo fatto, a cosa potesse pensare di me. Ho capito solo successivamente che Giuseppe, quel ragazzo così sveglio, così intelligente, fosse in realtà una risorsa per la Ciclostazione ed oggi è uno degli amici più cari che ho, quasi un figlio adottivo. Si può imparare anche dai clienti, bisogna avere l’umiltà di ascoltare e capire, senza presunzione o vanità. Senza fuggire».

Da un luogo che non vediamo, arriva un rumore forte, deciso, ci voltiamo verso Marco chiedendo cosa stia accadendo, lui sorride: «Si tratta del nostro reparto ortopedia. Sai, alcune volte è necessaria qualche manovra più decisa, una piccola martellata, magari, e tutti sappiamo come soffra un ciclista se vede che la propria bicicletta viene un filo maltrattata, anche se per sistemarla. Allora abbiamo pensato a questa terza sala, nascosta. Una sorta di protezione dell’appassionato, di cura».

Marco si guarda intorno, come chi cerca di ricordare un dettaglio, appena inizia a parlare abbiamo la certezza che la sua memoria è tornata a quelle sere con il suo ex direttore, in ufficio: «Quando sono andato via, mi ha preso da parte e mi ha detto: “Non preoccuparti, tu hai tanta voglia di fare e chi ha questo requisito può ripartire quando vuole, riuscirà in quel che cerca”. Sono legato a queste parole». C’è un filo di malinconia anche mentre ripensa ai momenti con papà Achille in Ciclostazione, ma anche il suo stesso orgoglio. Sì, perché la Ciclostazione che ad Avellino non c’era mai stata, ora c’è, in Contrada San Lorenzo, numero 18, ad Atripalda. E c’è grazie a Marco e Stefania.


Sportland Bike, Brescia

Alessandro Monti torna ad un ricordo estivo: sono passati solo pochi mesi, è vero, ma la sua descrizione cerca i dettagli dei momenti che racconta e, ripetendoli, torna a fissarli. In fondo, l’importanza di quel giorno si capisce da questo fatto, perché la mente umana tende a trattenere con maggiore intensità i particolari di ciò che ci interessa, oppure ci cattura, ci coinvolge, nel bene o nel male. Anche l’incipit è significativo: «Perdona la digressione, ma questa devo raccontartela». Il bisogno della narrazione, della condivisione, di un episodio che riemerge dalla memoria, durante una chiacchierata a tema bicicletta. La storia si svolge nei dintorni di Bormio, dove Alessandro sta pedalando con il progetto di percorrere un giro delle creste, attraverso l’Umbrail Pass, lo Stelvio, fino a Livigno.
Proprio quella mattina, già in sella, incontra un ragazzo e una ragazza, una giovane coppia che lo affianca, scambiano qualche parola e, poi, senza alcun accordo, naturalmente, pedalando, gli fanno compagnia per gran parte del tragitto, in quella gita d’estate. La strada sale, si arrampica fra i monti, sempre più in alto, dapprima larga, spaziosa, si restringe, fino a diventare una lingua di terra, un sentiero. Solo a quel punto, il ragazzo e la ragazza rallentano, si fermano, capiscono che Monti vuole proseguire e, non immaginando dove sia possibile arrivare, da lì, in bicicletta, gli pongono solo una domanda: «Buona prosecuzione, ma adesso dove lasci la bici?». In realtà, da quella traccia, Alessandro Monti ha ben in mente varie destinazioni e, cosa più importante, tutte percorribili in bicicletta. Quella domanda lo sorprende, così scende di sella e, cartine alla mano, illustra ai due giovani i percorsi possibili: «Mi ascoltavano sorpresi, guardavano con attenzione i tragitti che indicavo e già questo mi ha fatto piacere. La cosa più bella, però, è che, quando ho iniziato a scalare, ho visto che restavano a fissarmi, come si fa con un amico che parte per un viaggio. Non solo, da lassù ho controllato più volte e vedevo le loro sagome, ancora lì. Passavano minuti e loro non se ne andavano. Sono convinto che torneranno a Bormio, faranno la strada che abbiamo percorso e, giunti a quella strettoia, proseguiranno. Non so se sia merito mio, di quelle spiegazioni, ma mi piace pensare che, forse, ora i loro viaggi avranno un orizzonte più ampio. Mi pare bello sapere che una strada non finisca dove pensavamo finisse».

Dal ricordo si torna al qui ed ora ed il qui ed ora è a Brescia, da Sportland Bike, in via Agostino Chiappa 19. Si tratta di una realtà affermata, prevalentemente in Italia, da molti anni, circa una decina, con almeno venti punti vendita che spaziano dal running, all’outdoor, ai più diversi sport, fino al ciclismo, proprio qui, in questi locali. L’aria di bicicletta potrebbe arrivare direttamente da due pannelli, retroilluminati, che rapiscono lo sguardo, entrambi a tema montagne. Da una parte è raffigurato il versante altoatesino dello Stelvio, i suoi tornanti, nel verde, dall’altro, invece, il “Monte Calvo”, il Mont Ventoux, da Malaussene, la pietraia spazzata da un vento feroce, più simile alla luna che alla terra, con, in cima, quella sorta di missile bianco e rosso, diretto verso chissà quale universo. Qualche minuto di conversazione e capiamo subito che l’aneddoto che abbiamo appena ascoltato ha a che fare con la storia di Sportland più di quanto si possa pensare: «Il tempo che passa ha effetto su di noi e su tutto ciò che ci circonda, anche sulle nostre passioni, sai? Alla fine diventano un’abitudine, qualcosa che costringe, che non si apre verso altre opportunità ma si chiude. Ad un certo punto, è come se si formassero delle incrostazioni su quel che ci piace e tutto si ingessasse, si bloccasse. Vorrei che Sportland aiutasse a prevenire questo rischio, che ci salvasse da quel momento, rinfrescando le passioni. Aprendo altre strade, esattamente come si fa sulle creste». Quella di Sportland, insomma, è una sorta di missione e le missioni, si sa, hanno un poco a che vedere con le visioni, le grandi idee, gli auspici, che ognuno porta dentro: «La mia- prosegue Monti- è quella di un mondo in cui il garmin, sulla bici, non mostri i numeri che tanto si inseguono, quelli legati alla prestazione, ma solo la traccia da seguire per andare dove si vuole, per vivere l’avventura che si cerca». A chi arriva da Sportland, Monti prova a spiegarlo, spesso facendo riferimento alla propria esperienza personale, arricchita da elementi globali e locali, «perché è bene conoscere il mondo e poi la tua realtà, la tua città o il tuo paese».

