Mulinvélo, Pastrengo

Il vecchio mulino di Pastrengo era lì, fondamenta ben salde nel terreno, incurante dei secoli che passano, bastione possente su cui il cielo rovescia pioggia, vento, neve d'inverno e cappa di aria calda, canicola soffocante, d'estate. Dal 1800, anno della sua costruzione, erano duecento anni di intemperie e volti e voci che solo ciò che è di pietra e resta nel tempo può conoscere. Dagli inizi del 1900, quando, effettivamente, iniziò a macinare farina finissima e finemente curata, era già trascorso quasi un secolo e, per la parte di produzione, quel mulino era inattivo da un buon periodo. All'interno, vi lavoravano le figlie del proprietario: curavano una piccola porzione relativa alla vendita di farine che, altrove, non si rintracciavano. Il resto della struttura non era visitabile dai più, la meraviglia della sua artigianalità, dei suoi segreti, nascosta proprio da tutto il tempo che era ormai trascorso, come una fotografia, protetta dalla copertina, in un album.

Sulla sponda orientale del lago di Garda, a pochi chilometri da Verona, i cittadini di Pastrengo conoscevano quel mulino, come i quattro forti austriaci racchiusi in poco più di un chilometro e mezzo, il vecchio telegrafo e l'aeroporto per velivoli super leggeri: sapevano della loro esistenza per sentito dire, per qualche transito su quella strada, al mattino presto o alla sera tardi, per caso. Così accadeva anche a Massimo Gaiardelli, mentre, dapprima, lavorava in un'azienda di elettronica e, successivamente, in bicicletta accompagnava le persone in Toscana oppure sulle Dolomiti: era una delle prime guide in sella, qualcosa che precorreva i tempi e che lo portava lontano da casa per molte, forse troppe, settimane. A ben guardare, qualcuno che aveva visto oltre, seppur per quello stesso caso, c'era ed era proprio a casa sua: si trattava di Antonella, la sua compagna, in un giorno in cui cercava della farina di Kamut, non così diffusa agli inizi degli anni 2000. La porta dello spaccio per la vendita, poi, il resto in denaro che manca e quelle ragazze che le aprono le stanze abbandonate. La copertina dell'album è tolta, la fotografia è esposta. «Dovresti vedere quanto è bello, peccato sia in parte abbandonato»: frammenti di conversazione tra Massimo e Antonella. Parole che fuggono via, almeno per quel momento.

La realtà è che Mulinvèlo ha radici in quel dialogo e casa in quel vecchio mulino abbandonato. Massimo Gaiardelli gestiva un negozio di biciclette, a Sant'Ambrogio, divenuto ormai piccolo e con una comunità di persone sempre più grande a frequentarlo, l'idea era di un nuovo luogo in cui porre le fondamenta. Nel frattempo, un cartello su quel mulino, con la scritta "in vendita", un passaggio in auto su quella strada, a cinquecento metri da casa, un sabato pomeriggio a visitarlo e l'acquisto per trasferirvi tutte le biciclette ed il fulcro del mestiere di Massimo e Antonella. «La maggior parte dei lavori sono fatti a mano, con l'intenzione di mantenere e, se possibile, proteggere l'anima del mulino. Ecco la tramoggia, guarda i tubi che portavano su e giù la farina, l'officina, invece, era un vecchio bunker della guerra. Puoi toccare il sasso, sentirne l'antichità, ammirare gli accessori realizzati con materiale recuperato dalla vecchia struttura del mulino, osservare la cantina, l'interrato sotto, il bianco ed il nero, la sala macchine, attraverso i vetri, le malte colorate che, da gennaio del 2023, hanno dato sostanza alla ristrutturazione di questo gioiello dimenticato». Oltre a questo, vi sono spazi appositi dedicati all'abbigliamento, alle collezioni di bici, fino ad una sorta di appartamento, un luogo intimo, in cui accompagnare il visitatore, bere un bicchiere del pregiato vino della Valpolicella e fare un aperitivo, a pedali fermi, a ruote immobili, dove, comunque, la bicicletta resta lo sfondo, l'idea generatrice. Proprio al movimento delle ruote si riallaccia il nome: nei mulini è tutto un ruotare ed il verbo "mulinare", per riferirsi al rapido girare dei pedali mentre si corre in bicicletta, deve avere qualche legame con queste antiche strutture. "Vélo", invece, è bicicletta in lingua francese, ma non solo: ha lo stesso suono di velocipede e di velocità, un binomio affascinante sin da quando si è bambini. Gli stranieri che giungono a Pastrengo si guardano attorno incuriositi e si chiedono se davvero può esistere un mulino pieno zeppo di biciclette.

La risposta potrebbe fornirla un signore coi capelli bianchi che, pur avendo sempre pedalato, ora inizia ad avere mal di schiena, a far fatica in quella posizione, eppure, al pensiero di rinunciare alla "sua" bicicletta si sente più vecchio che mai e gli occhi diventano lucidi: «Quando un signore gentile e canuto arriva qui, ho la chiara percezione della bellezza del poter risolvere un problema per qualcuno, del sentirsi utili. Poi li rivedi quei signori: forse faranno solo il tratto da casa all'edicola in bicicletta, ma, grazie al consiglio giusto, alla posizione corretta, a una piccola modifica sulla bicicletta potranno continuare a farla e allontanare di qualche tempo l'idea della vecchiaia e la sua malinconia».

Massimo Gaiardelli ha vissuto ogni minima sensazione su una bicicletta, in anni e anni di pedalate controvento, come in quelle che continua a fare oggi, la domenica oppure il mercoledì mattina, quando il mulino è chiuso, per questo conosce perfettamente qualunque piccolo fastidio che può provocare questa esperienza: dalle scarpe strette, alla sella, al soprasella, alla posizione del collo e della schiena. «Il gesto della pedalata mette assieme molti movimenti e molti fattori per cui è sufficiente davvero poco perché da qualcosa di piacevole, pur nella fatica che si sperimenta, a un momento di fastidio e sofferenza. Credo che il nostro compito sia quello di predisporre tutto affinché le persone stiano bene in bicicletta». Le persone, sì, le donne e gli uomini a cui si rivolgeva già quando vendeva i primi cellulari, i vecchi portatili a valigetta, gli stessi che, quando lo incontrano, gli ricordano che il primo telefono mobile gli venne consigliato proprio da lui: «Decisi di abbandonare l'elettronica proprio quando capii che, per come si erano messe le cose, avrei dovuto lasciare da parte la mia attenzione per il lato umano: non avrei mai potuto. Resta, però, il fatto che, in ogni caso, si parla di un qualcosa più "freddo" rispetto alla bicicletta: il ciclismo permette tutta una contestualizzazione, sin dal primo momento in cui ci si conosce, pur essendo estranei. Questo avviene perché si svolge all'esterno, nella natura, ci si può chiedere da dove si proviene, dove si abita, qual è il luogo in cui ci si reca quando si vuole osservare un panorama, magari scoprirlo. Bastano queste poche domande per sentire di avere qualcosa in comune, no?».

Si spazia dalla disciplina su strada, al gravel oppure alla mountain bike dove è necessaria anche una base tecnica e qualcuno che ne illustri i dettagli: Gaiardelli si muove attraverso dei video per registrare gli allenamenti e, successivamente, mostrarli a chi si sta cimentando in quella pratica, affinché, rivedendosi, possa prendere coscienza degli errori commessi e cercare di migliorarsi, sempre attraverso il dialogo, il confronto, evitando a priori l'informazione calata dall'alto che non mette a proprio agio chi la ascolta e vuole assimilarla.

La bicicletta mette sullo stesso piano, sullo stesso livello, quello della strada, del sacrificio, della velocità e del vento, Gaiardelli cerca quel piano attraverso un invito a pedalare assieme, a guardarsi, a commentare quel che si vede e le sensazioni che si provano, le emozioni di quando dallo stupore per quel che c'è «quasi ti butti per terra e piangi», persino a prendere la sua bicicletta e a mettersi in gioco, prima di qualsiasi giudizio, perché la missione della bicicletta, unica pur in tante declinazioni, è, fra le altre, per Gaiardelli, dare il giusto tempo ed il giusto ritmo al tempo ed alle cose: allora il mulino a cinquecento metri da casa non è più normale, ma speciale, vale anche per i forti austriaci e per il telegrafo, vale per i profumi e per i sapori, di cui la zona di Pastrengo è ricca. Libertà, esperienze assieme, viaggi, borse da preparare: ecco gli ingredienti che, dopo tanti anni, sono antidoto all'abitudine e stimolo costante per l'entusiasmo anche in Gaiardelli stesso, che è stato maestro di sci ma la "goduria" di un giro in bicicletta non sa dove altro scovarla. Se di fronte ad un anziano signore il bello è risolvere un problema, permettere la continuazione delle pedalate, di fronte ai più giovani la sfida è suscitare interesse, lasciare un seme, che saranno, poi, loro a coltivare. La costante è la tematica legata alla sicurezza, connessa a una filosofia ben precisa: «Sento diverse persone che non usano la luce o non mettono il casco e si nascondono dietro al fatto estetico. La mia idea è netta: io ti procuro la luce più bella che c'è, il casco più bello, più comodo, ma tu lo indossi. Così togliamo alibi. Poi ognuno deve fare la propria parte e gli utenti della strada sono molti».

In una realtà in cui le grandi aziende dominano ed il prodotto, anche la bicicletta, è sempre più depersonalizzata, c'è un ritorno di fiamma per l'artigianalità, per quel che è su misura, un vestito pensato per la persona e la bicicletta è un mezzo che ha bisogno di questo adattarsi a chi dovrà salire in sella e pedalare. Allo stesso modo, il mulino di Mulinvèlo è un'esperienza, oltre ad essere un locale, un negozio, sulla scia di esperimenti simili a Girona, a Londra, con l'innovazione data, proprio, dall'essere un mulino, da tutti gli anni che ha trascorso a produrre farina, dal caso di quel giorno in cui vi è capitata Antonella, dalla ristrutturazione, dall'ospitare biciclette. Soprattutto dall'essere sempre stato il posto giusto, al momento giusto. Una sorta di magia realizzata dagli esseri umani.


Lost Road, Ferrara

Nelle campagne della Vallonia, in Belgio, vicino alle fattorie dove lavoravano i braccianti, intorno al 1700, i contadini dell'epoca preparavano la birra con ogni tipologia di cereale a disposizione in quei territori, non solo l'orzo, anche l'avena e la segale. Quella bevanda, caratterizzata da una modesta gradazione alcolica e da un gusto che non stancasse, doveva servire a dissetare i lavoratori agricoli nel caldo e nel sudore delle loro fatiche: l'acqua, a quel tempo, era meno salubre della birra che, post ebollizione, veniva depurata da batteri e microrganismi. La birra Saison, infatti, nasce in questo modo. Altrove, precisamente in Boemia, nella città di Plzen, in Repubblica Ceca, la birra Pilsener, abbreviata in Pilsner o anche semplicemente Pils, vedeva la propria origine ed il proprio peculiare sapore da un'acqua povera di sali minerali: non c'era alcuna lavorazione per ottenere l'effetto che tutti conosciamo, solo la terra le conferiva queste qualità. Birre chiare e birre scure: le seconde sono state, a dire il vero, in alcuni luoghi, le prime in ordine cronologico, in quanto ancora non si sapeva come cuocere l'orzo a temperature tali che non lo imbrunissero così tanto, consegnando, poi, il suo colore alla bevanda. Allo scendere delle temperature è corrisposto l'ingiallire della birra, le cosiddette bionde. Storie di terre e popoli, di culture? Ne eravate a conoscenza? Noi no, non così dettagliatamente almeno e la ragione per cui, ora, possiamo narrarle ha essenzialmente a che vedere con l'ignoto, le strade che si perdono, che si scelgono nel vuoto, al posto di quella battuta, in cui già ci si orienta perfettamente, portandosi dietro il dubbio, la paura, ma pure il coraggio e l'entusiasmo di quel che si può ancora inventare.

La nostra scoperta è partita da uno spazio difficilmente catalogabile, a Ferrara, in via del Mercato 6: l'osservazione scorge un bancone, dei dischi in vinile, molte lattine appese, un telefono ed una televisione vintage e diverse biciclette appese al soffitto. Si tratta, come aggiungerà Michele Massellani, di uno spazio unico, non di un birrificio, ma di un birraio itinerante, che ha studiato, progettato e costruito autonomamente ogni singolo dettaglio dell'arredamento di quei locali, fino ai tavolini dove ci si siede, appoggiando un boccale di birra, in attesa del primo sorso. "Lost Road" è il nome di questa struttura, anche se, per tutto ciò che c'è dietro quelle due parole in inglese, potrebbe essere il titolo dato a una storia, quella di Michele, in primis, quella di chiunque voglia ispirarvisi, in secundis. Fino a quattro anni fa, Michele Mascellani era lontano da qui. Aveva studiato economia all'università e, successivamente, era stato assunto in banca in qualità di consulente fiscale e normativo: giacca e cravatta, uno stipendio certo e un futuro già delineato. «Per dieci anni, quello era il mio mondo e, almeno all'inizio, credevo potesse esserlo per sempre. Ero un esecutore: mi veniva detto ciò che dovevo fare ed io agivo. Alla lunga, è diventato un peso. Dove avevo lasciato le mie idee? Dove era finita la mia creatività? Quell'incasellamento che, da una parte, era tranquillizzante, dall'altra era una gabbia che mi precludeva la realizzazione della parte più intima di me».

