Karhu, Cuneo

La noia non fa bene alla quotidianità dei giorni ed Enrico Arese, pur tra i tanti dubbi di un mestiere che ne pone di illimitati, ha la certezza che le sue giornate non saranno mai noiose. A casa lo prendono in giro: «Enrico ed i suoi amori, Enrico ed i suoi continui innamoramenti», entrambi frutti di un entusiasmo ontologico sin dall'adolescenza, e tante storie che non entrerebbero in un libro. Le mattine di adesso sono simili a quelle mattinate estive da ragazzino, quando se ne inventava sempre qualcuna nei suoi giochi e, poi, partiva con il padre Franco, verso le Olimpiadi, i Mondiali oppure gli Europei, dall'atletica, al tennis, alla pallavolo, al ciclismo. Era felice perché quegli atleti, che i suoi amici immaginavano supereroi, erano solo esseri umani ed erano a tavola con lui, a pranzo, a cena. A lui era successo di perdersi dietro ad un amore, mentre assieme al papà era rimasto travolto dal passaggio di Roger Federer proprio lì accanto: nessuno aveva avuto il coraggio di dire una parola, di chiedere una foto, un autografo. Era bello guardarlo, solo guardarlo.

La realtà pareva una fantasia, per lui e per i suoi fratelli, Emanuele ed Edoardo, ma ci ritorneremo. Ora ci basta dire che ciò che è rimasto uguale è un lavoro che si rinnova continuamente, come quello in ambito sportivo: dalla cura della parte tecnica, al prodotto, al marketing, ai distributori, ai negozianti, ai prototipi, alle installazioni. E ancora gli eventi, gli incontri con il pubblico, i viaggi, le notti in ufficio, le corse, metaforiche e reali, perché il brand finlandese Karhu di corsa si occupa. Queste tutte le sfaccettature, belle, faticose e sfidanti, delle sue giornate e dei suoi risvegli. Impossibile stufarsi, annoiarsi, così anche in questo tardo pomeriggio Enrico Arese è nel suo ufficio del Karhu Store di Cuneo, in piazza Boves 7, dove lo incontriamo.

Quella giovinezza speciale è derivata dal ruolo del padre: Franco Arese è stato per venticinque anni presidente di Asics, ha introdotto il marchio in Italia, ha lavorato a stretto contatto con il Giappone, è stato ed è un padre «che non ne ha sbagliata una» e, a livello imprenditoriale, l'assioma è pressoché identico. Nel frattempo, Emanuele era il responsabile commerciale dell'azienda, colui che si occupava della linea moda per l'Europa: un ragazzo con la passione per il duro lavoro, con l'etica del sacrificio e la consapevolezza che sia la via maestra per raggiungere i traguardi nati nell'immaginazione. Tutto questo fino al momento in cui Franco non decide di lasciare. E di tutta quell'esperienza? Di quegli anni di lavoro? Non si poteva gettare tutto al vento e non lo si è fatto. Franco avrebbe voluto ideare il marchio "Arese", Emanuele gli ha sottoposto la situazione di Karhu: una realtà storica, nata nel 1916, in Finlandia, gloriosa, al centro del mondo running negli anni settanta, ottanta e novanta, tuttavia da ripensare. «Mio padre aveva corso il mezzofondo agli Europei di Helsinki nel 1971. Di più, aveva vinto e conservava una maglietta Karhu, sponsor dell'evento, donatagli per l'occasione. Quella maglietta è oggi nel suo ufficio. Sì, perché in quei giorni ha accettato la sfida, rilevando il 75% dell'azienda. Oggi ha ottant'anni, pure lui rifugge la noia, e ogni tanto passa di qui, altrimenti telefona: "Allora? Si vende? Cos'hai venduto oggi?" Un martello pneumatico che ricorda che per stare in piedi bisogna vendere». Emanuele lavora ad Amsterdam, ha ripensato il prodotto ed ispirato i fratelli. Vero, i competitori sono giganti, ma la loro realtà familiare è più veloce, snella, cura la distribuzione passo dopo passo e per gli Europei di atletica di Roma, dove l'Italia ha stabilito un nuovo record di medaglie, cinquantatré anni dopo il successo di Franco, si è tolta la soddisfazione di essere sponsor. Il sogno è rivivere qualcosa di simile agli anni dell'adolescenza di Enrico e chissà che non accada.

Le domeniche a Genova, al Marassi, a vedere giocare la Sampdoria, le sere in trasferta, le Olimpiadi di Atene, quelle invernali a Torino, il basket, la maratona di New York, la Mercatone Uno di Marco Pantani che «come facevi a non innamorarti del ciclismo? Faceva innamorare anche le pietre», lo sci e così via: bastava aprire il giornale e scegliere dove andare. Fino al 2012, a quel cambio di rotta: «Ho sentito il vuoto, ma mi ha fatto bene, grazie a quel periodo sono rimasto un ragazzo con i piedi per terra, ho compreso che nulla era dovuto. Siamo una famiglia unita, legata alle cose semplici, con poche cose in cui credere ma ben salde. Lo sport è una di queste, magari vissuto dalla strada, dal vivo. Mio padre viene da una famiglia di contadini, dal nulla. Lo sport ci ha "costruito", tenuto lontani da brutte compagnie, dagli errori che si possono fare da ragazzi. Lo sport ci ha aperto un mondo diverso da quello degli aperitivi serali, dalle discoteche, dagli svaghi che diventano vizi e ti bloccano. A casa, la nostra televisione trasmetteva sempre le voci di una telecronaca: mia madre ci ha sopportati».

Il lavoro ha unito questa famiglia, in cui i componenti hanno imparato a conoscersi e volersi bene anche grazie al sacrificio e alla fatica. Enrico, «quello con le idee meno chiare in casa», avrebbe voluto diventare un grande sportivo: voleva studiare all'Isef, non l'ha fatto su consiglio del padre. Si è iscritto ad architettura all'università, ha smesso prima di laurearsi, ma, oggi, sa che va bene così e ai suoi figli racconta in questo modo quel che può fare lo sport, anche se non si diventa campioni. Si cresce, ecco il punto. Si va a letto presto, ci si allena per diventare come Federer, anche se Federer si fatica anche ad immaginarlo, si hanno idoli differenti: ragazze e ragazzi che spesso non hanno avuto quasi nulla, eppure il talento li ha portati dove li ha portati. Enrico Arese pensa ad Antonio Cassano e a tutte le volte che lui ed Edoardo lo hanno visto giocare a Marassi: loro tifosi della Sampdoria, perché la Sampdoria era sponsorizzata da Asics.
«Dal Real alla Sampdoria, sembra assurdo. Quel ragazzo, che la gioventù aveva messo a dura prova, mandava fuori di testa con le sue giocate, il suo modo di stoppare la palla e valorizzava i suoi compagni di squadra che altrove parevano irriconoscibili. Senza scuola, senza insegnamenti, con tanti nodi da sciogliere, ti incantava. Mi porto addosso delle emozioni che non so cancellare. Siamo arrivati in Champions League con lui. Vorrei incontrarlo, sperando di non restare senza parole come con Federer. Mi accontenterei di una foto simile a quella che ho con Usain Bolt, altro genio totale». L'idea è quella di un'attività sportiva che plasma la comunità, la riunisce, permette l'incontro: allora è logico che, il 21 settembre, sia stato inaugurato un Karhu Store a Cuneo, nella loro città, dopo la sede di Helsinki e l'esposizione di Tokyo. In piazza Boves, laddove ci si può riscaldare prima di iniziare a correre insieme oppure laddove si può fare colazione al ritorno da una sgambata, magari verso il Parco Fluviale. All'interno, non solo l'attrezzatura e l'abbigliamento per il running, ma anche libri e riviste, scritti e fotografie, altra parte essenziale di quel senso di insieme, di aggregazione, di cui abbiamo scritto. Il tutto a declinare nella maniera più completa il termine esperienza. Perché è vero che in un negozio oggi bisogna saper fare tutto, dalla contabilità, alla selezione dei prodotti, alle fotografie, alle vendite, ma non è possibile trascurare questo aspetto che, nella "filosofia degli Arese", è il punto fondamentale. Anche per Enrico è un'esperienza nuova, da cui continuare a imparare ogni giorno e, un domani, forse, da replicare altrove.

L'inizio è a Cuneo, città di persone con voglia di fare, di quelle che non intraprendono un'opera se non hanno la certezza di poterci mettere qualità, città di persone affezionate ad ogni via, ad ogni piazza. Talvolta rustiche, ma vere, concrete, belle, verrebbe da dire. Cuneo è casa della famiglia Arese e molto di ciò che possono raccontare deriva dal fatto dell'essere nati e cresciuti da queste parti: tutti li conoscono e loro conoscono tutti. Enrico era seduto ad un tavolo, davanti ad un aperitivo con un amico, Roberto Ricchiardi quando l'idea è balenata nella sua mente: «Sai che i locali di Urban Jungle -l'attività di Roberto- sarebbero perfetti per Karhu?», ha detto Enrico. «Cosa aspetti? Mettiamoci al lavoro», ha risposto Roberto. Ed eccoci qui, partiti meglio di quanto si potesse pensare. Certo è solo l'inizio, certo c'è ancora tanto lavoro da fare, ma solo con il principio è possibile credere in un qualcosa di ancora migliore, diversamente non c'è storia. A Cuneo anche perché un luogo simile mancava, bisognava per forza andare fuori città ed era un peccato. Ora c'è e ci sono anche eventi collaterali per ricordare alle persone quanto è bello correre: la mezza maratona, ad esempio. Prolungamenti necessari di questa storia per mantenere vivo il ricordo e la consapevolezza, per non smettere, ma, anzi, alimentare l'entusiasmo.
Sono ormai cinque fine settimana che Enrico resta in negozio a lavorare: «Forse dovrei correggere il tiro, ad un certo punto bisogna rallentare, perché non va bene esagerare. Rallenterò, mi riposerò un poco e, poi, riprenderò. La corsa mi supporta in questo: una volta la detestavo, mia moglie mi ha aiutato ad apprezzarla e mi è utile anche per il lavoro. Corro al mattino, mi aiuta a stare bene, anche perché spesso fino all'una di notte non sono a casa. Viaggio molto, devo organizzarmi».

Quando qualche dubbio bussa, Franco, il padre, è una certezza, perché ha già vissuto tutto quello che i suoi figli stanno sperimentando ora ed i suoi consigli sono sempre proiettati in avanti. Anche il legame di Karhu con il ciclismo proviene da lui: dall'Asics-CGA, più precisamente, dove correvano Michele Bartoli e Paolo Bettini, squadra che ha disputato il Giro d'Italia e ottenuto non pochi risultati. Non solo: c'è la partnership con la GF Fausto Coppi ed il legame con il Cuneo Bike Festival. L'eco è lontano, sia perché Karhu produceva anche biciclette ai suoi inizi, sia perché abbinare corsa e pedalata è la base di molte discipline, quali duathlon e triathlon, su tutti. Un amore riacceso quello per il ciclismo, proprio nell'epoca di Tadej Pogačar, Mathieu van der Poel e Wout van Aert: atleti di forza ed istinto, per questo vicini alle persone. «Il sogno sarebbe quello di essere sponsor ad un'Olimpiade: so che è difficile, diciamo pure quasi impossibile, ma ho la certezza che sia proprio quel "quasi" a far la differenza in tante storie. Comunque vada, su tutto, noi vorremmo restituire qualcosa alla città, perché Karhu è di questa città. Vorrei accadesse come negli incontri, dove ci si conosce, si trattiene qualcosa dell'altro e poi si continua la propria strada, tornando di tanto in tanto e scoprendo qualcosa in più. Sarebbe bello». Sì, sarebbe bello e sarebbe la prosecuzione di questa storia partita da lontano, nei giorni e nei luoghi.


Cycle Lab, Conegliano Veneto

«Noi abbiamo sempre voluto promuovere la bicicletta in senso lato, ovvero nella concezione più ampia possibile. La bicicletta, a nostro avviso, andrebbe utilizzata a prescindere, che sia per fare sport, per la propria salute, per la comodità di uno spostamento. Il principio dovrebbe essere: vorresti pedalare, facciamo tutto il possibile perché tu possa andare in bicicletta. Le persone si riconoscono in questo mezzo, lo sentono vicino e vorrebbero farlo entrare sempre più nella propria quotidianità, purtroppo è ancora poco utilizzato in sostituzione dell'automobile perché mancano piste ciclabili e la struttura viaria, in Italia, non permette spesso di muoversi in sella senza avere paura. Ma, a parte questo, la spinta ideale della gente c'è, come il desiderio di avere una bicicletta non solo per fare attività fisica, ma anche per una necessità giornaliera». Le prime parole di Paolo Monai descrivono, da subito, la filosofia di Cycle Lab, una sorta di "boutique della bicicletta", nata esattamente dieci anni fa, in Viale XXIV Maggio, a Conegliano, dall'idea di tre soci, successivamente divenuti due, provenienti da mondi, spesso, lontani dal ciclismo: Paolo è agente di commercio nell'ambito arredamento di altissima fascia, uno dei soci si occupava di design, solo Andrea era all'interno dell'universo bicicletta, però «usava la bicicletta anche per andare al supermercato». Cycle Lab è nato ed è cresciuto così perché questo era il progetto iniziale ed esistere aveva senso per avverarlo: «Un impegno a cui cerchiamo di tenere fede è quello della spiegazione, l'unica possibilità che un professionista ha se davvero vuole il bene del settore di cui si occupa. Chiunque arriva in negozio con delle convinzioni, perché legge, chiede agli amici, magari su qualche forum: non è negativo, lo facciamo tutti. Poi, faccia a faccia, ci si confronta e le persone capiscono, magari studiano. Solo i "bicchieri pieni" non ci interessano: chi è già convinto di essere dalla parte della ragione e non vuole ascoltare. Lo lasciamo ad altri, ad un altro approccio. Diversamente, le parole d'ordine sono chiedere e spiegare».