Racconta, ad esempio, di tutte le vacanze estive che da sei, forse, sette anni, vive in camper, partendo con la moglie verso varie destinazioni che, giorno dopo giorno, percorrono pedalando ed esplorando i dintorni: sul Mont Ventoux è stato di persona proprio in una di quelle gite. All’inizio, la bicicletta era solo un modo per rimettersi da un intervento al crociato, un consiglio dei medici, poi è diventata il mezzo attraverso cui conoscere luoghi e persone, alla velocità perfetta per ricordarle: una boccata di ossigeno, una scoperta totale: «Intendo questo quando dico che l’avventura da scoprire in bicicletta non è solo quella dei paesi lontani, sconosciuti. Ben vengano questi viaggi a migliaia di chilometri di distanza, nel mondo, ma per vivere l’avventura basta andare dietro casa, cambiare strada, svoltare nel bosco, poche decine di chilometri, passare dal centro storico di Brescia, uscire, verso i vigneti, le stradelle che se ne vanno, si perdono via, ancora il lago d’Iseo, il lago di Garda, quelle salite dove non c’è più il traffico, ma abeti, pascoli, le montagne o ancora la Franciacorta. Tutti quegli spazi che non hanno nulla a che fare con l’essere atleti, ma con il prendersi il proprio tempo e gustarselo».

Sono queste le voci che si sentono se si resta un poco ad osservare la vita del negozio. Il primo impatto, però, deve soprattutto essere un piacere per la vista: bisogna che il visitatore scopra il piacere di guardare quel che ha attorno, attraverso una buona illuminazione e un modo di esporre tranquillo, pacato. Si ha la possibilità di fermarsi a vedere una tappa di una corsa a tappe oppure una classica, in un luogo accessibile a tutti, di incontro e conoscenza. «Abbiamo voluto, tuttavia, che l’officina Shimano, laggiù, in fondo, staccasse completamente dall’atmosfera del locale. L’ambiente è ordinato, asettico, anche la luce ed il colore sono diversi. Il tutto è a vista e si focalizza sulla grande attenzione per i dettagli, la precisione, e sulla cultura e passione della bicicletta». Qui, la considerazione di Monti è quasi linguistica: pone, infatti, una netta separazione tra la passione, di cui parla spesso e di cui ci ha raccontato, e la professionalità, altro elemento centrale per chi sceglie il suo lavoro.

«Ci tengo a precisarlo, perché non bisogna lasciare le cose a metà. Essere appassionati è bello ed è fondamentale, ma, quando ci si ritrova a svolgere un mestiere, la passione non può bastare. Serve lo studio, la competenza e la professionalità. L’esempio lo faccio su di me: se dovessi portare in negozio solo quel che mi appassiona, probabilmente stravolgerei molte cose, ma, se lo facessi, durerei anche poco. Sono convinto che chiuderemmo presto. Allora si media, si cerca il compromesso». Il che significa, ogni tanto, introdurre qualche novità, qualche chicca, qualcosa che coniuga perfettamente questi due termini chiave, assumersi anche qualche rischio, perché non sempre le novità vengono comprese dal pubblico, però bisogna tentare. «Mi sono affezionato molto all’idea di conoscere ed incontrare persone che parlano un linguaggio simile al mio e, quando accade, mi sembra sempre speciale. L’empatia è parte di questo lavoro e si sviluppa così, incontrandosi e facendo in modo che sia il lato umano quello che prevale. Certo è una visione differente da quella prevalentemente sviluppata in Italia, una cultura differente, se vogliamo. Per me, un punto vendita è un posto in cui qualcuno può guidarti ad esplorare, può farti vedere qualcosa che non avevi ancora visto o che non immaginavi neppure. Magari ti sprona a farlo». Non serve molto: talvolta è sufficiente mostrare un libro, una rivista, una foto o un racconto che dica cose che non ci si aspetta e insinui così la voglia di cercarle nel prossimo giro in bicicletta per, poi, confrontarsi con gli amici e riscoprire quella bicicletta che conosci da decenni. Per il resto, spiega Alessandro Monti, chiunque può avere le informazioni tecniche ed i dettagli specifici di un determinato mezzo, per cui, pur se importanti, non possono essere queste le cose primarie che ricerca chi si reca in un negozio: «Le leggono su internet, su un catalogo, possono saperne anche più di noi. Ma quelli sono numeri, noi siamo persone e le persone hanno molto altro da dare».