Da quel momento, la prima strada persa: Massellani trascorre vari giorni, vari mesi, in giro per l'Italia, frequentando corsi specializzati per diventare "birraio", al ritorno, in un piccolo impianto a casa prova a mettere in pratica tutte le nozioni apprese, qualche tempo e si licenzia. Perde tutto, raccoglie solamente la buonuscita che gli spetta per legge e, con quei fondi, inizia ad ideare quel locale che vi abbiamo descritto. «La prima reazione di chi si ha accanto, in questi frangenti, tira in ballo la follia di un cambiamento simile, senza alcuna certezza, senza alcun appoggio su cui cadere se non dovesse funzionare. I miei genitori, mia sorella, anche alcuni amici: "Hai studiato per questo, cosa ti salta in mente?". La volontà e l'idea sono difficili da capire per chi non sta vivendo quel che vivi tu, però, chi ti vuole bene può capire la motivazione, la spinta interiore che ti porta ad un salto nel vuoto di questo tipo. Chi ti vuole bene, alla fine, appoggia questa spinta». Qui il discorso si amplia ed esplora il termine cambiamento: spiega Massellani che, in fondo, tutti subiamo il fascino del cambiamento e tutti, almeno una volta, abbiamo pensato di stravolgere la nostra vita e ripartire da capo, in maniera differente. Poi, spesso, ci siamo fermati: «Normale, umano, direi. Gli esseri umani tendono a essere conservatori, anche se non stanno bene nelle loro scarpe. Lost Road è un invito a perdere la strada, ad accettare il rischio di perderla per ritrovarsi».

Sì, da quella "follia" la creatività ha continuato ad espandersi. Dapprima negli assaggi casuali in tutta la sua esperienza, che «permettono una memoria su cui fare affidamento per scegliere come strutturare la tua ricetta, dagli assaggi nella cucina della nonna, da bambini, noi riconosciamo le spezie, i profumi», all'osservazione della birra nel bicchiere, «quanto rimane la schiuma, se la sua grana è fine o pannosa», alle note olfattive, all'assaggio, «lì comprendiamo se ci sono sapori assonanti o dissonanti, coerenti rispetto al profumo», sino al lato tattile, «se lascia la bocca pulita, se restituisce pienezza, se è vellutata o acquosa», il tutto nell'introspezione di un momento di solitudine e silenzio in cui sono coinvolti tutti i cinque sensi: questa è l'arte di un birraio. Prendiamo in mano una lattina ed il suo design, all'improvviso, ci riporta al ciclismo, all'epoca di Coppi e Bartali, più avanti di Merckx, a tante imprese, al ricordo delle maglie storiche: saranno le due bande colorate e lo sfondo bianco, l'eco della maglia Bianchi, ad esempio. Le due bande cambiano colore a seconda della tipologia di birra, nello spazio bianco, invece, una scritta a raccontare come siano i lunghi giri in bicicletta a Ferrara, nella grande pianura e nei luoghi più sperduti, accanto allo scorrere del Po, alle sue acque, a ispirare birre «fresche, equilibrate e pericolosamente facili da bere». Il legame tra le birre di Lost Road e la bicicletta è stretto e ricco di sfaccettature: si nota non solo per la cargo bike di Michele Massellani, il mezzo che usa per le consegne, sempre parcheggiata davanti alla vetrina, vicino alla distesa di tavolini, non solo per la vecchia Cinelli appesa all'interno del locale, ma si definisce bene anche in relazione alla città, a Ferrara, che, da sempre, dedica una particolare cura alla ciclabilità e alle persone che pedalano, oppure in relazione a tutti i ciclisti che, di tanto in tanto, si fermano qui a bere una birra, mentre prendono fiato e leggono un giornale, una rivista. I giri in bici di cui parla l'etichetta sono quelli di Michele che, sin da ragazzino, ha conosciuto la città attraverso i pedali.

«La birra è una sorta di prolungamento, di continuazione di quel che si vive in un giro in bicicletta: un modo, insomma, per conservare quel che si è appena vissuto, parlandone con gli amici, davanti ad una bevanda dissetante e beverina, prima della doccia finale, al rientro a casa, magari. Una bevanda studiata appositamente per non stancare ed essere adatta a quella circostanza: non troppo corposa, non troppo alcolica, ma appagante, come un premio, una ricompensa». Michele Massellani riflette spesso sul fatto che, in Italia, non ci sia una vera e propria cultura della birra, maggiormente sviluppata, semmai, è quella legata al vino: questa mancanza, in realtà, si traduce in diversi aspetti che tutti possiamo osservare e che Massellani ben analizza: «Spesso parliamo di birra bionda o birra rossa, di "bevanda gialla più conosciuta al mondo”, parliamo di alcune caratteristiche, il fatto che sia dissetante o meno, conosciamo, forse, la zona d'origine, nemmeno sempre, ma non finisce lì. Ci sono enormi differenze tra le birre industriali e quelle artigianali, soprattutto una birra è sempre e in particolare modo legata da uno stile, ad un'interpretazione, alla cultura di un popolo, ai suoi costumi, alle sue usanze. A quel punto si apre davvero un mondo».

Accade molte volte: Michele Massellani racconta le proprie birre in eventi pubblici, con molte persone ad ascoltare, prova ad esaudire le loro curiosità. Ad esempio, rispetto alla prima birra da lui prodotta, elaborata sullo stile di quella bevuta a Colonia, in Germania, dopo vari assaggi da bevitore curioso. Al rientro a casa, ha iniziato a provare a ricostruirne il gusto, avvicinandosi sempre più, ad ogni modifica, fino al gusto che voleva sentire, quello giusto, perfetto, desiderato. Ma c'è di più, perché molte domande, molto interesse è proprio per la storia di Michele, per quella vecchia vita sicura abbandonata e per l'incertezza scelta per riprendersi la creatività e la possibilità di realizzare pienamente ogni sua capacità come persona: «Le persone vogliono sapere, si immedesimano e magari trovano il coraggio per intraprendere la loro strada del cambiamento, per avventurarsi su una via sconnessa che potrebbe accompagnarli a quel che davvero vogliono». Qualche volta Massellani si fa prendere dalla timidezza, si sente imbarazzato nel racconto, poi, pensa che è necessario, che a chi è venuto alla degustazione può servire e inizia a narrare, come ha fatto oggi, con noi. In questo spazio non definibile a priori, immerso nel fascino di quel che è necessario esplorare, nel profumo e nel sapore di una birra, nel vento e nella velocità di una bicicletta, per le strade di Ferrara.


Crazy Sport, Vittorio Veneto

Roberto Catto è sincero, spontaneo, probabilmente i suoi sessant'anni e tutte le esperienze vissute lo aiutano, così ce lo dice subito: «Non conosco una parola di inglese, non sto esagerando. Non ci capisco nulla. Mi pare, però, che "crazy" abbia un bel suono, armonico, delicato e un pizzico strano, fantasioso, veloce come una discesa e aspro come una salita, con dentro il sibilo del vento. L'ho scelto per questo, quando si è trattato di dare un nome, un'identità, a questo luogo e, alla fine, lo rispecchia perfettamente. Forse, con l'età, mi sarebbe piaciuto usare qualche termine dialettale e, magari, avessi dato vita a questa attività solo pochi anni fa, l'avrei chiamata "Sport Matt". Del resto, c'è della follia, buona si intende, in tutto questo». A Vittorio Veneto, in provincia di Treviso, in via Menarè 164, si respira l'aria delle terre del Prosecco, delle sue colline, dove sfrecciano biciclette da corsa, gravel, mountain bike e dove le persone si fermano a respirare e ad osservare un panorama che è patrimonio dell'Unesco: le Dolomiti sono una cornice di neve in inverno e di frescura in estate, Venezia, le sue gondole, la sua laguna e la sua arte sono ad un passo. Fuori dalle mura tutto questo, dentro le mura tante biciclette, di ogni tipologia e sfumatura, di ogni grandezza e peso, adatte ad ogni disciplina e percorso. Dentro le mura anche una sottile incredulità: «Sono circa cinquant'anni che pedalo. Quante strade stanno in tutto questo tempo? Quanti piccoli pezzi di mondo esplorati? Credo tanti, tantissimi. Infatti la logica, la razionalità pura, dovrebbe portarmi ad avere esaurito quella voglia instancabile di disegnare un tragitto e partire all'avventura: invece no, ancora adesso io aspetto la domenica con lo stesso fervore e mi sveglio con la medesima gioia perché non vedo l'ora di arrivare in un'altra città, in un altro paese, stancarmi, sudare e prendere la via di casa con la convinzione che le strade nuove non finiscono».

Le vie di Gorgo al Monticano non sono così distanti da qui, ed è proprio da quelle parti, in un paese di confine, che è iniziato tutto per Roberto, un ragazzo cresciuto nell'officina di meccanica del padre, dove si occupava di automobili, pur sentendosi da sempre lontano da quel settore, un lavoro che «aveva a casa e, quando bisogna lavorare, ci si adatta e si fa tutto quel che serve, senza troppe storie: sono cresciuto con i miei genitori che mi dicevano così». Agli albori, nel primo negozio, circa 150 metri quadrati, c'erano non più di cinque biciclette e Catto non dormiva la notte, mettendo il piede giù dal letto al mattino con un un'unica affermazione, chiara, in mente: «Sono stufo. Ora vado là e chiudo tutto, non si può continuare così». Questa scena si ripete per più di mille giorni, circa tre anni, fino a che tutti gli ingranaggi del nuovo mestiere sembrano iniziare a girare: non è più solo una passione mista all'intraprendenza di un ragazzo che aveva fatto un salto nel buio, «quella che riempie le giornate, che non ti fa mai chiudere, anche se, a conti fatti, dovresti, perché, nonostante le tante ore, non porti a casa abbastanza denaro e con la sola passione non si mangia», è diventato un lavoro. Sei anni, tondi tondi, in quei locali, fino a che un amico d'infanzia e di biciclette gli chiede se vuole mettersi in società con lui perché c'è un'opportunità da non perdere, per migliorare, per crescere. Stiamo parlando della seconda sede di Crazy Sport, a non più di cento metri da quella attuale, diventata sede circa quattordici anni fa, di trecento metri quadrati, dove, passo passo, sveliamo questa storia. I nostri piedi sono ben piantati a terra, ma la mente segue traiettorie insondabili, disegnate da Roberto che, all'improvviso, dal nulla, ci porta in Mongolia, in un ricordo di sedici anni fa, ancora nitido come il primo giorno.

«Eravamo in uno spiazzo, con mia moglie, stavamo per posizionare la nostra tenda. All'improvviso abbiamo visto arrivare una donna, a cavallo, con il figlio, un bambino, fra le sue braccia. Ci si scambiano aiuti, ognuno fa quello che può, con quello che ha, poi, mi viene in mente di chiedere a quella signora se mi permette di fare una foto-ricordo assieme a lei. Ho cercato di farmi capire, in qualche modo: ha preso ed è andata via, senza darmi la possibilità di aggiungere altro. Sai, sono culture talmente diverse che ho pensato di averla offesa con quella richiesta, di essere stato inopportuno, insomma, fino a che, mezz'ora dopo, è tornata con nuovi abiti, quelli della festa, per concedermi la fotografia che le avevo domandato. Ho i brividi a ripensarci, è stato troppo bello. Senza la bicicletta sarei mai arrivato a scoprire questa forma di accoglienza e disponibilità? Non lo saprò mai, ma credo di no». Se quel viaggio è stato possibile e quella serranda viene alzata tutte le mattine, dopo tanti anni, il merito è certamente di Roberto ma anche di tanti gesti, all'apparenza minuscoli, scontati, che tutto sono tranne che ovvi o piccoli per chi intraprende un nuovo lavoro assumendosi rischi e responsabilità. In tutte le mattine in cui Catto pensava di chiudere c'era, infatti, sua moglie a dirgli che avrebbe dovuto continuare perché le cose sarebbero cambiate e una soluzione l'avrebbero trovata insieme: «Lei vedeva questo entusiasmo bambino a cui non riusciva a dire nient'altro se non un incoraggiamento, uno sprone. La propria passione può far bene anche ad altri, io ne ho quotidianamente le prove». Roberto Catto si riferisce a tutte le volte in cui, per strada, magari ad un semaforo, scorge qualche conoscente in sella, lo guarda e si ricorda delle prime volte in cui lo vedeva passare dal negozio: «Qualcuno non conosceva per nulla la bicicletta: si sedeva attorno alle due botti che abbiamo e che sono il centro, il punto di incontro del negozio, e stava ad ascoltare, talvolta interveniva con poche e semplici domande. Giorno dopo giorno, di settimana in mese e di mese in anno hanno acquistato una bicicletta, hanno provato, si sono divertiti e adesso almeno una parte della loro giornata ha a che fare con le ruote, i pedali ed il vento: fosse per andare al lavoro, a scuola o a fare una gita, appena l'aria si scalda, talvolta anche sotto la pioggia d'autunno. Sprigionare entusiasmo è salutare».