Sì, insieme ad altri imperativi legati all'etica del lavoro: se la bicicletta ideale per il cliente non è in negozio, lo si dice, si ammette, non si vende ciò che si ha, pur di vendere qualcosa. Il meccanismo, precisa Paolo, si guasta spesso all'origine: «Se è vero che molte volte i negozi acquistano in maniera errata, è altrettanto vero che le aziende continuano a produrre materiale che devono vendere per pagare fornitori: è un mercato in cui sopravvivere è difficile. Basta un cambio di colore e di poco altro perché la bicicletta precedente veda dimezzato il proprio valore, nello spazio di alcuni mesi. Gli standard cambiano velocemente, le bici invecchiano, allora i negozianti si trovano quasi "costretti" a vendere per vendere. Non è una giustificazione, ma una spiegazione». In una sorta di reazione a catena, le persone iniziano a non fidarsi più del professionista e la catena si inceppa, ecco la necessità di un cambio avvertita e messa in pratica da Cycle Lab. Il bisogno di farsi ascoltatori si è reso evidente di fronte ad una realtà che, spesso, non prestava attenzione alle richieste o ai bisogni dei clienti, chiusa in un guscio impermeabile, incapace di guardare altri mondi, di farsi influenzare e quindi migliorare: dall'aspetto esteriore, al modo di pensare e di agire. Quando si arriva da Cycle Lab, tornano in mente i negozi nord europei, infatti, da lì arriva il disegno su cui si sono basati Paolo e Andrea: «La prima reazione deve essere quella suscitata dalla bellezza, dalla meraviglia: il rispetto per il prodotto bicicletta passa da qua, dalla sua valorizzazione. Anche un prodotto meno bello esteticamente, se valorizzato racconta un'altra storia. Per molto tempo, le biciclette sono state vendute in luoghi che somigliavano a supermercati. Quando parlo di boutique della bicicletta intendo esattamente questo: poche bici e ben esposte. Divisioni molto nette fra zone: dalla bicicletta in senso stretto, a tutto quello che le ruota intorno, all'abbigliamento. Soprattutto, chiarezza e visibilità: le postazioni dei meccanici a vista in modo che il cliente possa parlare con l'operatore mentre lavora, chiedere e magari imparare. Non sempre funziona così, ma abbiamo il dovere di muoverci in questa direzione».

Gli altri mondi conosciuti, per lavoro o per altre vicissitudini, entrano in gioco proprio qui: il confronto fra quello che accade in un'officina meccanica che si occupa di automobili ed in una che si occupa di biciclette, ad esempio. Storicamente, nelle officine di biciclette, racconta Paolo, il meccanico ritirava la bicicletta, eseguiva le riparazioni, successivamente telefonava, ci si recava a ritirare la bici, si pagava una cifra, si tornava a casa, spesso non avendo neppure ben chiaro quale fosse il problema. Altrettanto spesso, qualche giorno più tardi, la problematica si presentava nuovamente e si era da capo. «Forse qui siamo stati fra i primi ad avere l'accettazione, come accade per le automobili: registriamo tutti gli interventi sul mezzo, rilasciamo un foglio con gli interventi effettuati e con il costo orario. Da quel momento, la persona ha scritto nero su bianco quel che abbiamo fatto e, se il problema si ripresenta, può contestarcelo, la fiducia si accresce così. Se trattiamo in questo modo la macchina, perché non dovremmo farlo con la bici? Si torna al rispetto: il cliente, pagando, deve poter misurare il lavoro svolto». Il cardine della conoscenza è sempre al centro, soprattutto quando con la propria bicicletta si uscirà da Cycle Lab e, da quel momento, bisognerà prestare attenzione a vari fattori, non sempre dipendenti dalla propria volontà, soprattutto su strada. Due le raccomandazioni principali che non possono mancare ed a cui non vi è alibi: indossare il casco e rendersi visibili con una luce posteriore sempre accesa. Il casco, precisa Paolo, è accettato senza dubbi in ambito sportivo, meno in ambito urbano, soprattutto con il salire dell'età, ma le cose stanno, lentamente cambiando.

«Nello stesso momento in cui sottolineiamo questi doveri, dobbiamo essere lucidi e ribadire che una grossa parte di problematica deriva da una rete viaria non adeguata e da ripensare in tutte le città. L'esempio l'ho sotto gli occhi: il negozio si trova a Conegliano, io abito a Vittorio Veneto. Due città e circa 70000 abitanti, nel raggio di 15 chilometri abbiamo circa 100000 persone. Bene, tra le due città non esiste una rete viaria adeguata con piste ciclabili ben collegate: ove ci sono, sono tutte interrotte. In questo modo, i micro-spostamenti sono scoraggiati in sella e si continua a preferire l'automobile, anche su tragitti di cinque minuti di tempo. Se manca la sicurezza, manca tutto». In realtà, il problema infrastrutture non è l'unico: Paolo parla anche dei parcheggi per mettere in sicurezza le biciclette: in Italia sono ancora attrezzature vecchie, all'estero hanno lucchetti adeguati e sono appositamente progettati.

Il problema, precisa, è che spesso i comuni non sono aiutati con professionalità adeguate per occuparsi di queste tematiche: «Si parla sempre di bicicletta legandola al viaggio, ci sta, ma io vorrei più Germania, più Olanda, più Spagna, anche, in Italia. Da noi si allargano le corsie delle auto a discapito dei ciclisti, all'estero si progettano le strade con un principio chiave: il ciclista deve andare dal punto "a" al punto "b" e compito dello stato è consentirglielo. L'ottica è completamente diversa. Qualche realtà si salva anche nel nostro paese: penso a Parma, a Ferrara, dove tutti si sono sempre mossi sulle due ruote, però sono eccezioni, altrimenti l'auto viene sempre prima nelle priorità». Accanto a questo, una serie di blocchi che originano da pigrizia o chiusura mentale: in primis, il fatto di non pedalare nella quotidianità per il freddo, piuttosto che per la pioggia, cosa che nei paesi del Nord non è assolutamente concepita. Altro fatto da sottolineare è la mancanza di attenzione e di progettazione rispetto a strade che permettano anche alle cargo bike di percorrerle in sicurezza, perché se il ciclista non è aiutato e sostenuto tenderà a non scegliere più la bicicletta.

Paolo Monai osserva il divanetto vicino alla macchinetta del caffè, l'area relax in cui i clienti possono aspettare che vengano effettuate le riparazioni, proprio accanto ad un piccolo spazio dedicato ai libri ed alle letture, un'altra via per riposare e riflettere, poi riprende a parlare: «La consapevolezza cresce discutendo e raccontando, facendo rete, lavorando assieme. In questi dieci anni ci siamo spesso sentiti soli, ma non abbiamo mai mollato e quell'idea, alla fine, ha preso forma ed è una certezza per tante persone, qualcosa che ci auguriamo possa ispirare. La bicicletta è, di fatto, un divertimento: perché non rendiamo sempre più piacevole parlarne? Credo sia la strada per metterla sempre più al centro della realtà, perché di ciò che piace si narra sempre volentieri e dalle storie si può modificare il circostante». E, chissà, magari proprio questa chiacchierata può essere un inizio.


Buonenotti, Siena

Ci sono parole che, in fondo, sono sinonimo di ospitalità, di accoglienza, certamente di una predisposizione d'animo gentile verso l'avventore. Due fra queste le abbiamo scoperte, meglio sarebbe dire riscoperte, a Siena, proprio dopo aver varcato Porta Camollia e aver letto quella scritta in latino: «Cor magis tibi Sena pandit». Sì, Siena ti apre il cuore ancor più di questa porta, recita così ed essere ospitali, in fondo, richiede questa inclinazione. Ma le parole a cui ci riferiamo noi sono di uso corrente, nessun lontano eco storico, "nessun latinorum" da rispolverare: buongiorno e buonanotte, tutto qui, nel soggiorno, accanto alla cucina, alla macchinetta del caffè, dove ogni mattina si prepara una colazione, sempre diversa, al b&b che, da questa parola, ha preso il nome: "Buonenotti".

Siamo in Strada di Marciano 23 e Luca Massini ci ha accolto da poco narrando quello che dovrebbe essere un rito: la colazione. «All'alba, c'è Alessandra Forzoni che attende il risveglio di ciascuno, aspetta che entri qui. Ci si saluta, ci si dice reciprocamente buongiorno, poi, l'ospite si siede al tavolo e da lì inizia la conversazione: "Ha dormito bene? Cosa desidera?". Sempre prestando attenzione a quel che il cliente cerca: magari vuole solo un poco di silenzio e allora si sta zitti, ci si muove piano. Le nostre giornate principiano in questo modo».
Accogliere significa anche far sentire a casa, a casa propria, e questo "Bijou hotel" è, in realtà, il ribaltamento dell'abitazione di Luca e Alessandra: un open space simile, pensato come se dovesse essere vissuto dalla loro famiglia, con ogni dettaglio scelto come si scelgono le cose fra le pareti di casa. Alessandra aveva un sogno simile sin dal 2001, 2002, perché l'idea di costruire qualcosa di nuovo, così ideato, le piaceva, ma c'era un posto di lavoro sicuro, uno stipendio fisso e tante certezze che un cambiamento simile avrebbe messo in discussione totale: «Coloro che io non avevo voluto lasciare, nel 2011 mi hanno lasciato. La multinazionale per cui lavoravo ha chiuso, proponendomi un trasferimento tra Brindisi, Rovigo e Roma. Virginia, mia figlia, era ancora piccola e non me la sentivo di andare così lontano. Ho cercato un lavoro simile per molti mesi, ho ricevuto proposte inaccettabili. Ad un tavolo, con Luca, durante un aperitivo, ci è venuto in mente quel sogno nel cassetto e, quasi per scommessa, abbiamo aperto quel cassetto e l'abbiamo tirato fuori. Era un tardo pomeriggio di gennaio». In mente, si fa spazio quella casa che Luca e Alessandra vorrebbero ristrutturare da tempo e che sarebbe, comunque, da ristrutturare: in quell'inverno si progetta, a marzo partono i lavori, a giugno apre il b&b. Era il 2013, undici anni fa.

Hanno avuto «l'incoscienza dei vent'anni, senza avere vent'anni», per il resto, dentro, c'è la loro verità: «A me vengono in mente- spiega Alessandra- i budini al cioccolato che preparavo per Virginia, quando era bambina. Sì, quelli che si comprano al supermercato. Ricordo che li impiattavo, aggiungevo un poco di zucchero a velo, sopra, magari, una fragola o qualche mirtillo. Sai le bruschette alle olive? Mi preoccupavo di disegnare una piccola bocca, un nasino e due occhi. Ospitare è questa cosa qui, avere cura per l'altro, ed io faccio lo stesso a casa nostra, quando preparo la tavola e sposto i bicchieri, un attimo prima di sedermi con Luca e Virginia, perché mi sembrano più belli in un'altra disposizione. I prodotti del "Buonenotti" sono gli stessi con cui pranziamo e ceniamo noi, ma, proprio perché non sono solo a casa mia, chiedo le intolleranze a ciascuno e provo a preparare qualcosa di personalizzato. In un ambiente familiare, ci si sente sicuri anche per questo».