Le persone, ad esempio, si fanno domande, si pongono dubbi, hanno timori e preoccupazioni. Per Alessandro Monti un pensiero è particolarmente rilevante: i ragazzi che si allenano, tre o quattro ore al giorno sulle nostre strade, esposti ai rischi che, purtroppo, ben conosciamo. «Certo che ci penso, è inevitabile, perché nel lasso di tempo di un allenamento può succedere davvero di tutto. Occorre una svolta perché il futuro della bicicletta deve essere sempre più ampio, deve poter spaziare sempre più, in ogni ambito della quotidianità». Il giro in bicicletta, infatti, riassume un piccolo mondo: «Esci in bicicletta ed incontri gli amici, chiacchieri, racconti una storia, ti fermi al bar, bevi una birra, vai a fare la spesa. Ascolti, conosci, pensi e pianifichi, torni a casa con nuove idee, magari la risoluzione di un problema che ti assillava da tempo. Cos’hai fatto? Semplicemente un giro in bicicletta, con la sua fatica ed il suo piacere».

Questa è un’altra avventura, di quelle a portata di mano, che chiunque può vivere e, forse, dovrebbe vivere. Un’altra occhiata a quei pannelli con lo Stelvio ed il Ventoux, un ultimo pensiero a quei ragazzi di cui Monti ci ha parlato all’inizio, la quotidianità di Brescia torna ad accoglierci. Anche noi, a nostro modo, oggi, abbiamo esplorato e scoperto.


La stazione delle biciclette di Milano

Le mani di Piergiorgio Petruzzellis non stanno ferme un attimo, si muovono laboriosamente fra quegli otto tubi, uno sterzo e due ruote di una vecchia bicicletta che gli è stata portata giusto qualche giorno fa. Sì, otto tubi, uno sterzo e due ruote, ci spiega che sono questi gli elementi base per disegnare una bicicletta, che da qui non si scappa, ma, in realtà, non ci si può fermare lì. A lui succede tutte le volte in cui gli capita di vedere una bici, di toccarla, di sistemarla, oppure anche solo di pensarla, immaginarla, magari mentre è occupato a fare altro e quell'oggetto, il suo preferito, pare lontano.

«A volte mi sorprendo nel futuro e provo a visualizzare come saranno le biciclette del futuro. Negli anni sono cambiate tanto, eppure c'è ancora il passato ben saldo, quelle linee guida che servono per raffigurarle con carta e matita, ad esempio. Così sono certo che saranno tanto diverse da quelle di oggi, ma anche simili. Anche fra tanti anni si potranno osservare, modificare e personalizzare. In questo modo, la bicicletta può assomigliare a chi la guida e chi la guida può sentire di avere qualcosa in comune con il proprio mezzo. Avranno sempre addosso l'idea di libertà e anche di economicità, perché, alla fine, una bici si trova per tutti, proprio per tutti». Allora si vede chiaramente che Piergiorgio non riesce davvero ad accettare tutta la ruggine che ha fatto il nido fra quegli ingranaggi, perché, mentre ci parla, ogni tanto scuote la testa, quasi non potesse capire, non si rassegnasse al tempo trascorso e alla poca cura nei confronti di quella bici.

Siamo a Milano, a “La Stazione delle Biciclette”, in via Ettore Ponti 21, e, mentre i rumori in sottofondo sono quelli tipici del lavoro in un'officina, Piergiorgio Petruzzellis racconta le origini di questo luogo, nato, nel 2003, dall'idea di un bando di concorso per la gestione di una velostazione, qualcosa che in Italia non era ancora presente. L'area è quella della metropolitana, nel comune di San Donato: ogni giorno vi transitano persone di ogni genere, ma il piazzale è spoglio, nudo, quasi non fosse vissuto a pieno e vi albergasse una strana solitudine. Un parcheggio per le biciclette, coperto, accanto alla stazione, è l'ideale per farne un punto di ritrovo, qualcosa con un aspetto più familiare. Davide Maggi, che fa ancora oggi parte del gruppo di persone che gestisce e lavora a "La Stazione", avvia l'attività con questo progetto e piano piano i servizi offerti evolvono sempre: è il periodo in cui ferve il movimento delle scatto fisso, loro seguono gli eventi, spingono, promuovono, fino, col tempo, ad arrivare alle biciclette da corsa, alle cargo bike, ai viaggi, al ciclista urbano che vive la città. «Noi crediamo nel fatto- prosegue Piergiorgio, per tutti Pigi- che con una bicicletta si possa fare tutto: dal viaggio in terre lontane, a quello dal panettiere, sino al trasloco. Abbiamo sempre sognato una città a misura di bici e abbiamo capito che, perché accada, è sempre necessario partire dalle proprie azioni, dalla pianificazione dei nostri spostamenti di ogni giorno, dalla ricerca di un movimento libero, senza vincoli».

Agli inizi, Pigi fa un altro lavoro, è ingegnere ambientale, la sera stacca mezz'ora prima dall'ufficio e passa a "La Stazione", spesso solo per dare a Davide un poco di supporto, fosse anche solo morale, di incoraggiamento. Nel 2010 la scelta, il cambio di lavoro e la sua diventa un'attività a tempo pieno: «Nel mettere in bicicletta una persona ho sempre visto la possibilità di cambiare la città, forse anche questo mi ha dato il coraggio di compiere quel passo definitivo verso un nuovo mestiere. Si trattava di lasciare la busta paga fissa e imbarcarsi in un'avventura senza alcuna certezza: l'incoscienza, se dovessi descriverla oggi. Non c'erano dati sul fatturato, a livello storico non potevamo nemmeno immaginare cosa ci avrebbe aspettato. Eppure mi piaceva troppo pensare di dare un contributo reale alla mobilità della mia città e di farlo attraverso il mio oggetto preferito».