Crazy Sport esiste da ventitré anni, un tempo sufficiente perché molte cose cambino. Alla fine degli anni novanta ed agli inizi del 2000, racconta Catto, che era più facile fare gruppo, trovarsi e partire per una vacanza in bici, magari in venti o più persone, ora sono gli eventi a radunare grandi numeri, forse, spiega, è cresciuta l'attenzione alla bici come mezzo, a livello tecnico e meccanico e si è un poco modificato quel genuino stare insieme nato dal caso, a costo di stare stretti in un piccolo appartamento. La bicicletta, invece, non è cambiata, semmai ha aggiunto specializzazioni e forme di interpretazione: dieci anni fa, ci si chiedeva cos'altro si sarebbe potuto inventare, incrementare, oggi si ha la tentazione di farsi la stessa domanda e la certezza che le novità saranno ancora tante, alcune nemmeno immaginabili. Roberto ha voluto sperimentare tutte le varietà di bicicletta e ciascuna ha contribuito a renderlo quel che è oggi, ad arricchirlo di sensazioni ed emozioni che può raccontare ai più giovani che, entrando, lo salutano semplicemente con un "ciao" e lui ne è felice: «La bicicletta da strada ti porta allo Stelvio, ai tornanti, ad imitare i grandi campioni, il gravel per me è essenzialmente viaggio ed esplorazione, è sempre esistito, in fondo, anche quando non se ne parlava così tanto, forse, come una visione, un'idea di pochi, la mountain bike coniuga tutto questo con l'adrenalina, mentre il downhill è soprattutto adrenalina allo stato puro e la bicicletta elettrica la possibilità di un piatto di pasta, un bicchiere di vino e via, ancora in salita, fino in cima».

Il tempo è passato anche su Roberto Catto, non solo perché sono aumentati i chilometri che ha percorso in bicicletta, ma perché è diverso anche il suo approccio con chi arriva da Crazy Sport: «I primi giorni avrei voluto non essere io il negoziante, ricordo che balbettavo appena arrivava qualcuno, ero sempre preoccupato, non mi sentivo all'altezza. Di fatto, è solo questione di esperienza: oggi so riconoscere la tipologia di cliente che mi trovo davanti, capisco se è una persona appassionata di viaggi, oppure di tecnica e meccanica. Per ognuno è differente il discorso che si può fare e la profondità a cui è possibile arrivare. Le persone sono differenti ed è la bellezza di questo mestiere». Alla fine, tutto ritorna all'essere umano, al fatto che siano proprio gli esseri umani ad essere misura di quel che accade, sin da quando, da giovanissimi, mettono piede in negozio e scelgono il «loro primo vero mezzo, un passo decisivo, perché a quel punto vivranno la strada e se saremo riusciti a mettere in loro il seme del rispetto reciproco e della condivisione sarà tutto più facile».

Già dal martedì, al tavolo del negozio, Roberto progetta la pedalata che farà la domenica successiva: è un rito, un'abitudine per continuare a godersi la bici anche nel tempo libero, per non ingabbiarla, per lasciarla libera come è sempre stata e come deve essere. In mente ha una data, il 10 marzo 2031, quando Crazy Sport compirà trent'anni e lui, pensione o meno, lascerà la gestione del negozio a suo nipote che guardandolo ha preso la sua stessa passione e da tempo collabora, portando una ventata di gioventù e novità. Roberto passerà nel locale tra un giro in bici ed un altro, tra una gita in camper ed un'altra, si fermerà a chiacchierare, vicino alle botti attorno a cui si vede il Giro d'Italia, il Tour de France o le Classiche. Al nipote ha già fatto due raccomandazioni: «Prova tutte le biciclette che puoi, non lasciartene sfuggire alcuna e apri la tua mente il più possibile, come i vasti spazi che si vedono in sella: il futuro arriverà solo così». E più di questo davvero non si può dire, sulla strada delle colline del Prosecco, con le Dolomiti vicine e Venezia non lontana.


Riviera outdoor bikeshop, Finale Ligure

Finalborgo è racchiusa, quasi abbracciata, dalle sue mura di sapore medievale, che la proteggono pure dal mare e dal suo sciabordare inquieto nei giorni di tempesta. I mattoni a vista delle case, disposti secondo una precisa architettura, racchiudono una storia antica, simile a quella scritta in vecchi libri, impolverati, in qualche scaffale, dietro una porta che nessuno apre da troppo tempo. Qui, peraltro, le porte sono tutte piccole, molto piccole, somigliano più ad ingressi di cantine, di scantinati, che non di case o di locali: le persone vi camminano accanto e arrivano fino ad una minuscola piazza, un angolino di pace, dove al centro una fontana continua a zampillare acqua . Lì un anziano signore, appoggiato al bastone della sua vecchiaia, saluta un giovincello, pieno della spavalderia bella della gioventù, nella sua tenuta da corridore: nel mezzo di questa scenografia, quei due stanno così bene assieme, come tutta la storia e questi giorni nuovi. Il nostro mondo, stamani, sarà dietro una di quelle porticine che permette l'accesso in uno spazio circondato da volte in mattoni e colori che segnano la strada, dapprima verso un'officina a vista in cui il bancone è un vecchio tavolo da falegname riadattato e cosparso di attrezzi sporchi, talvolta consumati dal tanto lavoro, sui muri sono appese parti di biciclette ormai a riposo, qualche sospensione, qualche tratto di un manubrio, telai storici, foto particolari e alcuni aggeggi inusuali, parti meccaniche inventate e ricavate da chissà quale attrezzo della vita di ogni giorno. Fino ad arrivare ai tavoli del bar, dove qualcuno si siede a bere una birra e a leggere il giornale, mentre in officina la sua bicicletta viene "curata". Le mensole sono costruite con pezzi di forcella e anche la porta della toilette è suggestiva: si chiude da sola, attraverso un martelletto che fa da contrappeso. La piazza là fuori è Piazza Garibaldi, il locale è Riviera Outdoor Bikeshop e già nel nome ci sono il mare ed il vento, la bicicletta e la Liguria.


Le parole di Luca Bondi, ideatore del luogo, aggiungono dettagli del passato, scene della quotidianità, che, con un poco di attenzione, non fatichiamo a riprodurre nella mente, come si svolgessero davanti ai nostri occhi, come se una macchina da cinepresa, dopo averle catturate e memorizzate, le riproducesse su un grande schermo: «Le mie mani, anche da ragazzino, dovevano sempre essere sporche: svitavo e avvitavo i bulloni, smontavo e rimontavo, rompevo, talvolta, dalle macchinine che i nonni portavano la domenica pomeriggio, alla loro pista, sino alla bicicletta. Ho scoperto così la magia del movimento di una ruota: la catena sui pignoni e un semplice tocco al pedale per innescare uno spostamento. L'esplorazione delle mie mani mi ha, piano piano, svelato ogni segreto di una bicicletta». La creatività è qui oppure, forse, nel fatto che non ci sia un solo metodo per aggiustare una bici e che, volendo, è possibile utilizzare tutto, ma davvero tutto per rimetterla in strada, anzi, a Finale Ligure, per restituirla alla terra e alla polvere del fuoristrada di cui questa città di riviera è l'universo: anche delle tubazioni di metallo, dismesse, prese da un reparto idraulico, oppure della semplice bulloneria che non ha nulla a che vedere con la bicicletta stessa. «Sì, una scuola di inventiva, perché il fuoristrada è il regno della velocità e dell'improvvisazione, non c'è molto tempo per riparare un guasto, il "pronto soccorso meccanico" deve essere celere, così tutto ciò che abbiamo attorno diventa possibile "cerotto", "medicazione". All'inizio di una giornata lavorativa questa possibilità fa la differenza: non sai se riuscirai nel tuo intento, ma sai che per provarci dovrai sfidarti, non ci saranno due giorni uguali, due soluzioni uguali. La noia è lontana».

Luca Bondi è partito dall'Istituto Tecnico Industriale della sua città, a cui si recava sui pedali, ed è passato per l'università di Genova, dove studiava ingegneria meccanica e la bicicletta non la vedeva quasi più per questione di tempo e di impegni affollati nelle ore di una giornata: non si è mai laureato, tuttavia, e, quando è tornato a Finale Ligure, aveva necessità di un lavoro, per mantenersi, per diventare davvero grande. Nelle serate parlava di biciclette e dei viaggi in cui accompagnava i turisti, in una delle prime esperienze lavorative, dopo aver fatto il bagnino, mestiere classico delle estati degli studenti, sulle spiagge: «Avevo conosciuto la bici soprattutto dal punto di vista meccanico, essere accompagnatore mi ha permesso di vedere da un altro lato quel mezzo che tanto mi affascina. La bicicletta porta da un posto all'altro, da un bosco ad una strada, da un sentiero ad un ampio viale e in questo tragitto permette la "contaminazione" con luoghi e con persone. Ho un amico che vive in Australia, ci vedremo ogni sette, otto anni, ma ci scriviamo ogni settimana: l'incontro è stato in quei viaggi in compagnia, in quella condivisione, altrimenti l'Australia non l'avrei nemmeno incrociata tanti sono i chilometri a dividerci. Questa è l'altra faccia del ciclismo». Nel 2002, proprio nel momento in cui la mtb era in continua evoluzione nella zona, tutto ciò confluisce nel locale a cui si accede attraverso la minuscola porta affacciata alla piazza con la fontana: «Io sapevo fare questo, mi riusciva abbastanza bene e mi è venuto naturale pensare che avrei potuto essere utile a qualcuno».

Nel via vai di persone qualcuno porta una vecchia mountain bike, di quelle con cui scorrazzava sui sentieri e gustava il piacere di una curva disegnata particolarmente bene, di una discesa adrenalinica, della polvere che si alza in nuvole illuminate dal sole e si appoggia alle gambe e alle braccia, di un tavolino e dell'acqua ghiacciata dopo la fatica. La richiesta spesso è di restituirle nuova vita, dopo che, magari, è stata per anni chiusa in un garage o in uno scantinato, affinché quel signore, anni dopo, possa utilizzarla per andare a fare la spesa o per passare in edicola a comprare il giornale, il quotidiano: «Non diciamo mai di no, cerchiamo di fare il possibile, anche se spiace vedere alcune biciclette dimenticate, però, guardandoci attorno, nel locale, un modo per permettere ancora qualche pedalata lo troviamo sempre, pure se bizzarro, inconsueto». La differenza, precisa Luca Bondi, è netta: ci sono coloro che usufruiscono del mezzo, gli utilizzatori semplici, e coloro che, invece, provano a conoscerlo. Ai primi non interessa pressoché nulla tanto dell'aspetto meccanico, quanto di ogni altro studio che possa riguardare la bicicletta, l'aspetto "culturale" è messo da una parte: la bici serve loro per spostarsi, magari anche per emozionarsi o vivere sensazioni che ricercano, ma non hanno interesse nell'approfondire o nel conoscere. I secondi, invece, magari si fermano a osservare quel che accade dentro l'officina: restano lì con aria discreta, qualche volta fanno una domanda e così capiscono qualcosa in più della bicicletta, che la utilizzino da molto o che siano ai primi approcci non cambia nulla, in fondo. «Anche il nostro modo di rapportarci cambia: nel primo caso non servono spiegazioni, non sarebbero ascoltate, non sarebbero utili, nel secondo, invece, sono essenziali. Vedi, la bicicletta non resta ferma sui rulli, in una stanza, ma si sposta, viaggia tra luoghi ed è quello che incontra in questo viaggio ad essere la variabile, l'incognita. Quando consigliamo una bici o quando la scegliamo deve essere questa la nostra bussola per orientarci e decidere consapevolmente. Qualcuno lo capisce, qualcuno no: noi dobbiamo continuare a crederci».

L'empatia, in poche parole. Una qualità che, a differenza di altri, non si può mai davvero essere certi di avere acquisito, perché essere empatici significa comprendere quel che la persona cerca, quel che vuole, capire appieno i suoi bisogni, i suoi desideri, le necessità e le paure: «Capita di riuscirci, è vero. Ma dobbiamo essere sinceri e ammettere che alcune volte non riusciamo proprio ad arrivare dall'altra parte, che questo dialogo non si crea e la bicicletta si cerca da un'altra parte. Non è solo una questione di vendita, spiace perché per chi fa questo lavoro il rapporto umano è al centro». Il bar è parte fondante di questo discorso: una decina di anni fa non erano molti i locali a tematica ciclismo che offrivano anche ristorazione, Riviera Outdoor fu uno dei primi a portare questa innovazione e fra queste mura c'è ancora un sottile orgoglio. Ogni tanto, Luca dispone le sue bici su un cavalletto, ne osserva il telaio, ripensa ai cambiamenti che ha apportato, alle migliorie che ha ricercato per i suoi clienti e aspetta che siano altri occhi a vederle, a farsene un'idea, a giudicarle: anche quella è una prova nel suo lavoro, capire se i suoi gusti coincidono con quelli delle persone che vanno a trovarlo, se riesce a mantenere una sintonia. Se accade si sente soddisfatto e ricomincia a pensare e a programmare.