Un giorno, la madre di Alessandra è entrata in quella casa, mentre i lavori erano in corso: c'era solo una parete portante o poco più. «Ma sei sicura di quello che state facendo?». Non lo erano, Luca e Alessandra: avevano timore per quel salto nel buio, in un mondo complesso che non conoscevano e, ancora oggi, stanno studiando, provando a comprendere, mentre la pandemia ha cambiato tutto, anche le persone, che sono diventate più fredde, spesso più nervose. Il timore c'è ancora adesso, perché tutto può cambiare, perché non si sa mai, soprattutto in un'attività di questo tipo, a non voler cambiare sono proprio loro, perché le persone tornano, si ricordano delle attenzioni. In undici anni hanno ascoltato storie di ogni tipo: felici, tristi, hanno pianto, si sono commossi, vissuto mancanze e costruito ricordi: alcune persone arrivano per motivi di studio, altre di lavoro, qualcuno di salute. «Vorremmo essere vicini a chi arriva, in un modo o nell'altro, non abbiamo mai pensato di arricchirci, abbiamo sempre cercato di metterci a cena, a sera, soddisfatti, per la giornata vissuta. A mia figlia- aggiunge Luca- ho sempre detto che i complimenti non bisogna mai farseli da soli, come autoscatti. Devono essere gli altri a riconoscere un tuo merito e se vedono un demerito si ha l'obbligo di ascoltare e capire come cambiare. Qui, le parole belle sono venute dagli amici e dagli ospiti e sono state una spinta». Se non avesse funzionato, c'era un piano "b": avrebbero eliminato due bagni, l'avrebbero trasformato in un appartamento, forse messo a disposizione degli studenti. Forse, sì, perché sono testardi e qualcosa si sarebbero inventati. In mezzo a tutti gli impegni dell'apertura, non si era nemmeno pensato a un sito web, a come promuovere la struttura: l'inaugurazione è avvenuta con un aperitivo ed i primi ospiti sono stati proprio gli amici di una ragazza presente quel giorno. Passo dopo passo, le persone sono arrivate, ad agosto è andato tutto meglio di quanto si potesse pensare e l'autunno, che avevano immaginato di recupero, di riposo, ha mostrato un'altra faccia di questa terra: tutte le persone che arrivano in Toscana con i colori di ottobre e di novembre e vanno al Duomo di Siena, verso le Crete, nel Chianti. Stanchezza, ma anche felicità, perché quel sottotitolo che avevano scelto, «la vostra casa a Siena», non era più solo un modo di dire, ma stava diventando una realtà. Luca continuava ad inforcare la sua bicicletta: «Pedalare significa produrre idee, tornavo, le proponevo ad Alessandra: se funzionavano, le appuntava, altrimenti significava che dovevo rimettermi in sella». La fiducia nei nuovi progetti non è di tutti, anzi, è davvero di pochi e Luca e Alessandra lo sanno molto bene, lo hanno vissuto sulla loro pelle. Non ci credeva nessuno, o quasi, solo la piccola Virginia e Silvia, la sorella di Alessandra, altri dicono oggi quel che dicevano in quegli inizi: «Vedrete, non avrete più un giorno libero, pagherete un sacco di tasse e, sin dal mattino presto, sarete impegnati con il lavoro». Qualcuno ad Alessandra lo ha detto da poco: «Ancora con quelle torte, con quei dolci? Non sei stanca?». No, non lo è, e quando parla delle sue creature si illumina: le crostate di albicocche, di ciliegie, di more, i muffin, pane per la sua creatività, le uova strapazzate che qualcuno degli ospiti ha descritto come "le più buone mai assaggiate". Qualche ospite, al ritorno da una pedalata con Luca, si siede al tavolino, chiede una fetta di crostata e la gusta, con gioia: Luca e Alessandra non si fanno notare, ma non riescono a smettere di guardare e si sentono fieri.
"Buonenotti" è anche una «piccola galleria d'arte», perché Silvia è un'artista e ogni quadro appeso alle pareti è suo. Ogni tanto, se ne aggiunge qualcuno, si cambia il posto di qualcun altro, l'unico a restare sempre è quello nella sala colazioni: anche l'arte accoglie, quel che è piacevole accoglie, quel che è "personale" accoglie. Per questo motivo ogni camera è differente ed ha un proprio nome, perché che sia per lavoro, per studio o per salute, avere la sensazione di essere attesi fa la differenza, pur se non si fa festa. Il parquet, pur differenziato, è la costante. La "Stanza del sole" ha colori che spaziano tra il giallo, l'ocra, il Terre di Siena ed il bianco: la testata del letto è costituita da una cornice apposita, pensata da un corniciaio pedalatore della zona, che l'ha ricoperta con sfoglie di oro zecchino. Le poltrone sono dorate e provengono dalla casa della mamma di Alessandra, mentre i comodini sono in cipresso e quel profumo si diffonde ovunque e ciascuno si chiede da dove provenga. La parete è fatta da Luca, su suggerimento di Silvia, in lunghe telefonate mentre lei è a Puerto Rico: indicazione su indicazione, ora è visibile il risultato finale. In "Contrasti", invece, i colori predominanti sono il bianco ed il grigio sporco, l'arredamento è moderno, la testata del letto è di pietra grigia, il bagno è grande, come grande è la doccia. Da entrambe ci si affaccia sulla campagna senese, in "Contrasti" c'è anche una terrazza per fare colazione all'aperto. La terza camera è anche la più grande: "Il giardino dei sogni". Si tratta di una sorta di "camera zen", dove Alessandra ha ridato vita ad un vecchio scrittoio ed i comodini sono sbiancati da un sapiente artigiano. Più in là, una maglia della "Strade Bianche" appesa, apre la porta ad un'altra storia: Luca e la bicicletta.

Tutto è iniziato per caso, per necessità dopo un incidente in moto, la sua passione precedente: «Mi hanno praticamente dovuto ricostruire un piede e da lì ho iniziato a pedalare, traendone la stessa soddisfazione, che si tratti di strada, di cross o di gravel, la disciplina perfetta per queste terre. Corro in un gruppo sportivo e ho l'attestato di accompagnatore, così porto in giro gli ospiti. Potrei farmi pagare? Sì, ma non lo farò mai: non accetto di ricevere denaro per qualcosa che mi diverte, mi sembrerebbe di approfittarne. Sono felice quando scopro un percorso, quando lo racconto o quando degusto un vino, un piatto di pasta ed un cappuccino, magari a Radda in Chianti. Spesso mi dirigo verso Montalcino, verso le crete, verso i boschi o verso il Chianti. Vado in ricognizione, poi invito gli ospiti. Così ho conosciuto Riccardo Magrini, che viene a trovarci spesso. Con lui condivido anche la passione per il Palio e siamo entrambi della contrada dell'Oca». Sorride, Luca, e racconta che, un domani, al momento della pensione, vorrebbe dedicarsi solo al proprio orto, alla propria bicicletta e alla propria contrada: le cose più semplici e più belle che ha, quelle che, in famiglia, tutela e chiede anche ad Alessandra e Virginia di tutelare con una metafora tratta dal mondo della Coppa America, dalla vela: un approccio "lasco", "andando di lasco", in larghezza, per custodire i propri spazi e arricchirli. «Per Virginia, ad esempio, i tesori sono i cavalli, le lingue, la tecnologia, gli amici, il compagno, l'università, il suo essere un'atleta: nostra figlia passa, magari, per un caffè, ma va bene così, è giusto così, ogni tanto, quando c'è troppo da fare, accorre per aiutarci ed è bello». A Siena, la città di questa famiglia.
«Essere di Siena è la cosa più bella e difficile che si possa vivere: è una città piccola, con tutti i difetti delle città piccole, ma dal punto di vista umano offre quanto nessuno potrebbe mai immaginare. Spesso la detesti e quando la detesti non te ne accorgi, però, appena vai via da qui, ne senti la mancanza, vorresti tornare. Siena è, in fondo, un universo a parte. Avremo la puzza sotto al naso, avremo un carattere difficile, tuttavia Siena è Siena». Forse anche per questo Luca e Alessandra vogliono solo continuare così, non perchè hanno poche idee, ma perchè stanno già bene: magari si potrà aggiungere qualche passeggiata a cavallo, qualche cooking class attraverso le conoscenze culinarie di Alessandra, ma nulla più. Lo ricorda una bottiglia di vino con il nome "Buonenotti", donata dal fidanzato di una ragazza che purtroppo non c'è più e che al b&b si recava perché era vicino all'ospedale dove eseguiva le cure. Oppure quella coppia di anziani signori, sull'ottantina, fra i primi visitatori. Lei, bellissima: un rossetto che più rosso non si può e un cappello di paglia d'altri tempi. Lui, innamorato come non mai: una sorta di principe azzurro, un personaggio uscito da un film, pieno di attenzioni per la compagna, dalla colazione a letto, all'attesa, ad ogni piccola attenzione, perso dietro a quell'amore. Sono queste e tante altre piccole e grandi storie a tenere accesa l'idea nata in quel pomeriggio di gennaio e a far crescere solo la voglia di continuare, per altre "Buonenotti".


Masciarelli Sport Cycling Center, San Giovanni Teatino

«Tutto quello che vedi, tutto quello che ho e, vorrei dire, quel che sono, lo devo alla fatica e allo spirito di sacrificio di due persone umili: mio padre e mia madre»: sono parole di una gratitudine genuina di un figlio verso i propri genitori che, a San Giovanni Teatino, in via Cavour 71, nei locali di "Masciarelli Sport Cycling Center", si sentono pronunciare spesso. A noi le dice Simone Masciarelli, figlio di Palmiro, fratello di Francesco e Andrea, classe 1980, ciclista professionista dal 2000 al 2013. Poi si concede un viaggio indietro nel tempo, mentre indica il padre, settantuno anni, ancora in officina, dal mattino alla sera, a fare il suo "mestiere": «Quell'uomo è vissuto e vive rendendo tangibile quotidianamente il significato dell'applicazione del sacrificio e della dedizione: ciclista o meno, è una sua componente. Sto pensando, ad esempio, al Fiandre del 1984, quando papà era in fuga e sul Grammont, al rifornimento, il direttore sportivo gli disse: "Vai, giocatela, Moser non ne ha oggi. Non aspettarlo". Non capì, si fece riprendere, poi, sul Bosberg, a quindici, forse venti chilometri dal traguardo, quando comprese che Francesco non avrebbe potuto fare risultato, ripartì: concluse al sesto posto. Un Fiandre può cambiare la carriera di un ciclista, avesse proseguito con la fuga, chissà. Ma non era da lui, il suo sentire era quello di mettersi a disposizione, di lavorare duro. Negli anni ottanta, ha pensato a questa attività mentre ancora correva: veniva qui alla fine degli allenamenti, quando era a casa dalle gare e si metteva a lavorare. Queste mura sono venute su grazie a lui e a mia madre che, con tre bambini ancora piccoli, si dava da fare perché potesse esistere».

A Simone, Francesco e Andrea, il padre non ha mai detto molto del ciclismo e, sebbene tutti e tre siano diventati ciclisti, non è stato lui a incoraggiarli a seguire questa via, forse perché l'aveva percorsa in tempi non sospetti. Le persone, però, parlavano, parlavano e parlavano continuamente, come fanno sempre, come fanno ancora oggi a proposito dei figli di Simone, altri due ciclisti in divenire che sentono, spesso, le medesime parole: «Non volevo questo per loro, ho provato a fargli scoprire altri sport, altre possibilità, ma pare quasi una questione genetica, una calamita. Non volevo perché so quel che si dice quando si ha un certo cognome, quasi bastasse quello per fare strada e so anche quanto si soffra. Io ed i miei fratelli facevamo il doppio della fatica, perché non solo dovevamo conseguire un risultato sportivo, ma volevamo fare anche in modo che fosse talmente forte, talmente evidente, da non lasciare spazio a dubbi, a chiacchiere. Perché non è più facile, non lo è mai stato, anzi, può essere più difficile. Erano i tempi in cui, anche dopo una vittoria, arrivavano i rimproveri, perché non era solo importante vincere, era importante come si arrivava al risultato». Palmiro ha proseguito la sua strada in silenzio e, silenziosamente ha invitato anche i suoi figli a fare lo stesso, sarà per questo che «per molti anni ha fatto fatica "a mollare la presa", a lasciarsi andare, a fidarsi completamente ed a lasciarci libertà ed iniziativa fra queste pareti. Credo sia normale, è la sua creatura. Ora lo fa ed io mi sento sempre più responsabile ogni volta in cui vedo la cura che mette su quelle biciclette, nonostante siano passati decenni e tutto sia cambiato. Papà studia, conosce e molti problemi complessi è ancora lui a risolverli».