La Stazione delle Biciclette ha due negozi a Milano, in Corso Lodi e in Zona Barona e uno shop online. All'interno si trovano persone che fanno ancora i lavori di una volta, quelli che non fa più nessuno ma che tutti vorrebbero saper fare, che tutti ritengono utili. Petruzzellis ha cambiato più volte mansione da quando vi lavora, inizialmente dedicava mezza giornata alle riparazioni, ora non lo fa più, si occupa maggiormente di montaggi o cose particolari, segue la comunicazione, ammette che non è il suo campo e che per questo è più faticoso, soprattutto se si vuole agire in maniera professionale, senza contare la continua informatizzazione, che è inevitabile, ma resta comunque un fenomeno da gestire. Quella ruggine torna in risalto sul telaio, Pigi si ferma qualche istante: «Bisogna volere bene alle nostre bici, dedicare il tempo necessario perché siano funzionanti, a posto, anche belle da vedere. Io soffro quando qualche cliente mi dice: "Non stare a perderci troppo tempo, tanto è vecchia, fai solo in modo che sia utilizzabile per fare quel che devo fare". Penso sia sbagliato, non solo perché svilisce il nostro lavoro, il nostro impegno, ma proprio a livello concettuale. Sarebbe sbagliato nei confronti di qualunque oggetto». La bicicletta è lenta ed inesorabile, nella filosofia de "La Stazione" e uguali sono i cambiamenti che porta: talvolta impercettibili, però già solo le tante bici che si vedono in giro, magari pieghevoli, in metropolitana, sono un indizio, un segno delle cose che, passo passo, cambiano o provano a cambiare. Perché accada bisogna parlarne e parlare, confrontarsi, non è sempre facile.

«Quando dall'altra parte trovo una persona che ha in testa sogni, idee, fantasie, tutto si semplifica. Basta che qualcuno pensi ad un viaggio e si avverte qualcosa in comune. La passione è così, sotto qualunque profilo la si voglia considerare: se provi a trasmetterla, a raccontarla, qualcuno pronto a prenderla, a riceverla, c'è e viceversa. Non dobbiamo, però, scordare che nel nostro paese la cultura è fortemente auto-centrica: abbiamo l'auto aziendale, non la bici aziendale. Questo è un processo culturale che si è stratificato per decenni: ci sarà molto da fare ed in certi casi è davvero complicato avere a che fare con le persone». Qualche anno fa, Piergiorgio faceva novemila, talvolta diecimila chilometri all'anno in sella, ora pedala meno, corre a piedi, dice che non si può fare tutto, ma alla bicicletta ha dato un'altra visuale, un'altra possibilità: «Bici non è solo pedalare, è un mondo. Anche un incontro a chiacchierare, ad ascoltare una storia di ciclismo ha a che fare con la bici. Per questo abbiamo voluto che in Stazione ci fossero libri e riviste, anche musica e concerti: sono un modo di evadere dalla nostra quotidianità, talvolta di sistemare il negozio, di vedere l'attrezzo con occhi differenti, senza le mani sporche d'olio». Un'altra via per conoscere le persone che vengono in negozio, i clienti, per fare comunità, mettersi a disposizione, ascoltare le loro esigenze, chiedere cosa dovranno o vorranno fare con la bici che hanno adocchiato, spesso basta permettere di provare a fare una pedalata e tutti capiscono la differenza tra una bici ed un'altra, ciò che li fa stare meglio e che desidererebbero per le loro uscite: «La bicicletta può essere personalizzata davvero fino all'ultimo bullone: si può cercare la bici giusta, ma si può anche crearla. Senza porre limiti all'invenzione. Nella nostra officina ci proviamo».

Forse la soddisfazione maggiore, almeno per Pigi, è data dalle cargo bike, dai suoi molteplici usi, dal portare i bambini a scuola al viaggiare, tuttavia anche qui il discorso culturale si fa sentire e non potrebbe che essere così: «Si tratta di una nicchia, spesso con costi rilevanti e quindi si fa fatica a permettersela. Sia chiaro, capisco bene la situazione, ma, alla fine, in garage abbiamo quasi tutti una macchina e quella costa più di una cargo bike. Dovremmo trarne delle conclusioni. Che, tuttavia, stiano cambiando la mobilità è evidente ed importantissimo». Il tono cambia, arriva un ricordo di gioventù: il toboga della Triennale e la curva al cavalcavia di viale Cassala, dopo un tratto di ciclabile abbandonata, sulla destra.

«Quando frequentavo le superiori e, al mattino, andavo in bicicletta al liceo, in quel tratto mi divertivo a fare le "curve sceme", come le soprannominavo all'epoca, ovvero strane, improvvisate. Oppure andavo su una piccola montagnetta vicino a casa, una sorta di micro-salita che mi permetteva uno sfogo, un divertimento genuino». Giorni lontani in cui Pigi aveva tutti altri progetti per il futuro, però in bicicletta ci andava già e ci teneva come ci tiene ora.


Quella vecchia bicicletta arrugginita è ancora fra le sue mani, abbiamo la sensazione che ci vorrà del tempo prima di rimetterla in strada: Petruzzellis se lo prenderà tutto, ne siamo certi, e noi, quando capiteremo a Milano la prossima volta, la cercheremo, da qualche parte. Le luci sulla Stazione sono quelle dell'inizio del pomeriggio, con il sole pallido dell'inverno appena giunto: «Qualche sogno ce l'ho ancora e diversi riguardano la bicicletta. Non vorrei più vedere le auto in doppia fila ovunque, non vorrei avere paura quando, magari con un bambino o un ragazzo, percorro una strada di Milano, della mia città, fare il possibile perchè anche loro, un domani, possano non avere paura, perché non debbano discutere con chiunque, mentre pedalano, perché queste continue discussioni rischiano di far passare la voglia di pedalare. Mi piacerebbe vivere in una città in cui chiunque possa scegliere la bicicletta e farlo con serenità, poi andare a scuola, al lavoro, a fare la spesa o a fare un viaggio verso chissà quale destinazione. Per la città in cui vivo vorrei questa libertà». Un'idea che sta bene a "La Stazione delle Biciclette", in una giornata di lavoro, e che sta bene ovunque, come le bici che transitano qui vicino, ad ogni ora del giorno.