Talvolta il telefono o il computer gli ripropongono delle vecchie fotografie, scattate mentre accompagnava altri ciclisti in viaggio: è un flash e basta per ritornare esattamente in quell'istante e collegarvi una miriade di storie e ricordi che parevano dimenticati invece erano solo in attesa di essere riannodati, perché la bicicletta fa anche questo, costruisce ricordi ed immagini, forse immaginari. Riviera Outdoor continua a costruirli, giorno dopo giorno; da quando era poco più di un'officina, a quando si è ingrandita, ha aggiunto accessori, scarpe, abbigliamento al proprio interno, ha aggiunto capacità e talenti, ha cambiato luogo, un paio di volte, ma non animo, predisposizione. Mentre là fuori, fra i mattoni e le mura, l'aria di mare fa il suo giro, diversi ciclisti, vestiti di tutto punto ed equipaggiati sono già pronti per un nuovo giro. Il signore con il bastone, ora, è comodamente seduto, a leggere il giornale e a guardare il mondo che passa, la primavera che arriva, e quel ragazzino in bici chissà che strade sta percorrendo.


Olivier, Parma

In Strada Luigi Carlo Farini 15, a Parma, varcato l'ingresso di Olivier, gli occhi si appoggiano istintivamente ad un telo, sul muro. Si tratta, evidentemente, della pubblicità di una nota marca di jeans, a colpirci, oltre alla dimensione del manifesto, però, sono, soprattutto, delle minuscole goccioline di vernice bianca, ormai essiccata che scorgiamo chiaramente e che restituiscono l'idea di qualcosa di stropicciato, talvolta dimenticato, su cui il tempo è passato, a tratti, in maniera inclemente. Carlo Alberto Caruso ci fornisce presto i dettagli di quella sensazione: il telo è l'originale di una vecchia pubblicità Levi's, risalente agli anni quaranta del novecento e nei locali di Olivier è arrivato portato da un signore, un cliente, che lavorava per Fiorucci. Lo teneva in soffitta e quasi non ne ricordava l'esistenza: la vernice, invece, deriva dai giorni in cui gli imbianchini l'hanno utilizzato per proteggere l'arredamento di un sottoscala durante la tinteggiatura. Fino a che non è stato donato a Olivier e su quella parete, dopo tanti anni, è tornato alla sua prima funzione: molti visitatori ne restano colpiti, cercano Carlo e Alessandro, chiedono informazioni e loro iniziano a raccontare la sua storia, dando particolare valore al fatto che si tratti di un regalo. Altre volte, le domande riguardano una scarpa, esposta in bacheca, sopra una mensola. Si tratta di una Red Wing, una calzatura nata nel 1905, nel Minnesota, negli Stati Uniti d'America, e strettamente legata a varie tipologie di mestieri, in quanto ideata originariamente proprio per questi: parliamo di minatori, postini, lavoratori dei campi, delle fattorie. Solo successivamente sono state ideate due linee, di cui una per l'uso comune, quotidiano. Quella che vediamo noi appartiene ad un lotto numerato, giunto in Italia qualche anno fa, venduto quasi tutto, tranne quell'unico esemplare che, oggi, resta come ricordo, come souvenir. C'è chi la vorrebbe acquistare, ma la risposta di Carlo è sempre la stessa: «No, è troppo bella. Resta qui».

In fondo, in questi pochi minuti di conoscenza, Caruso ci ha narrato delle storie, nulla di più e nulla di meno. Ci dirà poco dopo che è questo il tratto caratterizzante del suo lavoro, nonostante Olivier sia, dal 1999, anno della sua nascita, un negozio di abbigliamento: «Dietro a ogni capo c'è una storia lunga, certe volte molto lunga, e a noi piace raccontarla. A non tutti piace e a non tutti interessa, bisogna spiegare perché lo si fa e non stancarsi di ripeterlo, anche quando sembra di non essere compresi». Il motivo ha a che fare con l'affettività che riguarda le persone ma anche gli oggetti con cui vengono in contatto: la concezione corrente è, spiega Caruso, che un capo d'abbigliamento o una scarpa si acquistino, si utilizzino, per un tempo sempre più breve, e poi si gettino via, in realtà può esserci di più, in quanto tutto ciò che «si porta addosso» fa parte, in un modo o nell'altro, del percorso di ciascuno di noi, invecchia assieme a chi lo veste. «L'immagine che utilizzo io è molto semplice: pensate di aprire un armadio e di trovare quella maglietta, quella camicia, quella felpa o quella scarpa di dieci anni prima. A quel punto si liberano una serie di reminiscenze. Così facendo non si segue la moda, si è "fuori stile", forse, perché si cerca un proprio stile». L'inizio, quello del 1999, è stato dato da Alessandro, in un altro punto della città, Carlo è subentrato nel 2015 e, nel frattempo, Olivier si è spostato in una zona più centrale di Parma; una vetrina anziché due, ma tutta la vita che pullula attorno. Il nome, in realtà, nasce quasi per caso, in quanto l'unica cosa decisa era che dovesse essere un nome inglese. Alessandro è sempre stato un appassionato di cricket e ricordava il nome di uno dei suoi giocatori preferiti di sempre che si chiamava proprio così, proprio Olivier. L'arredamento interno, invece, è stato conseguenza di una scelta ben precisa.

«La traccia di base è minimalista, ovvero poche mensole, poche cose, bianco, pulito, ma il lavoro occupa una fetta importante delle nostre giornate e, mentre lavoriamo, cresciamo, allora il negozio doveva crescere con noi, invecchiare al nostro stesso tempo, arricchendosi via via di tutto ciò che, nel frattempo, ha significato qualcosa: per esempio quel telo, quella pubblicità o quella vecchia scarpa». Dal 1999, tra l'altro, sono davvero variate moltissime cose, sia dentro che fuori, nella società: in quel momento, erano i vestiti, l'abbigliamento la forma principale di svago, il regalo che ci si concedeva per staccare dalla quotidianità, oggi, invece, il tempo libero si è popolato di molte altre possibilità e priorità, per cui anche questo mestiere è diventato più complesso. Carlo Alberto Caruso trova in questa sfumatura il principale punto di contatto tra il suo mondo e la bicicletta: «Dove c'è fatica, non si può restare se non si trova anche una passione, un motivo. Se ci si pensa bene, perché scalare una montagna in bici, col fiatone, sudando come matti e col fiato che se ne va chissà dove? Il motivo è quella cosa che ci prende e che, in mancanza di altre parole, chiamiamo passione. Il mio lavoro è diventato molto difficile, non avrei altri motivi per continuare a sceglierlo ogni giorno, se non fosse per quello che provo nei suoi confronti. Simile a ciò che sentivo quando ho iniziato a lavorare con mio padre, alla fine dell'università». Carlo non è di Parma, bensì della Bassa e quando racconta del modo di essere dei parmensi lo fa con disincanto, dapprima scherzando su una presunta rivalità, «sono "fighetti", non si fanno sfuggire nulla», e, successivamente, andando a pescare nelle ragioni più profonde di quelle caratteristiche: «Parma è un piccolo gioiello. Una piccola città in cui tutti si conoscono, c'è e c'è sempre stata bella cultura, bei parchi: la gente ci tiene a preservare questa bellezza, quindi è attenta, se ne prende cura e non si lascia scappare nulla». A chi vuole conoscere meglio i suoi dintorni, Carlo suggerisce il classico giro che lui stesso fa in pausa pranzo, in tutto quarantatrè, quarantaquattro, chilometri, andata e ritorno, partendo da via Farini, diretti verso la salita di Barbiano: un'ascesa delicata, piacevole, che permette una vista di raro pregio e che conduce anche al Castello di Torrechiara.

Ma Olivier e le biciclette, per qualche motivo, sono intrecciati a doppio filo: Carlo e Alessandro sono da sempre pedalatori e il giovedì pomeriggio, quando il negozio è chiuso, spesso si allontanano dal centro e vanno all'avventura. «Piano, piano, qualche nostro amico si è unito a noi, finchè non abbiamo pensato che doveva essere un'occasione aperta a tutti, fino a chiamarle "Oliver Social Ride": delle uscite assieme, per far gruppo, per farsi compagnia e, magari, fermarsi a bere una birra, senza guardare i chilometraggi, i watt e la velocità». Quel gruppo è presto diventato di dieci, venti, trenta, fino a quaranta persone, che chiedono, si informano e aspettano il giovedì per quelle ore di svago, magari indossano la maglietta o la felpa ideata per omaggiare il momento, il cui ricavato è stato destinato ad una associazione a favore della ricerca sulla SLA. Carlo e Alessandro si posizionano uno davanti e l'altro dietro il piccolo plotone che si va formando, cercano di tenerlo unito, compatto e, di tanto in tanto, provano a istruire chi non è così abituato ad uscire in bici. Spesso sono piccole indicazioni che, però, si rivelano fondamentali, talvolta sconfiggono vecchie abitudini che si pensava non sarebbero mai cambiate: «Parlo di un amico che non ha mai indossato il casco in bicicletta e mi ha cercato per partecipare a queste ride. L'ho avvertito: senza casco, non puoi. Credetemi, è andato ad acquistarlo il giorno stesso e non l'ha più tolto, gesto per cui anche sua moglie ci ringrazia. Cose come queste succedono e per noi fanno la differenza, come quando vediamo che l'essere in gruppo rende tutti più attenti, quasi a proteggere anche la persona che si ha accanto». Qualcuno arriva anche da lontano, da Cremona, dal Veneto, altri, invece, fanno ritorno: in sella, oppure in negozio. Si fermano a leggere qualche libro, qualche rivista, appoggiate sul bancone o in vetrina, e da lì nasce una conversazione.

Parma è anche città di fiere, vi arrivano, quindi, anche persone dall'esterno e spesso passano in via Farini, si affacciano da Olivier, magari non acquistano nulla, non cercano nulla, ma vogliono salutare, passare a vedere, nel tempo della loro assenza, quante cose sono cambiate e quante sono rimaste le stesse: «Non sono visite casuali, si capisce molto bene da un particolare: spesso si ricordano dettagli di conversazioni avute mesi o anni prima. Ti chiedono di quell'idea, di quel progetto, di quella preoccupazione che avevi oppure riprendono fatti che avevi narrato e che molti avrebbero dimenticato nell'insieme di tante parole. Fa piacere perché restituisce la sensazione di essere ascoltati». A quelle fiere, a Parma o altrove, partecipano spesso anche Alessandro e Carlo, alla ricerca di qualche capo nuovo, di qualche novità che, pur inserendosi nella linea della continuità, della storicità, possa essere in armonia e ben figurare: «Soprattutto in periodi difficili, bisogna saper scegliere, selezionare, senza lasciarsi prendere dalla foga, per il bene dell'attività. Bene, la cosa che provo tutt'oggi per questo mestiere, spesso, mi rende difficile questa razionalità. Ciò che ti emoziona si vede sempre, quando mostri, parli, racconti, per quanto tu possa trattenerti».

Dopo un quarto di secolo di storia e di racconti, ricordi, aneddoti, Olivier, quando guarda avanti, al futuro, non cerca molto, non desidera grandi cose: ciò che spera è, in realtà, collegato a quella voglia di stare assieme che contraddistingue la sua evoluzione: «Sì, vorremmo venissero a trovarci ancora più persone. Non è tanto un discorso economico, sebbene un lavoro sia fatto anche di questo, piuttosto è una questione di comunità. Più siamo, più bello è». Non serve dire altro. Sarebbe futile, il quadro è completo.


Torto Cicli, Alba

Federico Torto era ancora un bambino, ma i suoi pomeriggi li trascorreva già in quel negozio di Corso Piave 93, ad Alba: ad un certo punto metteva da parte i libri e si guardava attorno, fra le biciclette e le attrezzature, qualche volta si affacciava dalla finestra e restava a fissare quel che accadeva dall'altra parte del vetro. All'orizzonte, si distinguono le colline del Barolo e del Barbaresco, una via di fuga affascinante per gli adulti, mentre le papille gustative già riconoscono le note fruttate e floreali delle uve, quelle speziate, magari, e gli occhi immaginano il colore rosso rubino, talvolta granato, nel calice, fra le mani. A un bambino basta molto meno, a Federico, ad esempio, bastava stare nei pressi del bancone e, quando qualcuno apriva quella porta, correre nel retro dell'officina e chiamare il padre che, spesso, era lì a lavare altre biciclette. I più piccoli si rendono utili così, si sentono grandi così e, nel frattempo, mentre imitano i genitori o i nonni, crescono davvero e, un giorno, anni dopo, sono dall'altra parte del bancone a raccontare la lunga storia, ben quarant'anni, dal 1983, di Torto Cicli. In volto e nelle parole, un'umiltà giovane e un pizzico di ritrosia, mista al forte senso di responsabilità tipico delle strade che si incontrano e si seguono, senza che nessuno le abbia imposte, senza, forse, averle nemmeno mai scelte del tutto, ma sicuri che siano quelle giuste. Così è successo, fra quelle mura, a Federico Torto.