Masciarelli Sport Cycling Center si estende su una superficie di circa mille metri quadrati ed il progetto è stato, sin dagli inizi, quello di creare uno spazio in cui un pedalatore potesse avere a disposizione tutto quel che è necessario per approcciarsi alla bicicletta. Un luogo, insomma, da cui iniziare a porre le basi per costruire un rapporto, perché quello con la bicicletta è un rapporto a tutti gli effetti, una conoscenza che si amplia con il trascorrere dei chilometri: «In quest'ottica, ritengo che le persone spesso trascurino l'aspetto biomeccanico, della posizione in sella ed è un errore. Anzi, talvolta è la radice del motivo per cui si smette di pedalare. Il ciclismo è vita lenta, in sella si passano ore ed ore e, per fare questa scelta, la bicicletta deve essere un posto "comodo", la fatica, semmai verrà dai percorsi. Laddove non si fa questo passo, diventa sofferenza solo il posizionamento. Il discorso è universale, cambiano le sfumature, dal corridore del Tour de France, alla signora che pedala nel centro cittadino. Il sentirsi a proprio agio deve essere il comune traguardo ed il nostro tempo, a mio avviso, dobbiamo investirlo proprio lì».
All'ingresso, si scorge subito tutto lo spazio espositivo dedicato alle biciclette, nel retro la sala biomeccanica dove lavora Andrea e la palestra di Francesco, sul lato sinistro, invece, tutto quel che concerne le attività, i servizi, l'officina, l'accettazione, l'abbigliamento ed i materiali, mentre la parte commerciale è sul lato destro. «Il nostro è un negozio di storia e di storie, questa è la definizione che preferisco, perché c'è la storia del ciclismo, quella di cui abbiamo fatto parte, come qualunque ciclista, e ci sono le nostre piccole storie, che, talvolta, così piccole non sono, per l'importanza e l'impatto che hanno avuto su di noi, sulla nostra carriera o sulle nostre giornate».

Allora è bello ripetere quella frase che Palmiro dice spesso ed è come un "grazie" al capitano di una vita: «Forse Moser avrà vinto molto anche grazie a me, ma, di certo, io ho vinto tutto quello che ho vinto grazie a lui, perché era un capitano che sapeva ricompensare del lavoro svolto, dell'impegno profuso». Ora, dice Simone, forse c'è più individualismo, minore disponibilità a mettersi in gioco per qualcosa che, alla fine, non comporti un risultato personale, eppure la storia di squadre come UAE Team Emirates e Visma Lease a Bike, prosegue, contiene il medesimo nocciolo duro: atleti che potrebbero essere capitani in qualunque altra squadra che, tuttavia, decidono di mettersi al servizio, di lavorare per una causa, "anima e corpo". Palmiro Masciarelli avrebbe potuto essere uno di loro e alcuni luoghi sono testimoni di questa opportunità, la Spagna, ad esempio, e Barcellona in particolare, con quel Campionato del Mondo concluso al settimo posto, in un finale da solo, senza i suoi capitani, Moser, Saronni, Argentin che, piano piano, avevano ceduto il passo. «Sono gare che cambiano la vita di un atleta, non so cosa sarebbe successo se avesse vinto il Mondiale oppure il Fiandre. Non so nemmeno se sarebbe successo qualcosa di diverso, perché mio padre è così, in fondo». In questo modo ha insegnato l'onestà ai propri figli. Sono tornati tutti e tre in quel negozio: in particolare, Simone, che ha smesso di correre a causa di un problema all'arteria iliaca, si è inserito in quella dimensione quando vi lavoravano più di dieci persone ed è dovuto partire da zero, perché il cambiamento era importante e di commercio lui non sapeva praticamente nulla. Ci è riuscito, se è vero che, attualmente, fa ciò che prima faceva il padre e, come lui, cerca di accontentare tutti. Non ci pensava, non poteva pensarci, non poteva crederci. Andrea ha studiato molto, si è specializzato in biomeccanica, Francesco è volato in California per curare un problema di salute, poi è tornato in Italia ed anche lui si è messo a studiare, per diventare un preparatore. Ma di studiare non si finisce mai.
Simone Masciarelli, intanto, sta provando a riprendersi tante cose di cui l'aveva privato la vita da atleta, in primo luogo i viaggi consapevoli, quelli in cui si sa che si sta viaggiando e si riesce a guardarsi attorno, a memorizzare paesaggi ed a scattare fotografie. Talvolta anche a prendersi il tempo per consigliare un posto da visitare: «In Abruzzo siamo fortunati, tra mare e montagne con varie sfumature nel mezzo. Forse, il preferito è la Costa dei Trabocchi, ma c'è tanto altro e ci sono le strutture per godere di quel che c'è». Ogni mattina, spiega Simone, ci si sveglia con l'entusiasmo di andare a fare il proprio dovere, anche nelle difficoltà, come succedeva quando erano tutti ciclisti, e questo è uno degli aspetti che preferisce, vista la passione che implica e visto che non tutti possono avere questa fortuna, possono plasmarla, crearla. La storia alle loro spalle li rende, spesso, dei punti di riferimento per chi sceglie la bicicletta e, in fondo, se dovessero avere un desiderio non cambierebbero molto, non cambierebbero nulla, anzi. Vorrebbero che, nei prossimi anni, potesse restare così, perché avere un'attività non è mai semplice e, in questi anni, anzi, è molto difficile e confermarsi è già una buona speranza.
Allora torneremo qui, a San Giovanni Teatino, in via Cavour 71, e cercheremo Palmiro che gira inquieto, tenendo tutto sott'occhio, Simone, con il suo senso di responsabilità, Andrea e Francesco, ognuno attento al proprio ruolo, in ogni dettaglio. Torneremo, vedremo tutto questo e sapremo che non è cambiato nulla. Come dice e sogna Simone Masciarelli.


Casa Conte Rosso, Avigliana

Lassù, sbattuto contro il cielo sopra Avigliana ed il suo centro medievale, sono ancora ben visibili i resti del Castello dei Savoia: la piazza, lì sotto, è denominata Conte Rosso, nel ricordo della storia di Amedeo VII di Savoia, soprannominato, per l'appunto, Conte Rosso. Questo dettaglio è avvolto tra storia e leggenda: qualcuno parla della sua folta barba rossa, altri dei suoi capelli rossi, qualcuno menziona gli abiti rossi vestiti per la nascita del primogenito, altri ricordano invece la sua ferocia, senza pietà alcuna, in battaglia. Pare, infatti, fosse uno spavaldo, il Conte Rosso. Qualunque sia la realtà di questa storia di un passato lontano, quando Alfredo Di Giovanni e Maria Teresa Vecchiattini ci accolgono in Casa Conte Rosso, nell'omonima piazza, al numero 20, quel nome ci colpisce ed il racconto della sua leggenda avvolge il pomeriggio di un qualcosa di misterioso.

«Non abbiamo voluto cambiare il nome perché è parte di questi luoghi, è identità, ma, allo stesso tempo, abbiamo scelto di aggiungere la parola casa per raccontare una ricerca costante, quella che tende sempre più alle esigenze di chi varca quella porta, che si tratti di un singolo o un gruppo. In ogni caso, si tratta di un ospite e l'ospite è al centro di questa casa».

L'ospite è, tendenzialmente, un viaggiatore e l'idea, nata prima della pandemia, era proprio quella di dar forma a una "casa del viaggiatore", qualcosa di solido e stabile in mezzo alle tante incertezze e alle tante sorprese di ogni viaggio. Qui, ogni persona può parlare di viaggi, lasciar libera la fantasia, sfogliare libri e guide di paesi lontani, magari incrociarsi per le scale con chi vende viaggi per il tour operator "Viaggi solidali", conversare, entrare in comunione con le possibilità e la conoscenza che offre agli umani la vastità del mondo, ma, allo stesso tempo, può distendersi su un letto, ascoltare il silenzio, guardare fuori dalla finestra, cenare al ristorante della Ciclocucina, con i piatti di Fabrizio Platzer e la caratterizzazione riguardante il mondo della bici delle pareti. Nel dehor sulla piazza, ai tavolini, basta una birra fresca, dal Nord del Belgio, nelle Fiandre, una sorta di "madeleine" di Proust per ogni straniero ad Avigliana, un panino con le acciughe, un piatto di spaghetti alle vongole, una cucina casalinga, familiare, dalla carne alla cucina vegetariana, per aver voglia di fermarsi e farsi raccontare tutto quel che si cela dietro la storia del Conte Rosso: il suo mistero e la sua bellezza.

Alfredo sostiene che qui si sia chiuso un cerchio, iniziato in Viaggi Solidali, a Torino, a Porta Palazzo, nel cuore multietnico della città: «Non è stato facile abbandonare il posto in cui siamo cresciuti, ma, un bando ci offriva questa possibilità e sebbene talvolta ci chiediamo chi ce lo faccia fare, poco dopo, torniamo a metterci tutta la cura di cui siamo capaci, perché vogliamo bene a questa idea. In fondo, Torino è solo a mezz'ora di treno, Avigliana è il punto di partenza ideale per andare sui monti, in Val di Susa, in bicicletta o a piedi, e qui il progetto si completa, sulle orme di qualcosa già avvenuto in Francia: la cucina e l'ospitalità assieme. L'ospite e l'oste non sono estranei che si incrociano per caso. All'inizio può essere così, tuttavia noi crediamo in un reciproco interesse umano, nelle domande e nelle risposte, nel lasciarsi qualcosa. Noi crediamo alle porte aperte». In effetti, a ben guardare, la reception dell'ostello è all'interno del ristorante e Fabrizio lavora così, affacciato sulla sala: un'accoglienza differente, in paesi di grande impegno e poche parole. La porta scorrevole tra i due ambienti riporta una gigantografia di Nelson Mandela, attorno scorgiamo stampe originali della Domenica del Corriere di Torino, dedicate alla pista, a Maspes, a Bartali, a Coppi, al Giro d'Italia, alle biciclette e a chi dura fatica in sella, in generale.

Siamo ad agosto, il periodo delle Olimpiadi di Parigi, Fabrizio esce dalla cucina, ha qualche minuto di pausa, poi accenderà il televisore e seguirà le gare di ciclismo su pista: «Volevamo rendere vivo questo posto. Qualcuno si chiude nella propria realtà, noi vogliamo uscire, in semplicità, come siamo, con la musica che ci piace e le voci e le gesta dello sport in televisione, senza la classica tenuta, legati al territorio. Qualcuno ci resta male, perché si aspetta altro, un'altra cucina, un'altra bottiglia di vino. Noi siamo questi ed in questa piazza abbiamo provato a portare quel che non c'era». Il legame con il territorio vive in ogni dettaglio dell'ostello, come narra Alfredo: «I letti sono fatti da un fabbro di Almese, le tende da un'azienda di Avigliana, c'è un tocco industriale, il respiro della storia trascorsa e camere accoglienti per ogni tipologia di visitatore. Spesso ci dicono che non sembriamo un ostello, ma più una sala relax». Alfredo prende il cellulare, cerca un messaggio in una vecchia chat, sono parole di una psicologa della Fondazione Elice di Milano che è stata qui con diversi ragazzi. Rilegge a voce alta una frase: «Non siamo stati ospitati solo da un ostello, ma da una comunità di persone che si sostengono e supportano vicendevolmente e offrono supporto e aiuto ai loro ospiti». Fa una pausa: «Vedi? Qui c'è tutto». Ed è vero, c'è tutto, come c'è tutto in quei ragazzi che, alle loro famiglie, hanno parlato di quei giorni.

In fondo, si sono incontrate due storie simili, perché anche la Ciclocucina di Fabrizio non è nata qui, bensì proprio a Torino, la città in cui nacque la Lancia ed in cui, da giovane, per ben vent'anni, Platzer operava come termoidraulico. In seguito, il licenziamento e, dodici anni fa, un piccolo angolo, circa trenta posti, in zona San Paolo e una trattoria a tema per unire, come si fa con i puntini, due passioni: l'arte della cucina e la libertà della bicicletta nel vento. Undici anni ed il trasferimento ad Avigliana, in Casa Conte Rosso, con gli stessi ideali, perché, l'abbiamo detto, cucina e accoglienza sono in perfetta armonia: la pedalata resistente, dalla zona San Paolo verso il Col del Lys, i libri da presentare e quelli già presentati, le serate musicali, campioni del ciclismo e giornalisti, ma anche gruppi parrocchiali, le nazionali giovanili del baseball, i primatisti del mondo, il triathlon, il pentathlon, le ciclopedalate degli studenti. Nella Ciclocucina dei primi anni, il bancone, le sedie ed i tavoli erano stati lavorati da gruppi di amici: ognuno aveva messo la propria opera in qualcosa, in una sorta di opera collettiva. Successivamente il progetto è stato affidato a professionisti, ma la linea guida è rimasta la medesima: stessi colori, tra il grigio, il giallo ed il nero, una lavagna scolastica appesa al muro, i vecchi tavoli, le strutture in ferro ideate da un fabbro, molti oggetti costruiti recuperando parti di vecchie bici, ma anche portachiavi, magliette e un pensiero costante alla beneficienza, a progetti solidali. E, ogni volta che Fabrizio la raccolta a qualcuno, termina sempre con un invito: «Dovresti venire a vederla». La chiave dell'ospitalità. Un'altra chiave sono le parole e la parola più importante, tra queste mura, è responsabilità, in primis sotto forma di turismo responsabile: «Siamo in territori poco battuti, è necessario dare a chi viene da queste parti la possibilità di conoscerli, attraverso l'interazione e la collaborazione con altre realtà della ristorazione, ma anche con chi si occupa di arte, di laboratori. Siamo una piccola realtà ma, compatibilmente con il nostro mestiere, giriamo molto il territorio e si tratta di un territorio pieno di itinerari: la ciclovia francigena, il Colle Braida, la Sacra di San Michele, la Val di Susa, la collina morenica, poco più in là Bardonecchia e altre infinite possibilità, tra mountain bike e strada».