Trek Store Bergamo, Lallio

Non fate nulla, limitatevi ad immaginare e ad ascoltare. Lo sentite? C’è un televisore acceso, sono circa le tre del pomeriggio, fa caldo, molto caldo, è luglio, persino la leggera brezza che, ogni tanto, arriva dal mare, è calda, quasi un asciugacapelli puntato addosso. Serve appena appena a smuovere qualche fronda degli alberi e le tende di quelle finestre aperte che, passeggiando, si intravedono nei centri abitati. Sui tavoli dei bar, dell’aranciata fresca, della limonata, un bicchiere con dello sciroppo di menta, canotte e pantaloncini corti, anche qui la televisione è accesa. Ma torniamo alle case, dove, all’esterno o poco più in là, in un campo, i ragazzini, a scuole terminate, giocano a calcio. Avviciniamoci per sentire meglio quella voce che risuona da più parti: è Adriano De Zan, impegnato nell’ennesima telecronaca di una tappa del Tour de France, mentre i campi di girasoli scorrono in video, assieme alla lotta per la maglia a pois, tra gli uomini in fuga, su una cima alpina o pirenaica, quando al traguardo mancano ancora molti chilometri. Fabio Sinatra è lì, in uno di quei salotti, su uno di quei divani, accanto ai nonni, tutto occhi. Siamo in Sicilia, ad Avola e Fabio è arrivato qui da circa un mese, giusto appena finite le lezioni, resterà fino a settembre. Una classica estate italiana, una classica estate da adolescenti, di quelle in cui, a sera, si va sul lungomare a mangiare un gelato, a vedere i fuochi d’artificio, oppure, da qualche parte, a vedere altre ruote girare, altre biciclette sfidare il vento, nella gara notturna che tutte le estati si fa in città, l’ultima settimana di luglio.

Bergamo era distante in quei giorni siciliani, Avola, invece, è vicinissima in questi giorni lombardi, bergamaschi, perché appena chiediamo a Fabio Sinatra, direttore dello Store Trek di Bergamo, di parlarci del suo rapporto con la bicicletta, la memoria pesca là: «La bicicletta l’ho conosciuta per nonno, grazie a lui ed attraverso di lui. Certo non pensavo che sarebbe diventata parte del mio mestiere, ma che mi sarei sempre ricordato di quei giorni lo sapevo. Del resto, chi non si ricorda le estati da giovani? Chi dimentica le prime passioni o i discorsi fatti con i nonni a compiti finiti?». Una bicicletta Trek c’era già, era rossa e Fabio la condivideva con il fratello, c’era anche una Bianchi, dai nonni. Quella Trek rossa era stata acquistata in un piccolo negozio, saranno stati venticinque metri, accanto al palazzo dove vive e guardando dalle finestre ce lo si raffigura ancora, anche se, ormai da qualche anno, quel negozio non c’è più. Le biciclette, invece, a Bergamo ci sono sempre: fanno parte dei risvegli della domenica mattina , dei velodromi, della “Tre sere di Dalmine”, e delle gare dei più giovani. «In città, sono tantissimi i volontari che si impegnano affinchè le gare dei ragazzini siano possibili, aiutano le società a pensarle, a crearle, ed è interessante osservare i loro gesti, la dedizione che ci mettono ed il tempo che dedicano. Vedere correre quei ragazzi accresce la passione, la voglia di fare un altro giro in bici, uno in più, ma anche fermarsi ad osservare i volontari fa lo stesso effetto. Mi è capitato, lo consiglio». Sinatra parla di piccole attenzioni, le stesse che lui da sempre applica alle biciclette, racconta che il primo tipo di approccio è tattile: toccare la bici, conoscerla in questo modo, esplorarla, starci a contatto. All’inizio era tutto più semplice: la passione per il ciclismo, per il basket, il lavoro in Decathlon e sempre le mani “fisicamente” sulla bicicletta, appena ne aveva la possibilità. Poi una telefonata, la carica di direttore, soddisfazioni e responsabilità che devono coesistere perché le biciclette del suo negozio, una volta uscite di lì, vanno a percorrere i viaggi ed i giri di altre persone e chi pedala sa cosa vuol dire: «Un viaggio in bici è un’esperienza ed a noi quell’esperienza interessa in ogni dettaglio. Chiunque pedali, sa che possono esserci tante cose, minime ma fastidiose, che rovinano il momento: un rumore, una scomodità. Noi vorremmo che la pedalata fosse immersiva, che permettesse di non pensare ad altro se non che al ruotare dei pedali ed alle istantanee di paesaggio da ricercare, da portare a casa, da raccontare. Credo sia una bella responsabilità provare a garantire tutto questo, molto difficile, ma stimolante. Tra l’altro, a me le responsabilità sono sempre piaciute».