«I tempi sono cambiati talmente tanto, sia a livello di società che a livello economico, che la responsabilità è sempre più forte. Non credo che potrò mai fare meglio di mio padre, forse non potrò nemmeno mai eguagliare quello che lui ha fatto. Una volta, i sacrifici erano molti, ma, assieme, c'era anche una sottile spensieratezza ad accompagnarli: di questi tempi, la spensieratezza è quasi impossibile da trovare e questo complica le cose. Nel mio piccolo, sono contento di aver portato avanti l'attività, di non averla abbandonata, di non essermela dimenticata come, purtroppo, succede tante volte. Capita che i negozi chiudano o che vengano messi da parte: non l'ho fatto e succede ancora di andare in quel retro officina e chiamare papà, quando qualcuno entra da quella porta. Come ai vecchi tempi». Tanti di questi pensieri svaniscono appena mette le mani su una bicicletta: l'aspetto meccanico resta quello che più gli piace, quando si approccia a una bici, da lì arrivano le endorfine e la dopamina che lo fanno stare bene e lo gratificano mentre si prende cura del mezzo e fa manutenzione. Il mezzo è un oggetto pieno zeppo di libertà: «Subisco il fascino di quella libertà totale. Una bicicletta non ha serbatoi, non richiede carburante, bastano le gambe fresche, riposate o stanche ma ancora ostinate, ed è possibile andare ovunque, senza alcun limite, nei paesi vicini o in quelli lontani, dietro le montagne». Suo padre Costanzo, probabilmente, ha iniziato anche per questo, per una voglia sottile ma profonda di trasmettere questa idea alle persone che incontrava. Pensate che gestiva una squadra di cicloamatori: bici e divise tutte uguali e anche qualche ex professionista che, dopo la carriera, pedalava con loro: oggi succede spesso, ai tempi del signor Torto era qualcosa di innovativo, da pionieri.

Qualche volta, il signor Costanzo si rivolgeva a Federico, proprio nei momenti in cui stava riparando qualche bicicletta: «Lavora bene. Ricorda che serve lo stesso tempo a fare un lavoro fatto bene od un lavoro fatto male, ma di quello fatto bene potrai essere fiero. Impara dall'esempio perché è da lì che vengono gli insegnamenti più importanti, prima si guarda, si ascolta e poi si applica, cercando di stare il più attenti possibili ai dettagli, che fanno la differenza». Il loro rapporto si è sincronizzato nel tempo e ciascuno, con le proprie caratteristiche, ha cercato di completare il lavoro dell'altro. Al suo ingresso a titolo definitivo nel negozio, nel 2011, Federico Torto ha pensato alle novità, a modernizzare, ad aggiungere qualcosa, a cambiare qualcos'altro, nel segno dei tempi che gli corrispondevano, che viveva, e che si riflettevano anche nel settore biciclette: era aumentata la professionalità, la base dell'oggetto era la stessa, ma nei dettagli c'era molta più tecnica, così ogni attrezzatura diventava più delicata e anche per la manutenzione serviva un'attenzione finissima. Si andavano a toccare biciclette provenienti direttamente dal futuro, era davvero difficile, impegnativo.
Suo padre gli lascia spazio, fa in modo che la gestione delle novità sia davvero "una cosa sua": «Papà lo ha fatto nel modo più onesto possibile. Certe volte si lascia un incarico a qualcuno più a parole che nei fatti, si fa fatica a fidarsi davvero dei cambiamenti, delle innovazioni. Allora resta la paura di sbagliare, il giudizio in agguato, e non si lavora tranquillamente. Mio padre si è sempre fidato delle mie idee e me lo ha dimostrato, permettendomi di renderle reali, di applicarle».

Il locale, in cui questa storia è cresciuta e con lei Federico, è medio grande, l'idea è quella di un restyling, a breve: il colore che fa da sfondo è il celeste, una sorta di richiamo alle biciclette Bianchi. Lo spazio espositivo è abbastanza semplice, le biciclette sono esposte frontalmente, sulla sinistra, per ogni tipologia, da quelle che domano le colline dei vini a quelle a pedalate assistita, su un soppalco, invece, troviamo lo spazio dedicato ai più giovani, dai tre ai quattordici anni, mentre sotto c'è il reparto abbigliamento.
Proprio guardando al soppalco, Federico Torto pensa alla scelta della prima bicicletta, qualcosa di cui lui è spesso testimone, un momento da ricordare, ma anche una grande responsabilità: «Io dico spesso che chi va in bicicletta è coraggioso e dobbiamo essergliene grati, ringraziarlo perché affronta da solo, ogni giorno, una realtà che spesso si disinteressa di lui. Chi pedala cerca di sconfiggere questa forma di menefreghismo e di "violenza". La frase tipica è: "Non ti ho visto". Mi sembra un'affermazione davvero grave: significa che, come automobilista, non contempli nemmeno la possibilità della mia presenza in bici. Di più: ti fai forte della tua auto e ignori i più deboli sulla strada, inveendo contro un ciclista per un secondo di attesa, ma portando pazienza se tocca rallentare per un trattore. Nella nostra società, un ciclista pare quasi un elemento di disturbo. Perché? Qualcuno può spiegarmelo? Sì, a livello urbano c'è molto da fare e la responsabilità spaventa. Ci sono le strade sterrate, gravel, noi consigliamo anche questi percorsi, ma un ciclista non può dover fuggire dalla strada per sentirsi sicuro. Non è giusto. Bisogna continuare con la formazione, sempre più». Le colline, quelle ordinate, pulite, della zona di Alba, sono per eccellenza luogo di pace e tranquillità, fuori dal caos della quotidianità, Torto ci indica i percorsi verso Monforte e verso La Morra, i suoi posti preferiti. Il consiglio, spesso, ai turisti, è quello di viaggiare con una e-bike: le pendenze non sono sempre agevoli, un piccolo aiuto è la soluzione ideale per non privarsi del vento in faccia e della continua scoperta che rappresenta la velocità di una bicicletta nell'osservazione, durante un viaggio.

Muovendo altri passi, si arriva all'officina, nel retro del negozio, ma ben visibile: «In realtà è la parte centrale della nostra attività, perché è qui che possiamo fare la differenza, che possiamo rompere gli schemi. Le porte del cambiamento sono le porte dell'officina. Quando ha iniziato mio padre, le bici portavano il nome di chi le produceva, poi è stato il momento dei brand e della promozione dei brand. Ora anche i brand sono consolidati, ma diventano asettici se non si mette al centro la persona. Allora è spesso il luogo in cui si compra la bicicletta a fare la differenza. Un posto in cui si racconti la storia di quell'oggetto, dove lo si provi e lo si racconti, lo si descriva. La persona è il fulcro di tutto». Allora da Torto Cicli qualunque prodotto viene testato, d'estate e d'inverno, e, successivamente, narrato: la tesi è che l'affezione nei confronti della bicicletta aumenti sempre più conoscendone la storia, un poco come accade con le persone che entrano ed escono da una casa o da un negozio. Una questione di confidenza, insomma.


Torto Cicli vuole essere tutto questo: un negozio che somigli ad una casa, quindi non più solo un negozio ma un punto di ritrovo, di aggregazione, in cui la porta che Federico osservava da bambino si apra sempre di più ed accolga le persone che sono là fuori, con le stesse idee, magari con qualche sogno comune e la voglia di parlarne, di scambiarsi prospettive e desideri, una sorta di piccola comunità: «Mi piace il verbo "umanificare". Cerchiamo di umanificare l'acquisto di una bicicletta. Tutte le persone raccontano quel che cercano, il nostro compito è capirlo e lavorare perché, fuori da qui, possano vivere un'esperienza che sia la più simile possibile a quella che avevano in mente». Al centro di quel punto di incontro sempre la bicicletta e varie sfaccettature di libertà: «Qualcuno la usa per gareggiare, qualcuno per un viaggio, altri semplicemente per una gita, la domenica mattina. La bicicletta è tutto questo e molto altro. Fa bene alle persone stesse, mentre la utilizzano, e fa bene al mondo, perché non inquina, perché è ecologica. In ogni spostamento permette un considerevole risparmio di tempo e tutti vogliono avere più tempo. Insomma la bicicletta è un oggetto che entra sempre più in vari ambiti della nostra quotidianità, che deve entrarvi. Per questo è così ricercata e su di lei c'è sempre più attenzione».
Tutto intorno ancora le colline, un cliente arriva, chiede un pezzo a cui Federico Torto aveva lavorato nei giorni precedenti, suo padre lo cerca, gli chiede qualcosa, uno scambio di informazioni e si ritorna dal ciclista che aspetta, guardandosi in giro, con curiosità: un gesto semplice, basilare, profondo ed immutato, che si ripete uguale. Fino a quando ci sarà una bicicletta e fino a quando ci sarà un negozio di biciclette.


Bike Line, Bagnacavallo

«È una bottega, un piccolo negozietto, molto intimo, quasi romantico, dove la gente non arriva solo per una riparazione o per un acquisto, ma, ancora prima, per raccontare un'uscita, per parlare di bicicletta e biciclette, spesso per riempire l'attesa tra un appuntamento di lavoro e un altro. Mentre i fiori di maggio pullulano nei campi e pendono dai vasi, sui balconi, qualche sedia e, al nostro tavolino, si seguono le cronache del Giro d'Italia, quando, invece, luglio imbiondisce le spighe del grano, le parole arrivano dal Tour de France. Queste pareti non conoscono il silenzio, perché il brusio ed il continuo vociare sono linfa vitale, che corre in ogni nervatura, simile a una pianta in una primavera eterna. Questa bottega è fatta da tante cose, soprattutto, però, dalle persone, che da quel tavolo si alzano, aprono il frigorifero, prendono una birra gelata, in estate, se la versano e, con ancora l'amarognolo a pizzicare il palato, continuano a raccontare». Siamo a Bagnacavallo, in Emilia Romagna, in provincia di Ravenna: il paese del dolce di San Michele, una base di pasta frolla, rivestita di gelatina di frutta o ricoperta con panna, poi decorata con disegni geometrici costruiti con mandorle, noci, pinoli e nocciole, come ci dice un signore, interpellato per cognome o, forse, per soprannome (tal Capucci, assonante nel cognome al ben noto ciclista Chiappucci) da Fabio Conti, al bancone di Bike Line di Mattia Zoli, in via Giuseppe Garibaldi 74. Se cercassimo su un vocabolario Bike Line, troveremmo proprio il lemma che Fabio ci ha esposto poco fa.

La terra è una terra legata al ciclismo, radicato, storico, eroico: un fatto che i nonni trasmettono ai nipoti, ad accompagnarli tra l'infanzia e l'adolescenza, tutti ne parlano e tutti sanno che, poco lontano da qui, a Cotignola, è nato Alan Marangoni. Bagnacavallo è un paese vivo, dinamico, probabilmente il posto giusto per una persona come Fabio Conti che ama la natura e che crede «nell'essenzialità della bicicletta, anche dal punto vista meccanico, un aspetto che, a differenza delle auto, conosciamo approssimativamente tutti, perché quasi tutti abbiamo provato a metterci mano, nella sua capacità di riportare ad uno stato più genuino, sconfiggendo la continua frenesia in cui siamo costretti a vivere ad una velocità accelerata che non è quella degli esseri umani. In bicicletta respiro, sento gli odori, i profumi, sto in mezzo ai boschi, torno bambino. Certo, la bicicletta è essenziale anche nella meccanica, nelle sue componenti, ma l'essenzialità permea tutto ciò che la riguarda». La storia di Bike Line inizia ad essere scritta, da queste fondamenta, nel 2020, nel periodo della pandemia: assieme a Fabio Conti c'è Mattia Zoli, in bicicletta sin da bambino, alle gare, nel dilettantismo, per arrivare ai viaggi ed alle avventure. Quel locale, in fondo, fa come le biciclette che vi sono ospitate, come qualunque bicicletta, come quelle su cui pedala anche Conti: permette di riscoprire il primo contatto con gli altri, dopo l'isolamento, una ritrovata socialità, già a partire dal 2021, fino ad evolversi, in maniera naturale, non pensata o studiata, a diventare quella linfa vitale di cui accennavamo ed a formare, nel tempo, una comunità. «La bicicletta non può essere associata ad una sola idea, è molto di più, e, più pensiamo di conoscerla, meno torniamo vergini rispetto al suo incontro, più perdiamo occasioni. Chiunque sa rispondere ad una domanda su cosa sia una bicicletta, però molte sono risposte incomplete, che non prendono in considerazione tutte le possibilità: è un mezzo di trasporto, prima di tutto, anche se spesso non la pensiamo come tale, ma è anche un mezzo per fare sport, attività fisica, è molto altro, è tutto, azzeriamo le idee che già abbiamo e ripartiamo da zero, forse, allora, scopriremo tutto quel che c'è fra la catena, i freni, i raggi e tutti gli ingranaggi».
A questo azzeramento e ad un nuovo inizio, contribuiscono senza dubbio gli eventi che Bike Line organizza e quelli a cui partecipa: in agenda, ad esempio, Veneto Gravel e Tuscany Trail.