L'edificio, come detto, è suddiviso in due: ostello e ristorante, sotto, nel salone interrato, un deposito in cui lasciare le biciclette e diverse attrezzature per le riparazioni più piccole, perché davvero tante persone giungono qui in bicicletta. Sono presenti 42 posti letto e ben 52 biciclette possono essere ospitate, qui, sotto le camere, inoltre è in lavorazione una bike room maggiormente funzionale per il futuro, per rendere ancor più completo il progetto e porre ancor più al centro bici e ospitalità, anche quando da questi parti transitano eventi di ciclismo. Alfredo, in realtà, non era un appassionato di ciclismo, però la vicinanza di Fabrizio lo sta coinvolgendo e anche lui si trova a fantasticare sulle imprese di grandi ciclisti: in questo c'è il racconto di quando Platzer andò a vedere Vincenzo Nibali alle Tre Cime di Lavaredo nel 2013, ma anche quello del suo ultratrail delle Dolomiti e la sensazione di fatica senza parole, mista a meraviglia, quando, all'arrivo, ci si guarda attorno. C'è il vento in faccia dei viaggi in Corsica e molto altro. Allora Alfredo immagina uno scambio sempre maggiore tra esperienze e racconti della Namibia, del Perù e di altri paesi dall'altra parte del mondo e storie vicine, delle valli e dei borghi.

Questa, dice lui, è la più grande possibilità che offre la bicicletta e, in Casa Conte Rosso, sta già accadendo. Basta sentire tutte le persone che arrivano qui dall'estero e conoscono il progetto, conoscono la realtà di questa casa del viaggiatore: «Vorremmo svilupparla maggiormente anche all'esterno questa struttura, ma non è facile, perché ci troviamo in un centro storico e siamo sottoposti ai vincoli della sovrintendenza. Noi, tra l'altro, siamo una realtà complessa, perché uniamo più aspetti. Non c'è solo l'ostello, non solo l'agenzia di viaggi e nemmeno solo la cucina: siamo un insieme di cose e abbiamo il dovere di raccontarlo e più riusciremo a raccontarlo più funzionerà. Sogno una navetta che, partendo da Avigliana, possa girare in queste zone e arrivare fino a qui, facendo visitare il borgo medievale, aprendo ulteriormente alla conoscenza di questi posti e, quindi, a nuove possibilità». Il futuro è, per Alfredo, Maria Teresa e Fabrizio, ancora una volta nella parola responsabilità, connessa ad un ostello responsabile: «Responsabilità implica confronto con la realtà in cui si è ed il tentativo e la voglia di intervenire, per consolidarla o cambiarla. Un ostello responsabile è un ostello che si confronta con le difficoltà, che, ad esempio, sostiene chi ha più bisogno, aiuta nella ricerca del lavoro. Difficile, certo, ma essere casa significa anche accettare questa sfida e continuare il proprio cammino».


La dolce vita, Narvik, Norvegia

All'aeroporto di Narvik, era atterrato da poco l'aereo da cui sarebbe scesa Nadia Vaudagna. In auto, in un parcheggio, la aspetta Bruno: è sera inoltrata, ma la luce non abbandona la terra di Norvegia, è luglio, è l'estate del 2023. In città, si dice che Bruno sia l'italiano che vive qui da più tempo, dal 1965, per la precisione, quando vi arrivò, ancora ragazzo, dal Friuli Venezia Giulia, giovane musicista, all'avventura. Nadia è partita da Cavaglià, nella zona di Biella, con lei due ragazzini, i suoi figli, la loro vecchia casa ormai è lontana e non vi farà più ritorno. Fra qualche giorno, a Narvik, anzi, arriverà un vero e proprio bilico con all'interno «tutta la nostra vita precedente». Riccardo Perazzolo, il padre di quei giovani, ha un biglietto aereo prenotato e ben presto seguirà lo stesso volo verso il paese dei fiordi: un volo reale, nel cielo, come quello di un aeroplano, un volo di fantasia come quello delle persone che vanno via e ricominciano da zero, con solo il coraggio. "La dolce vita" è il titolo, una reminiscenza di Fellini, di questa storia ed è il nome di un locale, un bar, caffetteria, gelateria, con le sedie colorate, i dehors più chiari, gli ombrelloni bianchi e i fiori tutto intorno.

Un luogo dove si viene accolti da un bancone con linee che ricalcano un container, su cui sono incisi dei numeri: la latitudine di Narvik, quella di Cavaglià e la distanza dall'Italia alla Norvegia, quasi fosse realmente un container, in viaggio da un porto A ad un porto B: un omaggio al porto di Narvik, affacciato sulle montagne. Chissà, forse, un domani, da queste parti, esisterà anche una rainbow street, una strada colorata dai colori dell'arcobaleno, così sognano Nadia e Riccardo. In città è tutto sfumato tra il grigio ed il nero, questione di storia: della miniera di Kiruna, del ferro che vi si ricavava, della guerra, dei tedeschi, degli inglesi e del centro città raso al suolo. Allora, per "La dolce vita" si cerca il colore, lo si porta. Ma la storia è anche la loro storia, quella di una famiglia nata e cresciuta in Italia che, un pomeriggio, ha chiesto ai propri figli: «Noi vorremmo fare questa scelta, voi sareste d'accordo? Basta un vostro no per bloccare tutto e restare qui, basta un vostro sì per iniziare a muovere passi più decisi». Quei bambini hanno risposto sì e, a distanza di otto anni da una vacanza in Norvegia, sui fiordi, nell'aria leggera e nella natura incontaminata, di un verde intenso, dopo tanti pensieri, altrettanti progetti e molti cambiamenti, un altro volo si è alzato sopra le nuvole.

«La dolce vita non è la nostra. A sera siamo stanchi: la luce continua, in questa stagione, non permette di riposare bene, si perde il senso del tempo. Alle ventuno siamo ancora nel locale e, talvolta, alle due di notte, ci sorprendiamo ancora intenti a fare qualcosa. Non è facile. Forse immaginavamo una vita più semplice, meno impegnativa: non è così. Il tempo non c'è mai, le giornate non bastano. La dolce vita è quella che si nasconde tra le piccole cose d'Italia, che tutti conosciamo perché siamo diventati grandi respirando queste atmosfere: i pranzi e le cene come una festa, a tavola assieme, il caffè ad un tavolino, la possibilità di tirare il fiato e guardarsi attorno, pur con mille problemi. L'Italia è anche questo. Noi vorremmo raccontarlo, a chi a Narvik abita, ma anche a chi vi transita per lavoro o per un viaggio, perché, è vero, la dolce vita non è la nostra eppure non ci manca niente, siamo felici e, soprattutto, guardando avanti, negli anni, non vediamo una nebulosa indefinita, ma una strada, un posto o un tempo verso cui camminare». Nadia, la sera, frequenta i corsi di norvegese organizzati dai volontari della Croce Rossa, e, piano piano, sta imparando la lingua. Riccardo, ormai, conosce le persone che abitualmente varcano la soglia di ingresso del locale e non ha più quel timore che aveva all'inizio, quando le vedeva austere, inespressive, quasi fossero arrabbiate o deluse dal gelato o da quell'affettato. Non lo ha più perché questa è la loro essenza, ma, sulla porta, si voltano sempre e dicono qualcosa di bello sulla loro esperienza. Non a caso, Bruno cita spesso un vecchio detto norvegese: «Meglio farsi perdonare, che chiedere». La musica è in sottofondo e copre i silenzi, la voce bassa di chi conversa nel locale. A Capodanno, invece, i fuochi d'artificio illuminano il cielo e anche nelle case si fatica a sentirsi parlare. Dicono sia un classico, una sorta di tregua dal silenzio.
All'interno di questo locale, l'origano di Pantelleria, i vini della zona di Asti e di Cuneo, l'olio che proviene dall'Umbria, la pasta, molti gusti di gelato, con la frutta ed il latte fresco, al modo in cui Nadia ha imparato l'arte del gelato da sua cognata e come, successivamente, ha studiato, il caffè, quello italiano, per cui non serve il "siru", le essenze di vaniglia e caramello, che vengono miscelate al caffè norvegese, così tostato, così dorato, da essere troppo forte, con un sapore che si cerca di coprire e così via, tutto di origine italiana, fino al pesto ligure con cui vengono condite le bruschette. Qualche tempo fa, il pesto era finito e, per qualche giorno, non sono state servite più nemmeno le bruschette, per quel principio per cui tutto è, per scelta, italiano. «La nostra missione- raccontano Nadia e Riccardo- è quella di portare qui odori e sapori della tradizione mediterranea e provare a diffondere una cultura differente riguardo al cibo. Spiegando, raccontando e ascoltando». Una missione per cui sono necessari tempo e progetti da sviluppare: «L'Italia, purtroppo, a nostro avviso ha smesso di investire sui giovani, sull'istruzione, sulla sanità, e, quando manca questa visione, automaticamente viene a mancare la possibilità di progettare un futuro, allora si va altrove. Oltre che di sci, sono un appassionato di calcio: è già la seconda volta che non riusciamo a qualificarci al Mondiale. Cosa stiamo facendo per modificare questa realtà? Qui ci sono campi a disposizione dei bambini gratuitamente. Lo stesso vale per la scuola. Non una questione economica, ma di immagine e di visione ampia sulla realtà, di sicurezza. L'esempio è pratico: le porte che ci sono qui, basterebbe una spallata per abbatterle, eppure tutti hanno la certezza che non accadrà. Tutto è connesso, si tiene per mano». Già, le connessioni, spesso casuali, tuttavia capaci di legare storie apparentemente distanti.

Allora, Narvik, la città con la stazione ferroviaria più a nord del mondo, con un porto libero dai ghiacci e l'aeroporto, è stata scelta quasi per caso, prima che succedessero tante altre cose: il comune stava rinnovando dei locali che voleva adibire a caffetteria. Nadia e Riccardo conoscono un signore, il cui nonno, nel 1950, in veste di esploratore, arrivò da Bormio, a caccia di pellicce di foca: quell'anziano signore divenne anche console. Il nipote, invece, aiuta la coppia in questo trasferimento, ma non è l'unico. Un'impiegata del comune li sostiene con la ricerca della casa, una delle poche colorate, rossa, in cui ora vivono, e con l'inserimento a scuola dei figli. Si sentono cercati, voluti, a tratti attesi, nonostante il comune abbia altre proposte. Qualcuno ha dato una mano con il trasloco, oppure nel trasporto di un divano. Prezioso, in ogni caso. Fino al momento in cui, come dei paracadutisti esperti, bisogna lasciarsi andare e avere il coraggio di volare: «Non sappiamo come vivranno questa situazione i nostri figli, con il passare degli anni: noi siamo convinti che possa essere una grossa opportunità anche per loro, pur con le difficoltà che sono naturali». Fuori scorrono le ruote delle biciclette che, nonostante le temperature, a volte molto rigide, girano praticamente ogni giorno in gran numero: c'è sempre uno spazio per i bambini e una strada che porta alle Lofoten, dove si tiene la Cicloturistica. Sulle montagne, anche nei mesi di crepuscolo, la neve è sempre pronta ad accogliere gli sciatori, magari con una luce ad illuminare il percorso. Le piste da sci arrivano quasi fino alla città e Riccardo è uno sciatore provetto: quando si scende, pare quasi di sciare sul mare, è suggestivo. Altre volte, sono lunghe camminate ad allietare le giornate, verso i laghi.

"La dolce vita" resta lì, a Narvik, in quel punto esatto, che sembrava casuale, invece non lo è, è perfetto, perché, anche solo cento metri più in là non avrebbe funzionato come, invece, accade, e ogni giorno continua a raccontare: «Ci piacerebbe che questo fosse un angolo in cui mettere da parte gli orologi, le loro lancette ed il ticchettio che pare ci insegua sempre. Perché il tempo che si dedica al cibo, al buon cibo, non è tempo buttato via, non è tempo perso per cui bisogna mangiare di fretta, senza quasi sapere cosa si stia mangiando, senza gustarsi le vivande, senza assaporare il momento. Al contrario, si tratta di un tempo prezioso, però servono anni per impararlo. Dobbiamo dire che qualche segnale c'è e qualcuno, dopo aver sperimentato questa dimensione, la sceglie». Le missioni, si sa, sono affari un poco speciali, per cui serve dedizione e pazienza: un pezzetto di Italia nell'Artico sta provando ad avverare la propria e sembra ci stia riuscendo.