Per meglio raccontare questa sensazione, Sinatra ci accompagna, grazie al racconto, in uno dei suoi tragitti preferiti, in città, verso Monte di Nese: sono otto chilometri di salita abbastanza impegnativa, in mezzo al bosco, in estate si sta bene ed in autunno è un fiorire di colori: lassù, in cima, c’è il paese. Lo Stelvio è lontano da qui, ma un cartello, nello store, lo ricorda, insieme a un’immagine enorme, sulla parete sinistra dello store: «Tre settimane prima che tutto questo arrivasse in negozio, ero andato a scalare lo Stelvio: ho voluto metterlo qui per ricordare quell’esperienza, per tenere a mente la fatica bella, la sofferenza tremenda e piacevole allo stesso tempo, del pedalare, quella che piace a me». La prima cosa che colpisce del negozio sono le dimensioni, ben ottocento metri quadrati, in stile moderno, al secondo piano c’è l’officina in cui ci si occupa di sistemare le bici, i loro ingranaggi, e di restituirle come nuove, quaggiù, invece, un’autentica distesa di biciclette, circa duecento. Impattante, senza dubbi: «Le persone sono spesso abituate ai piccoli negozi, qui possono letteralmente perdersi fra le biciclette, da scegliere, da guardare, anche solo su cui fantasticare. Quel televisore è sempre acceso su qualche corsa: le persone si siedono al tavolo, bevono qualcosa, commentano. Qualcosa di simile a quello che avveniva a me, nelle mie estati siciliane».

Sinatra ci sta presentando la zona di accoglienza del cliente, quella dove si può guardare la tv, ma anche leggere un libro, una rivista o lavorare qualche istante al computer. Si fa un passo indietro, quando il negozio era appena stato aperto: «Era una nuova realtà, certamente il nome Trek ha aiutato, ma chiunque entrasse era nuovo qui e noi eravamo nuovi ai suoi occhi, non ci conosceva e non lo conoscevamo. Allora si inizia a parlare, a presentarsi, bisogna trovare un punto d’incontro e, nel nostro caso, il punto d’incontro è facile: la bici. Credo sia difficilmente descrivibile il potere che hanno quelle ruote, quel manubrio, la sella, l’insieme degli ingranaggi, l’epica che ha trasmesso ed il divertimento che lascia quotidianamente. Non è facile descriverlo perché va oltre e si traduce nella capacità che questo mezzo ha di far aprire le persone, talvolta di alleggerirle o di liberale da un peso che portano addosso». L’esperienza accomuna molti e Fabio Sinatra resta stupito ogni volta che ci riflette: «Il giro in bici non si fa solo con amici di lunga data, magari è un cliente, qualcuno che hai appena conosciuto: glielo proponi e ti dice di sì, spesso senza alcun dubbio: è uno degli inviti che le persone accettano senza chiedere nulla, se non la destinazione. Non finisce qui. Inizi a pedalare e parli di bicicletta, magari del meteo o del luogo in cui ci si fermerà per un panino ed una birra, passa qualche chilometro e ti ritrovi a confidarti. Qualcuno diceva che la bicicletta è amicizia, è vero».

Dentro e fuori, in negozio e sulle strade. Ora torniamo fra quelle duecento biciclette, precisamente alle mattine in cui Sinatra arriva qui e si mette a lavorare: «Potrei muovermi ad occhi chiusi qui dentro, conosco ogni angolo di questo posto. Sento l’odore delle ruote e dei copertoni, anche quando sono via, mi basta pensarci e quel profumo arriva, assieme all’orgoglio». L’eccellenza di Trek, di cui parla Sinatra, alla fine, è ricondotta alle cose semplici: la conoscenza di un luogo, il fare casa, il non essere solo un lavoro, «sebbene sia un lavoro e non avrei potuto chiedere di più: biciclette e persone assieme, conoscere le une attraverso le altre e viceversa». Si nota dallo sguardo che Fabio Sinatra rivolge ai clienti, non appena escono: «A me interessa che siano soddisfatti, e non parlo solo o tanto del prezzo, parlo piuttosto del sentirsi bene per la bici su cui pedalano, dell’essere felici di un problema risolto e tutti sappiamo cosa si prova quando la propria bici torna apposto». Quelle persone, in molti casi, erano sulle strade del Giro d’Italia 2023, quando il Giro ha fatto tappa a Bergamo.

«Conosco le vie della città, ma ti giuro che mi chiedevo come facessero a starci, come potessero essere così tante, in Città Alta quasi non si riusciva a passare. Un gruppo di amici ha fatto le salite di quella giornata, attraverso strade secondarie, per trovare i corridori, per guardarli ed incitarli, a voce alta, decisa, al mondo della gente di queste strade: gente testarda, tenace, dura ed attenta alle cose più importanti a cui dare rilevanza». A Fabio Sinatra piace questa dimensione del ciclismo: racconta dei tre professionisti di Avola e dei tanti atleti di Bergamo e dintorni, oltre a “Il Lombardia”, la gara di casa, in un certo senso. Ripensa a Marco Pantani, a Mario Cipollini, a Paolo Bettini, «a tanti campioni che basta averli visti una volta e non te li scordi più, nemmeno se ti allontani dal ciclismo».

Ed, in effetti, almeno per qualche anno, Sinatra, il ciclismo, lo ha seguito da casa, giocava a basket a livello agonistico, uno sport molto diverso, con, però, in comune l’elemento “persone”: «Senza gli altri, non vai da nessuna parte. Nel ciclismo, come nel basket, conta la squadra, in ogni sfaccettatura. Anche se non si è professionisti, ma si parte per un viaggio, anche se si è soli, contano le persone. Quelle che incontri, che saluti o che ti salutano, quelle con cui fai un tratto di strada. A Pasqua ho fatto un viaggio in bici verso Montpellier, partendo da Ventimiglia: era la prima volta, so che ce ne saranno molte altre. In primavera vorrei andare in Toscana, in mente ho anche i paesi del Nord, in cui la bicicletta è al centro della quotidianità». Da come ce lo racconta, siamo certi che di viaggi ne farà molti e anche molto presto, nel frattempo, ogni mattina, Sinatra torna in negozio, dove si orienta anche a luci spente, dove si siede per un caffè e ascolta le persone chiedere, raccontare, parlare di biciclette. Quel ragazzino, ad Avola, in un pomeriggio afoso d’estate, qualche anno fa, davanti ad una telecronaca del Tour de France, non l’avrebbe mai detto.