La vigilia è preceduta da tutta una serie di incontri in preparazione, sia a livello di allenamento che di nutrizione, ma anche a livello tecnico, il cambio della catena o della camera d'aria, supporto, quasi psicologico, per i dubbi che, ovviamente, assalgono alla vigilia di una prova a cui, magari, il fisico non è abituato, oppure, semplicemente, laddove si teme la valutazione, il giudizio, anche se ci si sta divertendo: «Ora accade meno, bisogna riconoscerlo, ma parte delle remore di alcune persone nel mettersi in sella erano, e talvolta ancora lo sono, date dall'immaginario dell'atleta perfetto, con un fisico impeccabile, inavvicinabile, a tal punto che, per evitare di "sfigurare", non sentendosi all'altezza, si evitava a priori di uscire in bicicletta. Questo scenario è stato molto ridimensionato dall'avvento del gravel, una disciplina che, pur comportando fatica e sacrificio, accomuna una vasta platea con caratteristiche differenti». La bicicletta, confessa Fabio Conti, sulle orme di Alfredo Martini, è amicizia: si progettano lunghi giri, chilometri e chilometri, con chi ci è già amico ed allo stesso tempo si conosce chi ancora ci è sconosciuto fino a diventare amici.
La bicicletta è anche sincerità, nulla è più sincero e onesto della fatica, così anche il mestiere di chi ha a che fare con le biciclette deve comprendere questo elemento, sin dal primo incontro, varcata la porta del locale: «All'inizio essere sinceri può fare paura, perché chiunque arrivi qui ha un'aspettativa, probabilmente anche un'idea abbastanza precisa della bicicletta che vorrebbe. Noi dobbiamo avere l'onestà di dire se, filtrata da ciò che chiediamo e dalla nostra professionalità, la scelta del cliente sia corretta per lui oppure no. Talvolta ci si illude, si desidera quel che non fa per noi e, se nessuno ci mette in guardia, può diventare un problema. Noi lo diciamo, sul momento c'è anche il rischio di perdere il cliente, va corso. Ne vale la pena a livello etico e, siccome comunque non facciamo filosofia ma commercio, anche a livello commerciale. Forse la persona in questione andrà altrove, ma, poi, tornerà e la fiducia, costruita su quella sincerità, sarà più forte». Dal negozio parte una sorta di traccia, di percorso permanente, un giro veloce per chiunque voglia mettersi alla prova, dal sito, inoltre, è possibile accedere ad un itinerario di circa trenta chilometri, un'ora e un quarto di pedalate, con partenza e ritorno a Bike Line e lunghi tratti tra le valli e le colline romagnole, denominato "Scaramello".


Le strade sono tante e portano ovunque, come le biciclette, ma la realtà ha sempre più spigoli di quelli immaginabili: «Pedala la signora che va a comprare il pane, pedala il ragazzino che va o torna dalla scuola, qualche difficoltà in più si riscontra con le distanze maggiori, il problema principale resta, anche se duole dirlo, la mancanza di infrastrutture che rende difficile muoversi in modo sicuro e confortevole. Certo, anche il rispetto è un punto, ma su quello non abbiamo grosse chiavi per agire, se non mettendoci nei panni dell'altro, visto che quasi tutti siamo sia ciclisti, che automobilisti, che pedoni. L'astio che vedo sulle strade è quanto di più assurdo possa esserci». Il pensiero costante ogni volta in cui si mette qualcuno di nuovo in sella, in cui un giovane acquista la sua prima bicicletta ed inizia a progettare viaggi ed avventure, è proprio rivolto a ciò che potrebbe accadere sulla strada, a ciò che chi pedala già conosce, purtroppo. Fabio Conti ha vissuto questi dubbi quando la fidanzata ha iniziato ad andare in bicicletta e a fare uscite in solitaria: «Le prime volte che viaggiava da sola ero in pensiero, purtroppo conosco le nostre strade e, quindi, pongo particolare attenzione ai pericoli».


La tematica della parità di genere è presa in considerazione da Conti che la segnala come uno dei punti principali per il futuro delle uscite in sella, della comunità, ma, a dire il vero, del ciclismo stesso: «Per alcuni anni si è portata avanti l'idea del ciclismo come "uno sport da uomini”. Che fesseria! Per fortuna superata, sconfitta, sicuramente basata sull'ignoranza. Però, almeno da noi, mi sembra che siano meno le donne che pedalano: se ho un desiderio è che questo gruppo si allarghi, è importante. Mi piacerebbe che chiunque passasse di qui e volesse iniziare a pedalare o a viaggiare in bicicletta ci provasse, chiedesse, si mettesse in gioco. Noi siamo qui».
Il tempo in negozio, in effetti, è sempre di più, le pedalate si sono ridotte e anche quando si va in bici, nei giri organizzati o negli eventi, il pensiero che si tratti di lavoro, le responsabilità connesse sono sempre presenti, forti, a tratti invadenti, ma il lato bello continua a prevalere, su e giù dalla sella.


Una sfaccettatura che ha a che vedere con i segreti. Sì, i piccoli segreti che ognuno di noi ha, spesso riguardanti sciocchezze della vita quotidiana, che, tuttavia, custodisce gelosamente e racconta a pochi, pochissimi, spesso solo agli amici più intimi: «Dico sempre che, nel nostro ruolo, dobbiamo ricordarci un sacco di cose: ci sono clienti che, a casa, non dicono o non vogliono dire di aver acquistato una bicicletta, altri, invece, cercano di non dire alle compagne o alle moglie il vero prezzo della bici. A quel punto, siccome il paese è piccolo ed il locale è frequentato da tutti, noi non dobbiamo confonderci, per non creare litigi. Qualche volta, invece, contribuiamo pure a risolvere qualche piccola discussione. Sai, forse è una delle parti più belle del mio lavoro». Quei minuscoli segreti, alla fine, sembrano essere sparsi nell'aria, un poco per tutto il negozio, quella bottega, piccola, intima e romantica, a Bagnacavallo, nel paese del dolce di San Michele.


Tracce Bike Shop, Genova

Potrebbe essere una sera, una delle tante, in cui Genova ed il suo mare sono avvolti nel buio. Genova in un ritratto, come la narrava Giorgio Caproni, nella notte la pensiamo così: "Genova di solitudine, straducole, ebrietudine. Genova di limone. Di specchio. Di cannone. Genova da intravedere, mattoni, ghiaia, scogliere. Genova grigia e celeste. Ragazze. Bottiglie. Ceste. Genova di tufo e sole, rincorse, sassaiole". Le finestre delle case sono quadri illuminati e chissà cosa accade dietro le tende, mentre il mare è mosso. Chissà la felicità, la paura, la stanchezza ed i pensieri. Chissà il giorno che nascerà, il domani, ora dov'è, come suona o risuona alle orecchie, come si compone nell'immaginazione. Da qualche parte c'è Marco Bragagnolo, già nel letto, è una delle sere in cui il sonno non vuole arrivare, turbato da qualche preoccupazione: «Ti giri e ti rigiri nel letto, non funziona. Qualcuno conta le pecore in questa circostanza, ognuno ha i propri trucchi. Personalmente mi visualizzo in bicicletta, da solo, tranquillo, con una leggera brezza che mi viene incontro, magari sull'Alta Via dei Monti Liguri, dove compaiono i pascoli e la natura regna sovrana. Riempio questa situazione di dettagli e, lentamente, le braccia di Morfeo mi avvolgono». Qualcosa di simile allo stare sdraiati sul letto, occhi al soffitto, dopo il click che spegne la luce in camera, a pensare ad un amore per ritrovare serenità. La bicicletta è un amore per Marco Bragagnolo, un amore nato presto, forse un poco "immaturo", o solamente diverso, più forte, toccante, com'è nell'adolescenza, ed evolutosi negli anni, cresciuto con lui, migliorato come un buon vino, non più quel che "strazia", che toglie la fame, ma che si deposita e resta.

«Era un sentimento morboso, che, dapprima, aveva molto a che fare anche con l'estetica dell'oggetto bicicletta, che mi affascinava, mi ammaliava. Mi piaceva andare a pedalare e su quell'istante si è costruito quel che c'è ancora oggi, perché quando prendo la bicicletta percepisco qualcosa di simile ai superpoteri. A cinquantotto anni posso ancora alzarmi dieci metri sopra il terreno e isolarmi da tutto il resto, dimenticarlo, metterlo all'angolo. Non servono grandi giri, anche il bike to work è sufficiente». La prima bicicletta è quella acquistata con tutti i risparmi di un'estate di lavoro, ai tempi della scuola, quella che pareva bellissima, unica, invece, con gli occhi degli adulti e con lo sguardo di oggi, era davvero modesta, "un cancello", come si dice in gergo ciclistico. La prima mountain bike, invece, è arrivata all'inizio degli anni novanta, «quando prendevo e mi rifugiavo nei boschi a pedalare, per, poi, finire a fare portage, a portarla in spalla quella bici perchè, ad un certo punto, non avevo la forza per spingere sui pedali». Così, sulla terra, c'erano le orme della sua camminata e le tracce incise di quei copertoni. Traccia è una parola chiave, in questa storia, non solo perché "Tracce Bike Shop" è il nome del negozio di Marco, in via Monte Grappa 26r, a Genova. Si tratta di una parola importante perché può essere declinata in più modi: traccia come segno, come orma, come percorso da seguire, come indizio di un qualcosa da cercare, come ispirazione. Proprio per questo motivo Marco è legato a quel nome anche se, a dire il vero, non l'ha ideato lui, bensì il suo socio dei primi anni di attività, all'inizio degli anni duemila, «in un vero e proprio buco di trenta metri quadrati, con officina e abbigliamento all'interno». Bragagnolo aveva iniziato a lavorare in una videoteca e, nel tempo, anche quella era diventata una passione, ma il richiamo del primo negozio di biciclette a Genova era irresistibile: così forte da recarvisi sempre per dare una mano, appena poteva, ma i tempi non erano ancora maturi. Giusto qualche anno, la cessione della videoteca, un lavoro da rappresentante e questa nuova realtà che permetteva a quelle farfalle nello stomaco di trasformarsi in un mestiere, con al centro la mountain bike ed il gravel di cui Bragagnolo si prende cura da tanti anni.

«La videoteca aveva fatto germogliare una passione, un interesse, che prima non c'era. Nel caso delle biciclette è accaduto esattamente l'opposto: la passione ha costruito quel che c'è oggi. Non è facile perché la passione è un filo ossessione, tormento, qualcosa che non ti molla mai, che non ti concede respiro. Da quando lavoro con le biciclette, il mio mondo è tutto concentrato qui, pedalo molto meno, ogni tanto mi manca. Sono un lavoratore autonomo, lo sono sempre stato, e come tale non ho altra scelta che prendere il lavoro che c'è, anche se sono stanco, anche se è il periodo delle ferie. Non si va via finchè non è finita: la mia dimensione del dovere è questa». Nel 2007, il negozio viene ingrandito, ma quello che vediamo oggi è nato nel 2015: siamo sopra la stazione Brignole, il locale è esteticamente piacevole, non ci sono arredi standard, bensì molta artigianalità, oggetti pensati e realizzati da chi vi lavora, le lampade, ad esempio, costruite con vecchie ruote libere. Nel periodo dei lavori, della ristrutturazione, il negozio è restato chiuso solo dieci giorni e, se qualcuno fosse passato di lì, avrebbe visto proprio Marco ed i suoi dipendenti, la sua famiglia, a progettare, montare, smontare, ripulire, dopo aver girato per paesi e città e aver osservato altri negozi simili, qualche "bike cafè", per raccogliere idee ed imparare. «Lo dico con fierezza ed un certo orgoglio: ovviamente non potevamo occuparci noi dei quadri elettrici, i professionisti erano necessari, ma direi che circa l'80% dei lavori è stato eseguito da me, parenti e amici. Qualcosa di simile ai tempi dell'alluvione». La ferita che si cela dietro il ricordo dell'alluvione è profonda, sottolineata da un inciso spiazzante e sincero: «Era già successo nel 2011, è ricapitato nel 2014. Ricordo come ora un dialogo con l'unico dipendente che avevo in quel periodo, che mi aveva anche aiutato nella strutturazione del locale: è stato il primo a dirmi che dovevamo cambiare luogo, andare via da lì». Quel signore sapeva che Marco da molte notti non dormiva più, controllava il cielo e, se qualche goccia d'acqua cadeva a terra, restava a controllare, temendo l'ennesimo disastro.