Reverb Hub, Bergamo

Il volo degli aerei sopra la città di Bergamo può essere un'ispirazione perché da lì, dall'alto, attraverso lo scrutare degli occhi ed il rimando delle loro immagini elaborate dalla mente, riescono a nascere e svilupparsi idee e progetti e, cartina alla mano, dalla crescita, dalla maturazione, delle idee e dei progetti si fanno largo, si fanno spazio i viaggi. Il signore irlandese che ora si sta arrampicando sulle strade del Passo San Marco, in sella alla bicicletta noleggiata stamani da Reverb Hub, in via Casalino 5/N, a Bergamo, non è stato il primo a rivelarlo a Federico Bassis che, in questo momento, attende il suo ritorno tra le pareti in legno e quelle in stile industriale di questo luogo fisico, in linea con i colori del marchio 3T, materializzazione di un pensiero, in cui trovarsi per andare altrove. Milano è a poco più di mezz'ora di strada: chi pedala può fermarsi tra queste strade, conosciute attraverso le imprese vissute guardando il Giro d'Italia ed Il Lombardia, la famiglia, invece, può ampliare la propria prospettiva e recarsi in città, magari con i figli, per trovarsi nuovamente a sera. Incontro e dispersione, dopo una condivisione: ci sono gli aeroporti di Milano e Venezia che esplorano i cieli e c'è la ciclabilità urbana e del circondario che setaccia le strade. «Credo sia necessario curare la cultura della bicicletta e del viaggio in bicicletta. In quest'ottica, penso ai cartelli lungo le ciclabili di Bergamo, che non solo indicano il percorso ma lo raccontano anche. Il turista non si sente solo, abbandonato, ma accompagnato. Guardiamoci attorno: vediamo la fascia delle Prealpi con salite che arrivano fino agli 800 metri di altitudine, pedalabili, da gustare lentamente, senza fatica, e poi le salite dure, fino ai 2000 metri, verso le vette, con venti o più chilometri a massacrare i muscoli. La realtà c'è, va conosciuta».

Reverb Hub ha due anime, da una parte il noleggio, «che non è semplicemente e solo prendere una bicicletta in prestito», dall'altra la comunità del Reverb Team, secondo il manifesto e le parole chiave, sotto la cornice "together", insieme, ovvero divertimento, socialità, esplorazione, apertura, alla ricerca di un ciclismo inclusivo e non categorizzante. «Noleggio, a nostro avviso, significa far capire quel che è possibile fare con una bicicletta. Vorremmo trasmettere consapevolezza, aiutare a comprendere, per questo non noleggiamo per mezza giornata, perché servono ore, serve tempo. La nostra chiave di lettura è il legame con il territorio, non chiusura, ma capacità di credere a quel che si ha attorno: solo così è possibile essere internazionali. Senza radici non esiste universo. La trasmissione di qualcosa è la base perché nasca la voglia di andare ed il desiderio di tornare, una sorta di circolo virtuoso, il miglior lavoro che si possa fare».
L'aspetto connesso alla comunità viene curato attraverso ride infrasettimanali e uscite nel fine settimana, dedicate a tutti e, forse, soprattutto agli abitanti della città che ancora non l'hanno esplorata, come spesso accade con quel che è più vicino, a portata di mano o di ruote e pedali. Bassis cita, a titolo di esempio, la zona della Valcava, il laghetto del Pertús, Calolzio Corte, la Valle Imagna, la Costa del Palio ed i Piani di Artavaggio, senza scordare la possibilità di fare portage lungo i fiumi di montagna, in alta quota.

Quel signore irlandese è arrivato qui con delle domande e questo è sempre positivo perché da qui passa la conoscenza e quindi la consapevolezza: «Le richieste spaziano dal peso, alla tipologia di ruote che si possono montare, fino all'alluminio piuttosto che al carbonio o al gruppo elettronico o meccanico in uso. Talvolta, quando si tratta di persone provenienti dall'estero, la corrispondenza inizia già via mail, da giorni prima. Anche questo è un passo in più verso il cliente, qualcosa che possiamo permetterci non avendo una flotta di bici da noleggiare troppo ampia. Si tratta di minuti preziosi dedicati a ciascuno che, da una parte dimostrano il nostro interesse nei suoi confronti, dall'altro permettono di non trovarsi soli di fronte al mezzo e al suo settaggio. Sono sufficienti delle misure corrette della bicicletta per cambiare completamente l'esperienza e dimostrare cura nei confronti del singolo». Ognuno, infatti, ha le proprie esigenze, non solo dal punto di vista tecnico, ma anche rispetto al tipo di viaggio che immagina, ai sogni che ha proiettato sulla bicicletta. Sicuramente Bergamo ha una grossa tradizione di ciclismo su strada e ogni paese vanta una propria squadra amatoriale, tuttavia, nel tempo, si è rilevato un vero e proprio cambio generazionale: i gruppi della domenica, racconta Bassis, ci saranno sempre. Sono coloro che salgono in sella alle otto del mattino, hanno un giro predefinito, con salite classiche, e, intorno a mezzogiorno, tornano a casa.
«Quando parlo di nuova generazione, non mi riferisco tanto ad un fattore di età, ma di abitudini e desideri. La nuova generazione è quella che si è stancata di quel giro sempre uguale e in bicicletta ha scelto l'esplorazione. Sono coloro che vengono alle ride del giovedì e cercano luoghi lontani dal traffico, nella natura». La bicicletta, poi, è lo specchio di quel che si vuole: il gravel è legato spesso a un pubblico più giovane, la bici da strada a un utente di media di quarant'anni di età, spesso anche a stranieri in viaggio di lavoro che, la sera prima di partire, si cimentano in una pedalata più performativa, in generale c'è molta curiosità anche per l'e-bike light, che permetta un'assistenza fluida e dei giri più lunghi, nonostante gli anni che passano.

L'ingresso da Reverb Hub presenta uno spazio libero con un televisore dove è possibile seguire il Giro d'Italia, il Tour de France o qualunque classica: questo è il luogo dell'accoglienza, per le ride e non solo, dove c'è una macchinetta del caffè, qualche bevanda, dove si può ascoltare musica e venire in qualsiasi orario per trascorrere del tempo libero. Il resto del negozio mostra un doppio volto, da un lato, in un corridoio, il lato espositivo, dall'altro quello dedicato al noleggio bici. Il Team Reverb si cimenta in gare e avventure lungo tutto l'anno, dalla gara Uci, al bikepacking in Patagonia sino al bike to work: il luogo fisico dell'hub è importante anche in questo senso perché è il punto in cui confluiscono tutte le persone, tutti i ciclisti, ed in un certo senso contribuisce alla possibilità di riconoscersi, come, in altro modo, fa il tesseramento in una squadra. «Tutti pedaliamo ed è importante farlo in modo rispettoso ed inclusivo. Purtroppo, credo che spesso il ciclismo sia ancora settario, fondamentalmente perché si teme la contaminazione, non si comprende quanto possa essere bella e preziosa. Faccio un esempio: molte persone che si dedicano al gravel, hanno scelto questa strada perché stanche di un mondo troppo performante. Ora, secondo me, però, si sta cadendo in un errore: anche loro temono l'incontro perché hanno paura che il mondo da cui sono fuggiti possa tornare ed intrufolarsi nel gravel. Dall'altra parte, coloro che sono maggiormente dediti alla strada sostengono che il gravel, essendo anche divertimento, sia una perdita di tempo. Penso sia sbagliato, bisogna, invece, provare a coinvolgere tutti, perché la bicicletta, pur in tutte le declinazioni, è una sola».

L'hub è il luogo in cui è fissato un appuntamento e gli appuntamenti contribuiscono a smuovere, a togliere la pigrizia che, talvolta affligge. Anche a Federico Bassis, che a un progetto simile aveva già iniziato a lavorare con Bergamo Experience, al fine di far esplorare il territorio e di mettere a disposizione la propria conoscenza, è capitato, qualche volta, al giovedì, al pomeriggio, dopo pranzo, di pensare che, la sera, avrebbe voluto andare a casa, stare tranquillo, rilassarsi. Poi, d'improvviso, la porta si apriva, arrivava qualcuno, chiedeva quale sarebbe stato il percorso di quella serata, iniziava a raccontare di biciclette, e qualcosa si riaccendeva, la voglia tornava. «Ho sempre desiderato fare qualcosa di simile, trasmettere la mia esperienza, raccontare, entrare in empatia con gli altri e condividere un momento. Ora incontro molte persone, sono sempre in contatto con gli altri e, dirò la verità, non mi immaginavo potesse essere così bello, potesse farmi stare così bene».
Sì, alla fine serve sempre un motivo per quello che si fa, per iniziare a farlo oppure, semplicemente, per continuare, con la stessa intensità e la stessa attenzione, per esserne convinti, entusiasti e Federico Bassis ha ben presente dove ritrovare quella scintilla quando, per qualunque motivo, sovviene qualche dubbio: «Basta ascoltare chi entra qui e mi dice: “Grazie per avermi fatto scoprire quel luogo, è stato davvero bello. Te ne sono grato". La gratitudine delle persone è la cosa migliore che possa capitarti. Di fronte a questo, puoi solo dirti e ripeterti: "Ecco perché lo faccio"». A noi sembra che non faccia una piega e non serva aggiungere altro: è perfetto così. E, se qualcosa manca, basta andare da Reverb Hub per completare la storia. Il signore viaggiatore irlandese è tornato, ha riconsegnato la bicicletta, era felice: ora si torna a casa.


Velo Cafè, Giubiasco

Le strade di Giubiasco sono ancora segnate dall'acqua di un temporale che si è rovesciato sulla frazione di Bellinzona, nel Canton Ticino. Sull'asfalto, la prima calura, mentre asciuga, è regista dei giochi di chiaroscuro che assomigliano ad un puzzle. Ancora qualche pozzanghera, a riflettere un cielo tormentato, schizza acqua sui marciapiedi al passaggio delle automobili. Non appena voltiamo l'angolo, via al Ticino è intrisa del movimento di un qualsiasi mezzogiorno, nel mezzo di una settimana lavorativa. In questo scenario, al numero 23, la corte che ci si apre davanti pare una macchina spazio temporale. Sì, una corte è, letteralmente, uno spazio scoperto entro il perimetro di un fabbricato, per dar luce e aria agli ambienti che vi si affacciano, ma è anche un elemento che sa di altri tempi e di altri luoghi, qualcosa che solletica i ricordi. Velo Cafè abbraccia ed è abbracciato a questa corte, quasi la avvolgesse e ne fosse avvolto, una sorta di mezzaluna.

Davide Antognini, ideatore e fondatore di questo luogo assieme a Giona Sgroi, inizia a parlarci proprio mentre, voltando la testa di qua e di là, scrutiamo la curiosa conformazione del locale: un'idea che arriva direttamente dalla Spagna, la nazione in cui, grazie a diversi amici e a tanti Bike Café, ha iniziato ad "indagare" la bicicletta. «Se bicicletta è sinonimo di viaggio, di spostamento, in ogni caso, anche i locali che hanno a che fare con questo mezzo possono essere, a loro volta, un viaggio: dai tavolini di legno del nostro bar, in mezzo a quadri a tema ciclismo, ad un divanetto, accanto a giornali e riviste, davanti ad un televisore, vicino a maglie di ciclismo custodite con cura, fino all'officina, al centro della mezzaluna e alla coda, in cui sono depositate le biciclette. Vorremmo racchiudere qui tutto quel che può essere utile, necessario, a chi pedala».

Nel frattempo, abbiamo poggiato l'ombrello all'esterno e, davanti ad un caffè, con il sottofondo di bicchieri che si riempiono ed il profumo del pane caldo, avvolto in tovaglioli e portato ai tavoli per il pranzo, Davide ci rivela qualcosa che, forse, ci sfuggiva: la motivazione per cui, nei metri quadrati, dove tanti anni fa c'era un night e fino all'autunno scorso un vecchio negozio di biciclette, è ora ospitato Velo Cafè e la ragione ha a che fare con la mancanza. Se ci pensate è un meccanismo naturale dell'essere umano: ci si accorge di quel che non c'è e si prova a crearlo, a modellarlo: «Sì, in Ticino non esisteva un Bike Cafè: nella Svizzera interna si trova qualcosa, qui no. Visto che gli uomini non hanno la bacchetta magica, era necessario qualcuno che iniziasse, senza strada segnata: non sapevamo quanti caffè avremmo fatto, quante bici avremmo sistemato, quante ne avremmo vendute. Per aprire un bar è necessaria la gerenza, è un costo non indifferente. Non è stato un passo facile, ma se vuoi qualcosa che non esiste, è l'unica possibilità».