Cicli Lazzaretti, Roma

Una voce circola fra le vie di Roma: pare che Romolo e Remo, dopo aver fondato la città, abbiano anche fondato un negozio di biciclette. Bella questa, direte. Certo, a livello temporale le date sono decisamente sfalsate: Roma venne fondata nel 753 avanti Cristo, quel negozio nel 1916 dopo Cristo, ma, si sa, le leggende hanno poco a che fare con la realtà, semmai con le impressioni, con i sentimenti e con i tempi passati che, appunto perché trascorsi da molto, restano avvolti in un alone di mistero da cui si può iniziare a raccontare una storia. Però i nostri Romolo e Remo hanno davvero attraversato le vie della città e, davvero, si sono fermati a quel negozio in Via Bergamo 3a, che, agli inizi, era pieno di macchine da cucire per riparare le maglie di lana dei ciclisti di quei giorni. A dire il vero, in negozio restava Remo perché Romolo aveva una vena più avventuriera, viaggiatrice, ed era un ciclista vero e proprio. Un professionista degli anni venti, del Lazio, ciclista indipendente, che corse anche con la società ciclistica Binda e che, nel 1924, vinse una tappa al Giro d'Italia, la Bologna-Fiume, ben 415 chilometri di strada. Remo, invece, era dietro il bancone di quell'emporio ciclistico, come si chiamava all'epoca, con un camice nero, sempre al lavoro, ma senza la frenesia che oggi si respira ovunque. Amava i ragazzi, i più giovani, li cercava con lo sguardo e, se vedeva che erano appassionati di ciclismo, gli mostrava le sue biciclette: i padri pagavano le cambiali e Remo consegnava le bici ai figli. Era un uomo semplice, buono. Romolo e Remo, sì, Romolo e Remo Lazzaretti.

Il racconto della storia e anche della leggenda dei due fratelli ce lo fa Simone Carbutti, nipote di Remo, anche se nonno non l'ha mai conosciuto e tutto quello che sa di lui viene dalla narrazione di mamma e papà. Siamo proprio all'interno di Cicli Lazzaretti, il negozio storico, e la storicità si respira a pieni polmoni, a partire da quella grande cassettiera, quell'enorme scaffalatura, che occupa tutto il muro dietro il bancone, a cui immaginiamo di rivedere il signor Remo nello svolgimento del suo mestiere. Notiamo, poco più in là, nello spazio piccolo ma custodito e curato con attenzione del locale, un soppalco in vetro e acciaio che si sposa perfettamente con il clima antico, c'è anche l'officina in cui i meccanici studiano e aggiustano, sistemano e modificano, e, accanto alle attrezzature più moderne, si cimentano anche in lavori più classicamente da officina, come sistemare un carrellino, ad esempio. Ed eccoci alla vetrina dove anche un cambio od una leva sono esposti ed illuminati ad esaltarne le caratteristiche, quasi fossero gioielli. A pochi metri da qui, una decina, forse una ventina, un altro negozio, sempre Lazzaretti, più recente, nato dieci anni fa, per chi ricerca l'ultimo pezzo, la bici all'ultimo grido: si scorgono le volte a mattoncino, tipiche dei palazzi storici, e quelle nicchie al muro, dove sono riposte le biciclette, talmente bene da sembrare dei quadri. Carbutti riprende la storia: dal fratello della madre, anch'egli Romolo, che, dopo un periodo in negozio andò in Brasile e si occupò di biciclette anche là, fino al padre, Mario: gran pedalatore che, però, conosceva poco la parte tecnica del lavoro.

«Mio padre è stato uno dei primi ciclo-escursionisti, a fine anni ottanta, ad esplorare l'Africa, pedalando. Ho foto in cui è con bambini dello Zaire, una di queste è diventata anche la copertina di una rivista, ci sono filmati a raccontare i suoi viaggi in Nuova Guinea, fino al Kilimangiaro. Si trattava di viaggi abbastanza improvvisati, per i canoni odierni, davvero al limite anche per quanto concerne la sicurezza: si dormiva in tenda, si contattavano le missioni locali ed i consolati. Per orientarsi si usava una cartina e poco altro, gli inconvenienti erano all'ordine del giorno, i tentativi folli anche. Come quel giorno in cui si avviò verso il Kilimangiaro per scalarlo in bici: gliela sequestrarono alla base e dovette proseguire a piedi». Mario Carbutti ha smesso di fare questi viaggi a causa delle varie guerre, sorte in quelle zone, e Simone è cresciuto in città. A Roma, dove non si respirava l'aria del ciclismo eroico che c'era, ad esempio, in Toscana: si ricorda del Trofeo Lazzaretti, a Monte Sacro. Una gara aperta ai dilettanti che, vincendola, dava l'opportunità di passare fra i professionisti: Davide Rebellin fu uno degli ultimi a conquistarlo. Quando Simone è ragazzo, sono gli anni delle biciclette da cross, con il cambio sulla canna orizzontale, le cosiddette saltafossi: «Non volevo la saltafossi, invece sono stato uno dei primi ad averla, quando ancora nessuno aveva la mountain bike». Nel negozio ci sono sempre state bici da corsa, senza mai tralasciare la parte urbana, le e-bike e le biciclette da passeggio, si sistemano biciclette d'epoca ed eroiche e per Simone Carbutti che è cresciuto, sin da bambino, in mezzo alle bici, iniziare a lavorare in quei locali è quasi naturale, dopo aver lasciato l'università al secondo anno. All'inizio, però, non è per nulla facile, come non lo è mai lavorare in famiglia, a contatto con i genitori, per differenza di vedute e di visioni, date dalla differenza di età: «Nel tempo, entrambi abbiamo smussato i nostri lati caratteriali più complessi. Da parte mia, ho imparato un lavoro, conoscendo la vecchia meccanica della bicicletta, una meccanica davvero difficile, più di quanto si possa pensare, necessaria anche a fronte di un mondo che si sposta sempre più verso la tecnologia, altrimenti manca un pezzo. Credo anche di aver portato un pizzico in più di modernità, di innovazione: papà non sbagliava, per nulla, ma, in tema di biomeccanica, prendeva le misure con il metro ed il mercato, oggi, richiede una precisione superiore, con macchinari a ciò dedicati. In fondo, quello fra generazioni è uno scambio».