Eppure, anche dopo l'alluvione del 2014, Tracce Bike Shop è ripartito e Bragagnolo ha progettato il nuovo negozio come mai aveva fatto prima, con una cura al dettaglio e al particolare che avrebbe ben potuto essere spazzata via da quell'acqua a fiotti e dal dover ricostruire tutto da capo, così chiedere "perché" viene spontaneo: «Il fango e la terra da quei locali non li abbiamo tolti da soli, sono venute tante persone ad aiutarci: amici, clienti, conoscenti, che non hanno esitato a sporcarsi le mani per noi. Abbiamo scoperto una vicinanza che non ricordavamo, che, forse, nemmeno sapevamo di avere. Quei sentimenti che si manifestano nei momenti più difficili. Allora siamo riusciti a trovare la forza per ripartire». A Genova, dove probabilmente il genovese puro non c'è nemmeno più, ma le sue caratteristiche, quelle stereotipate che strappano un sorriso, sono ben riconosciute e riconoscibili, oltre ad essere sintetizzate da un detto: “Sono di Genova, rido poco, stringo i denti e parlo chiaro" . A Genova, dove la bicicletta sta divenendo sempre più un mezzo di trasporto, dove si sono ampliate le ciclabili e si è investito su un nuovo tipo di mobilità, dove il clima è mite, la neve non c'è praticamente mai, e la natura è dietro al mare, ma la convivenza con gli automobilisti continua ad essere complessa e per quella serve solo il tempo, la cultura ed il reciproco rispetto, in un settore, quello delle biciclette, che, come dice Marco, ha ancora un mercato immaturo ed in periodi di difficoltà, come gli ultimi tempi, questo emerge: «Se dovessi narrare il mio lavoro tramite le soddisfazioni economiche, ti direi di lasciare perdere, di cambiare discorso. Invece non te lo dico, perché per descrivere il mio lavoro non c'è altro di meglio di raccontarti che, nonostante i sacrifici, le rinunce, non trovo, nemmeno nel pensiero, un mestiere in grado di farmi stare meglio e rendermi più felice di quanto lo sia oggi. A questo potrei aggiungerti la voglia di imparare, senza cui non avrebbe senso essere qui. Senza l'umiltà di cosa staremmo parlando?».

Da questa percezione deriva il bisogno, la necessità costante, di imparare, soprattutto rispetto alla bicicletta, un oggetto, un mezzo di cui la conoscenza difetta ancora oggi, pur con tutte le differenze date dalle varie tipologie di bici: la mountain bike, ad esempio, spiega Bragagnolo, è più un "gioco", "alla buona", qualcosa di rustico, diversa, in questo, dal professionismo su strada. In comune c'è sempre il senso di comunità, pur in qualcosa che è e resta molto personale, anche intimo, se vogliamo, perché l'esperienza in bici è, di fatto, qualcosa di unico per ciascuno. La possibilità di stare insieme deve diventare una chiave di lettura costante quando si parla di ciclismo: «Ci sarà sempre un negozio che avrà prodotti migliori, che venderà di più, a cui, in questo senso, non ci si potrà nemmeno raffrontare, perché se ne uscirebbe sconfitti, ma non deve essere questa la gara. Tracce vorrà organizzare sempre più eventi, incontri, permettere lo svilupparsi di quel dialogo, di quell'empatia, sempre difficile da raggiungere, anche perché i genovesi sono abbastanza freddi, diffidenti, devono conoscere prima di aprirsi. Ma è un fatto generale, l'empatia è essenziale per questo lavoro e per ogni rapporto umano che abbia una base solida, noi intendiamo dare questa interpretazione al nostro mestiere». Marco Bragagnolo torna con il ricordo ad una pedalata prima di Natale, organizzata dal negozio, che ha avvicinato molte persone in un momento no, è questo che intende: ritrovarsi e stare meglio. Ognuno con una propria lettura del ciclismo, per questo in "Tracce" ci sono quattro diverse generazioni a lavorare, sino ai più giovani, perché ciascuno traduce a proprio modo l'esperienza dei pedali e così la trasmette.

Ora la sera è davvero calata: "Genova città intera. Geranio. Polveriera. Genova di ferro e aria, mia lavagna, arenaria. Genova città pulita. Brezza e luce in salita". In una camera, appena spenta la luce, qualcuno starà prendendo sonno e chissà che non pensi a un viaggio in bici, come Marco Bragagnolo da tanti anni a questa parte.


Residence Les Fleurs, Gressan

Le mani di nonno Stefano e dei suoi amici più stretti, circa settant'anni fa, a Gressan, nella conca di Pila, in Valle d'Aosta, mescolavano la malta e posizionavano mattoni dalle prime luci dell'alba sino a quando la sera allungava le prime ombre nei cortili e la luna brillava tra le montagne. Erano gli inizi degli anni cinquanta, gli anni della ricostruzione: quell'uomo, dopo essersi dedicato all'agricoltura, al commercio del legno ed anche alla siderurgia, senza l'aiuto di alcuna ditta edile, iniziava a costruire il primo albergo della zona, «un alberghetto a gestione familiare», nel periodo in cui il turismo estivo cominciava a svilupparsi in una regione a prevalente vocazione agricola. "Les Fleurs", sarebbe stato il suo nome, come la frazione del paese: dove nonna passava ore ed ore in cucina, per più di quarant'anni, preparando "i suoi piatti" per chi chiedeva ospitalità e una calda pietanza. Il bar, il ristorante, l'albergo e anche i vecchi "alimentari", negozi che oggi non esistono praticamente più, dove, allora, la gente del paese faceva la spesa e chiamava per nome la signora alla cassa: più lontano, i loro vigneti e meleti che li avrebbero accolti nel periodo della pensione, quando a "Les Fleurs" sarebbero giunti dapprima la mamma e lo zio di Tiziano Saltarelli e, ancora dopo, Tiziano stesso e la moglie Nathalie.

Nel frattempo, negli anni sessanta, anche l'inverno diventava stagione di viaggi e la neve, lo sci, cambiavano forma: si vedevano le prime seggiovie ad un posto, i nuovi impianti, le telecabine, fino alle seggiovie, da Aosta a Pila, che facevano sembrare lontanissimo il periodo in cui quei nonni sciavano con mezzi primitivi e risalivano la montagna a piedi, battendo in questo modo la pista. In fondo, quei momenti si possono intuire osservando l'arredamento del Residence Les Fleurs, il cui tema principale è il territorio: ecco gli sci del nonno e dello zio di Tiziano, da un lato, dall'altro lo slittino che adoperava la nonna, oppure quella vecchia e ben curata bicicletta Bianchi degli anni cinquanta: «Noi viviamo qui dalla mattina alle sei fino alla sera a mezzanotte, non voglio pensare a tutte le ore che passo qui perché, se lo facessi, probabilmente, un giorno o l'altro, finirei per darmi del matto, ma, proprio per questo, le pareti di questi locali non potevano che essere riempite dalla nostra vita, dai nostri ricordi». Nathalie, spesso, lo rammenta al marito: gli dice che, non appena lascia il paese di Pont- Saint-Martin, gli si legge la nostalgia sul volto, allora Tiziano si volta, sorride e, rassegnato, esclama: «Per me la montagna è tutto, sono maestro di sci, appena sveglio cerco il Grand Combin, il Monte Bianco, il Cervino: come potrei accettare un altro orizzonte?».

Tiziano Saltarelli conosce bene la lontananza, l'ha vissuta sulla propria pelle: è cresciuto fra queste strade, qui ha studiato, ha iniziato ad andare in bicicletta, poi, quella bicicletta, da ragazzino, l'ha portato altrove. «Capisco perfettamente la metafora del ciclismo, il sacrificio, la distanza, la fatica. Non per sentito dire, non per romanticismo, bensì perché mi è successo. Non so nemmeno perché sono tornato qui, quasi come seguendo un richiamo delle origini, delle radici che che ti restano incise sulla pelle. Ad un certo punto non potevo fare altro: dovevo tornare a Gressan, dovevo continuare quel che aveva intrapreso mio nonno»: era la fine degli anni novanta, "Le Fleurs" era chiuso da qualche tempo e Tiziano non ci pensava nemmeno più, almeno fino a quel giorno, a quella nostalgia, a quell'istinto. Dove prima c'era un albergo, Saltarelli progetta un residence, attraverso una ristrutturazione completa: le camere diventano appartamenti, ma i visitatori trovano la stessa ospitalità, a tutto tondo, degli inizi, il bar ed il ristorante e la storicità di un luogo che era entrato negli anni duemila. Tiziano e Nathalie lavorano, sistemano, si guardano attorno, osservano tutto quel che accade, sono la terza generazione a farlo, e, in anni di esperienza, sono certi che quei locali, quel residence, siano, per molti, qualcosa in più. La loro è una sorta di teoria, un teorema dimostrato grazie a formule fatte di incontri e piccole o grandi condivisioni: «Esiste una sorta di trasformazione che si verifica in luoghi come questo, sarebbe bello studiarla. Basta osservare le persone quando arrivano e quando se ne vanno, tornano a casa: all'inizio c'è freddezza, talvolta spaesamento nel ritmo della vita quotidiana, un poco di cinismo, di aggressività, quella forma di pretesa che si manifesta nelle richieste. Qualche giorno, qualche notte e quello strato di negatività si dissolve, si manifesta una nuova gentilezza, il desiderio di restare qualche minuto a parlare, cercando qualcuno da ascoltare e che possa, a propria volta, ascoltarci».
La società, prosegue Tiziano, è cambiata in maniera netta in questi settant'anni, le persone si sentono sempre più sole, isolate, faticano ad interagire con gli altri e, con il mondo virtuale, spesso questa interazione non è nemmeno più richiesta. Una situazione già complessa, con, sullo sfondo, la frenesia in cui tutti siamo immersi: la vacanza è una via di fuga, dove, giorno dopo giorno, si riscopre la possibilità, forse il dovere, della lentezza, allora i visitatori diventano libri aperti, spalancati: «Più di una volta, di fronte ad alcune confidenze, mi sono chiesto cosa avessi fatto per meritarmele, per essere degno di quella fiducia. La verità è che tutti abbiamo necessità di raccontare cosa facciamo e perché lo facciamo, se non accade, appena si apre un varco, che ci mette a nostro agio, iniziamo a parlare e non vorremmo più fermarci».

Le rose hanno mostrato le spine più di una volta, il bilancio del ritorno resta positivo, per i bei momenti, le situazioni vissute inaspettatamente e anche perché «mi ha lasciato la possibilità di sognare». Dice Tiziano che la sensazione è la medesima di quando si scala il Mont Ventoux o una salita epica, si fatica a stare a ruota e, ogni due per tre, ci si chiede perché lo si stia facendo, se non si poteva stare bene anche evitandosi quello strazio. Mentre si riflette, passano i metri, si arriva in cima e, dall'alto, quasi non si ricordano più le maledizioni lanciate a quell'asfalto, alla neve, alla grandine, al freddo. «Qualche volta ho pensato di acquistare un cartello enorme, il più grande possibile, e scriverci, a caratteri cubitali: "Chiuso per sempre". Giusto per esser certi che tutti lo sapessero, che nessuno venisse a cercarmi chiedendomi di riaprire. Tutti i giorni dubito, ma, alla fine, sono sempre sicuro che sia questo il mestiere che mi completa, che tutto il tempo libero in più non mi farebbe stare bene quanto mi fanno stare bene queste mura, in fondo, sono in un bel punto del cammino, così quel cartello non lo appendo mai». All'interno del Residence Les Fleurs, piuttosto, al mattino presto, soprattutto in estate, progetta tracce da percorrere in bicicletta e le affida ai clienti pedalatori: l'idea è di mostrare sempre nuove strade, luoghi meno conosciuti, ben sapendo che sarà quel destriero che ha nome bicicletta ad accompagnare il viaggiatore chissà dove.
Ecco perché se, quando inforca la bici, gli si chiede dove sia diretto, Tiziano non sa quasi mai cosa rispondere: «Sono nato nel 1973, ho cinquant'anni e la valle d'Aosta mi ha visto crescere eppure, a conti fatti, forse ho sempre conosciuto solo il cinque percento delle strade di casa. Grazie alla bicicletta ho iniziato ad andare nel paese vicino, a perdermi e tornare a casa entusiasta raccontando a mia moglie di un nuovo sentiero e vedendola sorpresa, con gli occhi sgranati a farsi trasportare dal racconto, come se stesse seguendo una traccia. Qualche ciclista torna qui, dopo il giro, e, ancora stanco, sudato, mi si avvicina e: "Ma in che posti meravigliosi mi hai mandato? Dai, preparami un'altra traccia per domani". In quell'attimo, sono la persona più felice del mondo». La bicicletta da corsa è stato il primo regalo che Tiziano ha chiesto ai genitori, per vedere delle biciclette da corsa ed i suoi idoli, Gianni Bugno o Claudio Chiappucci, ha seguito diversi Tour de France, è rimasto ore avvolto nella calura estiva del Tourmalet o della Croix de Fer, dopo aver sognato di incontrarli per così tanto tempo da non poterlo calcolare: sostiene che la bicicletta sia il mezzo migliore per pensare, per rimodulare i pensieri, mettere tutto nella giusta prospettiva, un inno alla giusta velocità, per fare amicizia, «bastano due chilometri o poco meno», e per vedere la fatica in un'altra ottica, per non temerla, come hanno insegnato le biciclette elettriche che hanno avvicinato ai pedali persone che, magari, li avrebbero evitati per timore di quella sofferenza.