La mano di Antognini indica l'altro lato della strada, c'è una ciclabile che unisce Locarno a Bellinzona, nel 2022, ci dice, sono più di 500 le biciclette transitate lì, e più di 15000 le auto passate sulla strada su cui la corte si apre. In Svizzera, infatti, la bicicletta è molto usata: la parte gare si avverte meno, perché mancano molti eventi nazionali, ma le persone si recano al lavoro in bicicletta, oppure esplorano un territorio variegato e adatto: la salita, i 200 chilometri girando attorno al lago, la Val Morobbia, le strade che corrono lungo il fiume, lo sterrato, manca solo il pavè. «La libertà della bicicletta è, soprattutto credo, la moltitudine di possibilità: un campione può pedalare con un giovane alle prime armi o con un anziano. Semmai cambiano i percorsi, ma si può fare, l'incontro è possibile, il viaggio assieme è realizzabile. Altre volte non succede». Giona è al bancone del bar, anche lui ha sempre seguito il ciclismo ed è l'altra metà di questa avventura: Davide è la precisione, anche esagerata, a volte, Giona la capacità di "lasciar perdere, lasciar andare, fregarsene" quando continuare a pensare non fa altro che appesantire le giornate ed il mestiere già difficile. «Al lavoro in un bar ero abituato, l'ho sempre fatto, alle biciclette no. O meglio, non sapevo cosa sarebbe potuto accadere facendone un lavoro, avendole a due passi dal bancone. Però non ero spaventato, questo no. Credo abbia a che vedere con il fatto che, bene o male, la bicicletta fa parte della storia di tutti, da sempre. C'è un nonno che andava a prendere il pane in bici o che seguiva le corse, c'è un genitore, in certi casi un amico che ce ne ha parlato o che, magari, ci ha fatto scoprire il suo significato. Ogni storia è differente, tuttavia sapere che queste fondamenta esistono è un incoraggiamento che fa passare il dubbio». Il progetto nasce ad ottobre dello scorso anno, proprio seduti ad un tavolo, assieme, la frase chiave è: «A febbraio apriamo».

Il 2 febbraio 2024 è un venerdì e in Via del Ticino 23, dove la corte ed il negozio si incontrano, si inaugura Velo Cafè. Una sera in cui volti, voci, musica e caos si intersecano. Ad un certo punto le persone sono così tante che i bicchieri non bastano; il ritratto dell'apertura è così, bello ed imperfetto, come ogni inizio. Il ciclismo è sempre stato al centro, anche in quella notte, anche nell'arredamento: nelle panchine costruite da Davide e Giona, nei richiami del legno dei mobili e dei tavoli, nei quadri, nei dettagli, nelle riviste. «Non si parte perfetti- precisano- perché per partire perfetti si continuerebbe a rimandare fino a non partire più. Non si parte perfetti e ci si aggiusta passo dopo passo, trovando il giusto equilibrio, anche tra lavoro e vita privata, perché abbiamo una famiglia e serve razionalità. Davanti si cerca di mantenere l'ordine, dietro, spesso, il caos più totale. Nel frattempo, il tentativo in cui ci si sforza è quello di capire le persone che arrivano da noi, di comprenderle, non si sa quasi mai se ci si è riusciti. Qualche sicurezza in più la si ha quando si vede il ritorno, chi torna è stato bene, si è sentito al posto giusto, nel momento giusto». Le biciclette sono sempre tante, un via-vai continuo: all'inizio c'era un solo meccanico a lavorare in officina, scelto attentamente, affinchè fosse il migliore possibile, ora sono due, per essere più efficienti, per aggiustare più bici, per «consentire quei cento metri di felicità, certe volte gli unici che ci si può permettere, a qualcuno in più».
Giona prepara un caffè e torna a raccontare: «Nei progetti è tutto diverso: ti immagini tutte biciclette bellissime, preziosissime, da campioni e si prova l'orgoglio di lavorarci. Poi ti scontri con la realtà e la realtà è che spesso si tratta di bici "sgangherate", poco curate, con tanti anni di attività, usate giusto in caso di necessità. Posso dire che è bellissimo anche così, che c'è voglia di fare il proprio dovere al meglio anche su quelle, più che mai su quelle».

Qualcuno arriva per un caffè e una brioches al mattino presto e ne approfitta per una sistemazione al volo, altri pranzano a mezzogiorno e si fermano a parlare con il meccanico, c'è anche chi, se non esistesse Velo Cafè, dovrebbe uscire prima dall'ufficio per riparare la propria bicicletta, invece, così può tranquillamente fermarsi alla sera, magari chiacchierando in dialetto: «Noi proviamo a trasmettere sicurezza, a raccontare la voglia di uscire dalla propria zona di comfort, di fare il primo passo perché, a ben guardare, è solo quello che ci blocca. Dopo l'inizio, è tutto più semplice. Le persone hanno bisogno di ricevere sicurezza». La stessa di Davide e Giona all'inizio, quando, di fronte alla novità, tutti storcevano il naso, qualcuno, addirittura, suggeriva di lasciar perdere «perché ormai le biciclette non vanno più». Evidentemente si sbagliava, l'hanno sempre immaginato, ora ne hanno la certezza. Velo Cafè è diventato presto un punto di incontro, dai più giovani ai più anziani: si organizzano ride domenicali, gite in bicicletta assieme, pedalate con cicloturistiche e triathlon, incontri serali per parlare di ciclismo, feste e aperitivi, mentre la corte si riempie di persone, musica, si canta e si balla. Si griglia anche e si gusta il cibo come una festa.

Se si parla di sogni e di progetti, Davide racconta che sono più parte del presente che di qualcosa che sarà, del futuro. Anche questo è tipico di quello che è all'inizio, che sta prendendo il via, quando le idee fioriscono in un nulla: «Un esempio è quella che chiamo "ciclo-enologia»: ciclismo e vino, anche grazie al binomio perfetto che abbiamo qui con le tante cantine presenti dalle nostre parti. Anche questo era un progetto, ora è una realtà, l'abbiamo fatto, ci siamo riusciti e continueremo a farlo". Qualcuno entra al bar, si affaccia agli altri ambienti, si guarda in giro, chiede se sia possibile accedervi, dopo un cenno di assenso procede, con curiosità. Ci spiegano che accade spesso, proprio perché nel Ticino nessuno era abituato a un locale di questo tipo, è questione di tempo, di abituarsi e di sentirsi a proprio agio, a casa, accolti dal ciclismo, che è la base comune di tutti, il sottofondo che tutti ascoltano.

Dalla corte eravamo partiti, nella corte torniamo prima di salutarci e percorrere di nuovo quella strada ormai asciugata dal vento che si è alzato. Davide ci accompagna, ci dice che fra qualche giorno, nel fine settimana, qui suonerà un gruppo brasiliano, per cui tutto deve essere pronto: con le mani ci indica come si disporranno, dove saranno le persone, dove i tavolini ed il cibo. Ce lo racconta per quella sera e, nel mentre, pensa già ad altre serate, ad altre possibili cose da fare, immaginando già cosa potrebbero pensare le persone arrivando lì, quanto potrebbero divertirsi, essere contente. Si può chiamare in vari modi questo atteggiamento, contiene molte cose, molte sfumature, noi parliamo di progetti ed i progetti sono vicino alle novità. Come Velo Cafè.


Ciclo Shop, Mezzolombardo

«Ma come si fa a lavorare così? Non sei capace. Non vedi che non sei capace? Non vali niente, diamine, niente». A Mezzolombardo, in Trentino, nella Piana Rotaliana, ai piedi delle balze rocciose e spigolose del Monte Fausior, stretti al corso del Fiume Noce, nonno Sergio gridava spesso così a ciascuno dei suoi sette nipoti, dietro la serranda di un locale in cui lavorava duro dal mattino alla sera: all'esterno l'insegna Ciclo Shop. Ogni tanto, qualcuno lo chiamava: «Sergio, la cena è a tavola». Lui rispondeva, sì, rispondeva, ma continuava a fare andare le sue dita, le sue mani, fino a quando la bicicletta, su cui era chino da qualche ora, era a posto, pronta per far scorrere le sue ruote su un'altra strada. Così, se la cena era a tavola alle diciannove, lui si sedeva sulla sua sedia alle ventuno, talvolta anche alle ventidue.

Quei ragazzi, i sette nipoti, sono tutti passati da quella serranda perché, in un modo o nell'altro, quell'uomo li aveva ispirati, attratti lì come accade con un magnete, una calamita: Sergio era elegante, signorile nel portamento, ma duro, a tratti burbero, poco capace, quasi per nulla, di giri di parole, schietto, sin troppo, fumantino, privo di pazienza quando si trattava del suo mestiere. Di fatto era un "tecnico" della bicicletta, quasi un matematico, schematico in ogni riflessione ed in ogni azione o pensiero di azione; un uomo di altri tempi che usava prevalentemente la bicicletta come mezzo di trasporto, anche per gli acquisti del negozio, a costo di ammalarsi per la pioggia ed il freddo d'inverno e per le volte in cui, anche fuori stagione, bisognava salire in montagna, col cuore a mille dentro il petto. Molti anni dopo, Christian Mongibello, uno dei nipoti, ricorda ancora con gusto il modo in cui nonno eseguiva la raggiatura: la decisione del gesto, la precisione ed allo stesso tempo le spiegazioni. Il punto è che, proprio per il carattere di nonno, alla fine, tutti quei ragazzi andavano altrove, si dedicavano ad altro, stanchi dei rimproveri e di quella sincerità pungente. Christian no, Christian restava al suo fianco. Anche negli ultimi anni, quando la vecchiaia e la debolezza facevano apparire tutto grande, gigantesco, per essere intrapreso: succede quando mancano le forze ed a Sergio le forze mancavano da tempo. Allora quando a Christian veniva qualche idea, quando metteva sul tavolo qualche proposta, lui ammoniva: «No, non si può fare. C'è la crisi, non vedi? Bisogna essere accorti, ponderati». Quel locale aveva ridotto le dimensioni, allo stesso modo in cui Sergio aveva ridotto le forze, quasi fossero legati da un comune destino, era diventata una piccola bottega. Fino agli ultimi giorni.

Christian ha memorizzato la data del primo scontrino emesso da Ciclo Shop sotto la sua guida, quando nonno non c'era più: parliamo di marzo del 2017. Quasi novant'anni dopo l'inizio della sua storia, dal bisnonno al nonno, dal nonno alla madre, fino a lui: quei locali sono rimasti patrimonio di famiglia, mentre i vicoli della vecchia borgata di Mezzolombardo sono sempre più pittoreschi. Anche Christian ha sperimentato altri lavori, ma, alla fine, è tornato nella bottega dove trascorreva i sabati e le domeniche. Per certe cose il tempo pare non essere mai passato: c'è ancora qualcuno che, dalla cucina, grida «a tavola» e c'è ancora un uomo che resta in officina, magari fino all'una di notte, a completare un lavoro iniziato. Il senso del dovere è lo stesso di Sergio, come la fedeltà al lavoro. Le forze sono ritornate al loro massimo e con loro la volontà di sperimentare ed inventare: il negozio si è ingrandito, ne è nato un altro, in estate, addirittura, Ciclo Shop, ha tre sedi. La prima, quella di nonno Sergio, per intenderci, ha una grossa scala al centro, simile ad una "gabbia", che accompagna dritta all'officina, un bancone e quattro cavalletti, adatti al lavoro di due meccanici, le biciclette, invece, sono esposte su sei mensole a muro, ogni bici sembra quasi un quadro da osservare in ciascun dettaglio, sino al ripiano in legno dove sono tutte schierate in fila, rivolte verso la vetrina. «Il punto centrale è l'officina: ho immaginato meccanici in "guanti bianchi", completamente dediti al mezzo, con ogni cura e con ogni attenzione. Un trattamento identico per ogni bicicletta, dalla più economica a quella più ricercata, perché non può esserci differenza nel nostro approccio, nella nostra professionalità. Una bicicletta è una bicicletta». In realtà, oltre a questo cardine, a questo principio, ben poco era già fissato. Una cosa sì, quel buco al centro del locale, dove posizionare la scala, «attorno a quella scala tutto sarebbe cresciuto passo dopo passo, giorno dopo giorno, a sentimento». E, all'improvviso, poche parole, pronunciate nella mente, e rivolte a Sergio: «Hai visto? Questa volta sono stato bravo, questa volta puoi essere fiero di me». Quasi a cancellare i vecchi rimproveri.


Un piccolo divisorio, in officina, permette ai clienti di appoggiarsi lì, mentre le riparazioni vengono portate a termine. Le persone ammirano attente e restano sorprese anche dai gesti all'apparenza più banali: ad esempio, da quel setaccio passato sulle bici, a pulirle, prima di ripararle. I tempi sono cambiati, racconta Christian: «Una volta il rapporto con la clientela si costruiva a partire dal ciclismo, oggi accade esattamente l'opposto. Si inizia a conversare di tutt'altro e, ad un tratto, la persona torna in negozio e si sofferma sulle biciclette. Le Social Ride sono pensate proprio a questo scopo: pedalata dopo pedalata, il gruppo si allarga, perché la voce giunge ad amici, a conoscenti, fino a che sai cosa accade? Da quella porta, entrano due o tre persone assieme che si scambiano consigli, mentre passano in rassegna le biciclette e noi professionisti restiamo a guardare. Quanto è bello?». Il segreto consiste nel fatto che, in questi anni di evoluzione fenomenale del mercato della bici, la differenza la fa il servizio, l'unica via per provare a stare al passo della concorrenza via internet, realtà che difficilmente si può contrastare: «Le persone possono fare avvicinare altre persone, attraverso il rapporto umano. Potrei dirla così: il cliente dobbiamo andare a prendercelo. Il rapporto umano è la strada affinché questo avvicinamento sia naturale».