Le parole virano da una descrizione ad una riflessione, sul modo di fare il proprio lavoro: «Cerchiamo di essere onesti, abbiamo meccanici davvero qualificati e in molti ci dicono che siamo bravi: l'intenzione è quella, di fare il meglio e di farlo nel miglior modo possibile. Tuttavia sicuramente a qualcuno non piacciamo, qualcuno ci critica, è scontento del nostro operato ed è giusto che sia così, va bene così». Non sono passati molti giorni da quando un call center ha contattato Cicli Lazzaretti, spiegando che, a fronte del pagamento di una cifra, sarebbe stato possibile eliminare le recensioni negative dai loro profili social. Simone Carbutti, dall'altra parte del telefono, non ha avuto esitazioni: «Perché dovremmo volerle cancellare? Devono restare, come restano quelle belle. Il fatto è, semmai, che le cose negative fanno sempre più notizia di quelle positive, ma è normale, succede sempre». Di certo, là fuori, le persone vogliono vedere, vogliono conoscere quel luogo che, si racconta, molti vadano a visitare prima di recarsi al Colosseo: in quella strada camminano e si incontrano persone di spettacolo, della politica e lavoratori delle botteghe, dei negozi che alzano la saracinesca con le prime luci dell'alba. Simone Carbutti e tutti coloro che lavorano in negozio cercano di mettersi a disposizione, di lasciare al cliente non solo una bicicletta, ma un'esperienza e, magari, le risposte a tutte quelle domande personali, che ciascuno ha, quando cambia la bicicletta o la porta a far aggiustare, ma che nel commercio online non si possono porre: «La gentilezza, l'accoglienza, l'essere ospitali è quel qualcosa in più che abbiamo il dovere di donare a chi passa a trovarci, caratteristiche che raccontano le persone e fanno parte delle persone, che si riconoscono in queste e le ricercano nella loro quotidianità. Una bicicletta è anche la narrazione di una passione, di un sogno, di un'idea. Una volta, forse, tutto questo era più presente, perché c'era meno fretta, più tempo per fermarsi ad ascoltare una storia e Lazzaretti vuole anche essere un club, un posto in cui quei momenti ci siano ancora e più vivi che mai, pure a negozio chiuso».

Carbutti sta pensando a tutti quei ciclisti, magari anziani, che tempo fa si ritrovavano solo per raccontarsi storie del passato: bastava vedersi e le chiacchiere prendevano il via, insieme al viaggio indietro negli anni, nelle gare o negli aneddoti. Perché c'è lo scambio come clienti, ma c'è anche la fiducia, il volere andare da Lazzaretti perché lì conosci chi può mettere le mani sulla tua bicicletta e sai la competenza e l'attenzione che vi dedicherà. Oggi si tende ad essere meno disponibili all'ascolto rispetto a qualche anno fa: «Certe volte consigli e noti chiaramente che la persona preferisce fidarsi di quel che ha letto su internet o su un libro rispetto a quel che puoi mostrare tu, attraverso l'interazione. Lo confesso: ci si resta male, se si lavora in un certo modo». Già, anche il mestiere, come lo avrebbe chiamato Remo, è cambiato e la risoluzione dei problemi si è fatta più complicata: «Ai tempi di papà bastava alzare il telefono, serviva qualche giorno, ma le cose si risolvevano, adesso le problematiche si moltiplicano e atterrano tutte qui, poi, visto che le risoluzioni sono più complesse, talvolta ci si trova a non poter aiutare il cliente per fattori che non dipendono da noi. Penso sia una delle cose che mi piacciono meno di questo lavoro».

Forse, prosegue Carbutti, si è perso un poco di quel sentimento genuino che si nutriva nei confronti di una bici, quello che ne faceva poesia, quasi un ricordo di una radice antica ed eroica, posseduto, conservato e curato da ben pochi. Non capita spesso di ritrovarlo, come un profumo o un colore raro, ma qualche volta sì, mentre si è in mezzo alle biciclette e non ci si sta pensando. In quel momento, entra un anziano signore, come successo appena qualche settimana fa, si guarda attorno, cerca una bicicletta e a chi gli chiede che bici desideri, risponde: «Sai, ho ottant'anni e la mia prima bicicletta l'ho comprata da Cicli Lazzaretti. Questa probabilmente sarà l'ultima, l'età è quella che è, ma non pensiamoci. Vorrei che uscisse da qui, come quella di quando ero ragazzino. Ho questo desiderio, potete accontentarmi?». Simone Carbutti era con le orecchie attente e l'animo all'erta, perché di quella poesia crede che il ciclismo abbia bisogno, quanto Cicli Lazzaretti, anche ora che il futuro, la modernità sono ad un passo. L'augurio è di incontrarli, conoscerli, farne parte, senza perdere il gusto del racconto, seduti ad un tavolo, davanti ad un caffè, dopo un giro in bicicletta, oppure poco prima di partire. E, se così sarà, chissà quante prime e quante ultime biciclette usciranno da questo locale.