L'ospitalità, nel suo vocabolario, è strettamente legata al valore dell'accoglienza, al rendere il luogo in cui si giunge come casa, «poi, non è possibile accontentare tutti, far sentire realmente ogni persona a casa, però è parte della realtà: le persone hanno esigenze differenti, desiderano un'accoglienza diversa e hanno necessità differenti, l'unica cosa possibile è augurarsi che trovino un posto che restituisca le sensazioni di casa». I progetti sono il pane quotidiano di chi fa il mestiere di Tiziano e Nathalie e anche loro ne hanno talmente tanti che «dovremmo chiacchierare minimo per altre sei ore», ma il più significativo, più che un progetto, è un auspicio: «Anche noi, prima o poi, dovremo fermarci, pensarci spaventa ma è inevitabile, nella natura delle cose. Ecco, io voglio sperare che ci sarà qualcuno pronto a continuare questo percorso, con il nostro stesso spirito. Sarebbe davvero un peccato doversi rassegnare all'idea che per "Les Fleurs", in questa società, in questo mercato, non ci sia più spazio, non vorremmo mai doverlo fare. Eppure è cambiato tutto rispetto a quando ero ragazzino io: le nuove generazioni si portano dietro un'indecisione che rende difficile anche a loro stessi scegliere come indirizzare il loro futuro. Ho due figli, tutto potrebbe essere molto naturale, chissà se lo sarà». Alla fine, il verbo più bello per ciò a cui teniamo è sempre "continuare", "proseguire: così anche per il Residence Les Fleurs, a Gressan, nell'omonima frazione, al numero 26.


Bicycle House, Napoli

Passo dopo passo, tra l'Accademia delle belle arti ed il Museo archeologico nazionale, ci inoltriamo in Galleria Principe di Napoli. Siamo nel centro storico della città, in un autentico crocevia di spunti culturali su scala metropolitana, nazionale ed internazionale, mentre all'orizzonte, nascosto dalla maestosità dei palazzi storici, si staglia il golfo e la spuma del mare a tratti invade e a tratti libera la spiaggia, proprio quando la sabbia bagnata è intiepidita da qualche raggio di sole invernale. "Bicycle House" è situata ai numeri 27-28 ed è sufficiente affacciarsi alla vetrina, tra le luci sul bancone e quelle proiettate sul muro, ad illuminare qualche bicicletta appesa, per comprendere appieno il significato di quel nome. Casa della bicicletta, sì, in senso letterale ed in senso figurato: casa ovvero costruzione adibita ad abitazione oppure luogo in cui ospitare ed essere ospitati. «Si tratta di una "casa"-esclama Massimo Minopoli, avvolto nei rumori della città- che vuole essere un punto di riferimento per ogni ciclista, urbano, da strada, mountain biker, per ogni cicloviaggiatore che arrivi a Napoli, come meta del suo viaggio, oppure che vi transiti con la prospettiva di un più ampio girovagare. Questa città, a fronte di tanta bellezza, è in grado di travolgere con la sua caoticità, di lasciare senza parole, quasi scioccato, colui che non sia abituato a viverla quotidianamente e, solo fino a qualche anno fa, pareva impossibile pensare di percorrerla in bicicletta: abbiamo riflettuto in quel periodo sul fatto che, forse, un luogo in cui sentirsi accolti potesse contribuire al cambiamento che doveva, però, necessariamente passare dalle infrastrutture». Il plurale è d'obbligo, perché parla Massimo ma si rivolge a tutti i ragazzi appassionati di biciclette che, da giovani, lavoravano assieme a lui in un'officina popolare e, non avendo gli attrezzi necessari, spesso, utilizzavano solo le mani per smontare e rimontare tutti i ferri. Era lo stesso gruppo di amici che, riunito in un movimento autonomo, organizzava critical mass e poneva l'accento sulla tutela degli utenti della strada più fragili e sui temi della sicurezza stradale, nei giorni in cui in Galleria Principe di Napoli dovevano cambiare molte cose e un progetto ministeriale, "giovani per la valorizzazione dei beni monumentali", stava ridisegnando i contorni di questa galleria dell'ottocento.

«Prima qui c'era una stazione di polizia, successivamente trasferita. All'inizio, ci trovavamo di fronte solo a tutto ciò che era da buttare per costruire un nuovo ambiente, per rinnovarlo e renderlo ospitale. Noi avevamo già in mente quello che sarebbe stato il primo "bike café" del sud Italia: ora bisognava realizzarlo». Quasi attraverso un'esperienza metafisica, mentre Massimo racconta, a noi sembra di abitare l'idea di cui parla, perché a fine 2018 quell'intenzione è diventata realtà. Allora vediamo i due ingressi, separati e comunicanti: da un lato il bike café vero e proprio, con una bicicletta Bianchi storica, quella bicicletta appesa che osservavamo da fuori, altre curiosità da scoprire e un dehors con tavolini per i clienti. Al bancone vengono studiati e serviti drinks e cocktails particolari, adattati agli avventori pedalatori: il Negroni del ciclista, ad esempio. L'altro locale, invece, è destinato all'officina, dove si effettua servizio di vendita, noleggio e assistenza, dal lunedì al sabato: la scelta di prodotti è ampia, maggiormente focalizzata sul ciclista urbano, vista la posizione al centro di Napoli, senza però, escludere accessori per il trekking e per ogni tipologia di ciclista. Ma l'officina non è solo il luogo del lavoro artigianale, in cui si smonta e si ripara: «La nostra è una ciclofficina aperta, ariosa, in tutti i sensi. Vi si svolgono dei corsi per gli utenti, in modo che possano imparare loro stessi ad aggiustare la propria bicicletta: è un calendario di sette incontri, programmati al martedì pomeriggio, in cui chiunque può iniziare a sporcarsi le mani e conoscere un mestiere. Di fatto la bicicletta è una questione culturale, ogni volta in cui si organizzano conferenze, libri, proiezioni ed incontri tematici si sta facendo un passo in avanti. Noi vogliamo provarci». Massimo Minopoli si perde così nel racconto in una serie di altre storie, conosciute negli incontri presso Bicycle House: da Paolo Franceschini, il "comicista", comico e ciclista, nativo di Ferrara, la città più ciclabile d'Italia, che vive a Napoli, al ragazzo che, per far conoscere la città, nei suoi viaggi, ha deciso di portare nello zaino una bottiglia di liquore al babà ed a chiunque gli chieda di descrivere Napoli porge un poco di quel liquore e dal profumo e dal sapore chiede di continuare ad immaginare, fino a chi viaggerà controvento per scoprire le opere d'arte che più gli interessano. Tre esperienze diverse e uguali che legano, allo stesso modo, la bicicletta, all'arte, ad un liquore e alla scrittura.

Anche la città, nel frattempo, è cambiata, è migliorata, sono aumentate le ZTL, la realizzazione di piste ciclabili è incrementata e, grazie ad una nuova concezione della mobilità, non sembra più impossibile pensare di utilizzare la bicicletta per andare a fare la spesa, a scuola ed al lavoro: «Napoli dovrebbe assomigliare sempre più ad Amsterdam, a Londra. Ci sono cartelli che segnalano la necessità di proteggere l'utente più fragile, che indicano i limiti di velocità; sono utili ma non bastano. Servono i fatti. A Bologna è successo qualcosa di davvero importante con l'introduzione della "città 30", sogno che avvenga anche qui. L'associazione "Napoli Pedala" si batte anche per questo, come la nostra vicinanza alle istanze della Fondazione Michele Scarponi». Sì, perché qualcuno che ha paura ad uscire in bicicletta c'è ancora ed è comprensibile, ma non è giusto, soprattutto nel 2024. Ad ogni visitatore Massimo e gli addetti del locale provano a fornire qualche semplice regola, istruzione, per sentirsi più tranquillo: come muoversi in strada, l'utilizzo della carreggiata, la possibilità di fare le prime uscite in bicicletta insieme a qualcuno maggiormente esperto per prendere confidenza, la necessità di indossare il casco, di rendersi il più visibili possibile sulla strada, l'opportunità di scegliere strade meno trafficate, anche se chilometricamente più lunghe, tra le altre cose. Gli aperitivi del giovedì, su questi temi, riuniscono persone delle più svariate provenienze e dai più svariati lavori: dal dottore di Capri, al ciclo-fattorino, passando per il ricercatore del CNR. Girare per Napoli in bicicletta significa anche andare a scovare nuovi angoli o avere la possibilità di vedere in maniera differente luoghi già ben conosciuti: è nata così Napoli Obliqua, con lo scopo di accompagnare alla scoperta di posti meno conosciuti o più difficili da visitare. Pensiamo, per citarne uno, al quartiere residenziale di Capodimonte, situato su una collina e noto per l'omonimo Museo che ospita arazzi, porcellane, ma anche opere pregevoli di Tiziano e Caravaggio.

Ciascuno, poi, ha un proprio stile e un proprio modo di interpretare lo spostamento in bicicletta: «Bisogna dirlo: prima di consigliare una bicicletta è indispensabile sapere che progetti ha colui che la comprerà. Ovvio è che, ad esigenze differenti, corrispondono modelli e necessità diverse. Le domande, tuttavia, spesso possono essere invasive, chiedere non è mai facile, allora si cerca di capire guardando, ascoltando, senza esagerare con le richieste. Una comprensione silenziosa, basata sull'osservazione. Spesso la bici identifica la persona, il suo carattere, la sua indole». Massimo smette qualche istante di parlare, guarda meglio: un cliente è appena arrivato in negozio, chiama un collaboratore, chiedendo di offrirgli assistenza, poi riprende concedendosi un ghigno in segno di entusiasmo per quel che sta per dire. «A me piace davvero ogni elemento della bicicletta, ogni pezzo, ogni ingranaggio. Mi innamoro di ogni bici come accade in adolescenza. Credo che un bambino vada messo il prima possibile su una balance bike. Ogni tanto prendo un catalogo e mi metto a sfogliarlo: perdo la cognizione del tempo, devono venire a cercarmi». La scelta delle biciclette in negozio segue una triplice direttiva: la qualità, l'affidabilità e la garanzia. Minopoli si concede una parentesi sull'uso di acquistare biciclette in negozi non specializzati che, quindi, per forza di cose, peccano nella conoscenza e nell'attenzione a determinati dettagli, talvolta anche grossolani: «Il mezzo è semplice ma ha una meccanica sofisticata che spesso non viene compresa dagli utenti. Sai il motivo? Perché il cliente si basa, di solito, sul tempo della riparazione effettuata da un professionista, allora pare tutto facile e anche il lavoro tende a perdere il suo vero valore economico. Il punto è che chi svolge questo lavoro ha studiato, si è preparato, non sono cose che può fare chiunque. Quella professionalità è da rispettare e da riconoscere».


Il tutto in un mercato delle bici che è cambiato, con l'evoluzione della tecnologia, dell'elettronica e, soprattutto, delle bici elettriche che hanno ampliato la platea dei pedalatori, in quanto anche coloro che inizialmente temevano la fatica o pensavano di non essere all'altezza hanno voluto provare e si sono sentiti a proprio agio. Le "porte da aprire", come le definisce Massimo, ovvero le innovazioni possibili, sono ancora molte e chi fa questo mestiere non vede l'ora di spalancarle.
Il cliente entrato pochi minuti prima si ferma davanti all'officina ad osservare il lavoro dei meccanici, Massimo Minopoli spiega che, ove possibile, si cerca di coinvolgere il cliente anche nella riparazione, poi la butta sul ridere, citando un cartello, visto qualche tempo fa, che recitava: «Cinquanta euro per la riparazione, cento euro per osservare, centocinquanta euro per suggerire al meccanico come operare». Un'ultima occhiata al dehors, ai tavolini all'esterno, alle persone che camminano in Galleria Principe di Napoli: il pensiero va proprio ad un buon caffè napoletano. La sensazione è di essere nel posto giusto, Minopoli ce la conferma, non prima di chiederci se sappiamo come debba essere un buon caffè. Tentenniamo, allora ci svela la regola delle cinque c: «Comm' Caspita Coce Chistu Cafè». La impariamo, prendiamo la tazzina ed iniziamo a sorseggiare.