Rispetto al mezzo vero proprio, Mongibello mette subito in risalto come l'estetica delle nuova biciclette sia indubbiamente di pregio, anche se capita ancora di restare meravigliati, senza parole, da qualche vecchio modello, anche i materiali e lo studio su di essi è migliorato, tuttavia, almeno in parte, è vero quel che la gente dice: «Una volta le biciclette duravano di più». «Non a caso, io chiedo ai nostri meccanici di smontare e montare daccapo le biciclette nuove che arrivano in negozio. Talvolta manca la copertura, l'olio, il grasso. Credo sia parte del Made in Italy di una volta che, a mio giudizio, almeno in parte è andato perso negli anni».
Da un lato del locale, si notano chiaramente cinque biciclette, di diversa tipologia e misura, pronte ad essere utilizzate. Christian Mongibello le ha posizionate in quel modo e, prima di spiegarci il motivo, fa un'unica affermazione: «Nonostante le sue varie declinazioni, la bicicletta è una sola». Qualche attimo di riflessione sul principio appena enunciato e Mongibello definisce meglio i contorni del suo pensiero: «Chi si cimenta nel gravel, talvolta, non riconosce pari valore al ciclismo su strada, vale lo stesso viceversa, e questo discorso è replicabile anche per le altre discipline, per le biciclette elettriche, ad esempio. Bisognerebbe spiegare, raccontare che tutte le specialità contengono qualcosa che vale la pena di essere scoperto, vissuto. L'abbiamo fatto più volte, dedicando tempo ed entusiasmo, purtroppo, però, si arriva spesso allo scontro. Quelle biciclette servono per dire semplicemente: "Prova, proviamo insieme", mettendo da parte un sacco di altre parole. Provare è la chiave». Sì, anche per comprendere la differenza tra costo e valore: il costo è il lato economico, il valore è, invece, qualcosa di intrinseco. I due termini possono coincidere, ma non sempre accade. L'aumento dei costi correlato alle guerre ed ai rincari delle materie prime è un dato che tocca tutti, anche Ciclo Shop, anche le biciclette. Difficile, sempre più difficile, in un momento in cui, spesso, il risparmio, o il presunto risparmio, è messo al primo posto, anche se bisogna andare lontano, anche se il costo della benzina o i chilometri annullano il presunto vantaggio: c'è una convinzione di fondo che non si sradica, su cui però è necessario lavorare, provando a razionalizzare il proprio comportamento.

Di sicuro, il Trentino Alto Adige è terra di ciclismo. La terra natale di Francesco Moser e Gilberto Simoni, fra gli altri, due nomi che hanno avvicinato tanti giovani alle due ruote, rinfocolando la passione anche nei momenti più complessi, «simile a quel che Yannick Sinner sta facendo nel tennis». La cima della Paganella è vicina, le bellezze naturali non mancano, in un anello di cinquanta chilometri, comprendente il negozio, si passa dalle ciclabili all'asfalto, allo sterrato, dal lago alla montagna, magari fermandosi nelle cantine che offrono ospitalità per l'occasione: una varietà che stupisce.

Accanto a Christian, c'è il fratello Marco, che ha lasciato un lavoro ben retribuito, un contratto sicuro, ed umilmente ha iniziato ad imparare come si mettono le mani fra gli ingranaggi di una bicicletta. Christian gli ha spesso detto quel che dice anche a noi: «La parte più bella di questo lavoro è avere la possibilità di dare forma a qualcosa di nuovo, qualcosa che prima non c'era, figlio dell'impegno, del talento e della fantasia». Lui ci ha creduto, ci crede, come facciamo anche noi e non solo. Christian ha due figlie: lo aspettano quando esce per i suoi giri in bicicletta con i visitatori del negozio, lo cercano, durante la giornata, nella casa che è proprio sopra il negozio. La maggiore ha sei anni e, quando torna dall'asilo, chiede di scendere in officina a fare merenda insieme a papà. Altre volte è solo il desiderio di stare in compagnia a fare in modo che quelle due bambine corrano a rifugiarsi nel locale. Christian Mongibello sorride compiaciuto, si immedesima in quel che prova sua figlia: in fondo, somiglia molto a quel che sentiva lui, vicino a nonno Sergio ed alle tante biciclette di Ciclo Shop.


Fede Bike Service, Alessandria

Nei pensieri di Federico Pezzano, in quei giorni, non c'era nulla di tutto ciò che, nella descrizione di questo primo pomeriggio di primavera ad Alessandria, tra via Teresa Michel e via Gaetano Donizetti, pare esistere da sempre: il modo di scherzare e di prendere in giro l'essere umano che hanno i ricordi, quando si intrecciano con il fluire del tempo. Pezzano, nel periodo giovanile, aveva intrapreso il mestiere di orafo incassatore, un lavoro particolarmente sviluppato nella sua zona: in un laboratorio, inseriva e fissava pietre preziose di varie tipologie in cavità apposite, predisposte, denominate "castoni", realizzate sulla struttura di un gioiello. Nei momenti liberi, approfondiva, in maniera minuziosa, tutto quel che riguardava i motori e, sin dai diciotto, diciannove anni, seguiva e praticava l'arte marziale del Taekwondo, le biciclette erano altrove. Forse, proprio in una piccola cantina della Lomellina, a cinquanta chilometri dal paese natale di Pezzano, nei dintorni di Pavia, non lontano dalla maestosa Piazza Ducale e dalla Torre del Bramante di Vigevano o dal borgo di Lomello, dove il padre di una ragazza, che ancora non conosceva, faceva il fabbro. Quel signore, anni prima, era stato un ciclista amatore di ottimo livello, con buone qualità, ben noto in zona. Quella ragazza, invece, di lì a poco, l'avrebbe incontrato, sarebbe diventata dapprima la sua fidanzata e successivamente sua moglie. Così pure lui, in quella cantina, era entrato: aveva visto i lavori del suocero e anche la bicicletta di quando era nel plotone dei professionisti. Un giorno, quando le cose si erano fatte serie, prendendolo da parte, quell'uomo si era rivolto a Federico, tra il serio ed il faceto: «Sembra che presto anche tu farai parte di questa casa. Devo dirti una cosa: quando ti metti a pedalare seriamente, ragazzo mio? A casa nostra non si può non aver confidenza con la bicicletta, non è proprio permesso. Sia chiaro». Non c'erano molte alternative: bisognava pedalare.

«La prima bicicletta con cui mi misi alla prova fu proprio la sua. Pensa che lui è sempre stato un uomo abbastanza minuto, non altissimo di statura, personalmente supero il metro e ottanta: per me era quasi una "biciclettina", eppure iniziai proprio così. Mi innamorai, come mi ero innamorato di sua figlia, e la scintilla scoppiò da quella piccola bicicletta». La curiosità ha varie possibilità di applicazione: Federico inizia ad applicarla alle biciclette, nello stesso modo in cui la applicava ai motori, con la medesima passione. Nel fine settimana, gareggia con amici, non solo, è anche il meccanico al seguito delle loro corse: mani sporche di olio e studi ed idee per risolvere le problematiche, prima del via, casco, pantaloncini, guantini e "garùn", come avrebbe detto Alfredo Binda, ovvero gambe, all'abbassarsi della bandierina e al via della contesa. Nel frattempo, a casa sua, aveva preso forma una piccola officina, in cui si cimentava nei primi lavoretti, con tanto di divanetto a rendere l'ambiente ospitale. Non mancava proprio nulla: un lavoro solido e un mezzo, un insieme di viti, bulloni ed ingranaggi, che gli aveva aperto un mondo in cui rifugiarsi a fine giornata. L'equilibrio si rompe proprio in quell'istante, circa sedici anni fa, per volontà di Federico, che si licenzia dall'incarico di orafo incassatore e ricomincia tutto dall'inizio. «C'era un'officina storica di biciclette, ad Alessandria, anch'essa gestita da padre e figlio. Il padre anziano si avvicinava alla pensione ed il figlio mi chiese di proseguire con lui la storia già iniziata: accettai e trascorsi dieci anni fra quelle mura, finché non iniziai ad avvertire una sensazione di malessere, quel posto iniziava a starmi stretto: volevo qualcosa che fosse pienamente mio, sviluppato e costruito attorno a ciò che immaginavo e in cui credevo». Sono sempre varie le ragioni dietro la percezione di "peso" che innesca il meccanismo del cambiamento, pur rischioso: alcune più evidenti, altre celate in dettagli che si vorrebbero differenti. «Ho in mente il bancone su cui facevamo le riparazioni: c'era disordine, attrezzi sporchi e logorati dal tanto uso. Avevo in mente un bancone in cui tutto fosse esposto, perfettamente pulito, ordinato: segno di trasparenza e professionalità. Come quando si entra nell'officina di un fabbro e lo si sceglie anche perché si nota l'attenzione con cui "cura" gli attrezzi del mestiere. Avevo in mente un'attività che fornisse un servizio: parola importante, da spiegare e da portare in una professione».

Federico Pezzano, da solo, metterà le basi di quello che, da lì a breve, sarà Fede Bike Service, nonostante le difficoltà e i dubbi dei primi periodi: «Io ho continuato, nonostante la pandemia che sarebbe emersa di lì a poco, e, da quel giorno, non conto le mattine che ho aspettato felice perché "sarei andato a fare il mio lavoro». Non è cosa da poco". Il fascino per la bicicletta è multiforme, ma l'espressione massima, almeno per Federico Pezzano, è nel meccanismo della ruota, più precisamente nel centrare la ruota: «Credo che il centro di questa "attrazione" sia legata al fatto che la ruota sia l'ultimo contatto della bicicletta con il terreno: un legame finissimo che, però, permette alla bici di sviluppare il suo movimento e la sua velocità. Un fatto che ho sempre osservato con grande attenzione». Allora si può iniziare ad indagare il concetto di servizio, ponendo, in primis, una distinzione tra mettersi al servizio e offrire un servizio: «Il primo concetto si ricollega a quel che prova a fare chiunque si relazioni con il pubblico. Il secondo concetto, quello di cui parlo io, si sostanzia in molte fattispecie differenti: ciò che fa la classica officina, la regolazione del cambio o il cambio delle pastiglie dei freni, ad esempio, e ciò che fa chi si occupa della messa in sella, ma non ci si può fermare qui. Offrire un servizio significa anche rendersi disponibili all'ascolto delle domande e dei dubbi, a prescindere dal fatto che il cliente scelga di far eseguire a noi il lavoro o meno, cercare di trovare una soluzione di fronte a qualunque problema si ponga». La scena più comune, da Fede Bike Service, infatti, è spesso quella di due persone sedute davanti ad un computer per minuti e minuti: l'acquisto avverrà, magari, online, in quell'ambiente, reso familiare anche dal tanto legno presente nell'arredamento, si apre un dialogo fitto, di domande e risposte, talvolta di interrogativi che restano sospesi nell'aria e permettono a Federico di crescere, di aggiungere ulteriore conoscenza alla propria professionalità. Intanto il concetto di bicicletta sta cambiando, gli esempi sono molteplici, quello più vicino a Pezzano viene da "Monferrando", un evento gravel che proprio Federico organizza: «La fatica sfocia in una festa bellissima, dove si trova il gusto di un panino gourmet, un bicchiere di vino, un dolce, la musica, la compagnia e anche una gara conclusiva: non sui pedali, ma cimentandosi nel cambio di una camera d'aria. Le persone, ormai, cercano questa cosa qui». L'attenzione al dato umano è certamente una prerogativa dell'approccio di Pezzano.

«Fare un buon lavoro, se possibile un ottimo lavoro, è importantissimo. Tuttavia anche il lavoro migliore se eseguito senza comprensione della persona con cui ci si relaziona è un passo fatto a metà, sbilenco, mancante di qualcosa. Donne e uomini possono passare sopra l'imperfezione, non passeranno mai sopra al non interesse, alla non empatia. Il motivo per cui riaprono quella porta è questo prima di ogni altro». Nell'ambiente si dice che Federico Pezzano riesca, spesso, a risolvere problemi di fronte a cui altri si fermano, lui ironizza, poi torna serio e aggiunge un altro punto alla lettura del proprio mestiere: «Non mi sento più bravo di nessuno, anzi, penso che il modo migliore di fare questo lavoro sia mettersi alla pari, di chiunque, dei clienti, come dei colleghi, perché solo così si impara e posso assicurare che almeno qualcosa si impara da tutti. I problemi che risolvo? Resto sveglio la notte a pensare fino a che non trovo la soluzione, come accadde tempo fa con un amico a cui smontai tutta la bicicletta la sera prima di un evento. Confesso che gli avevo già cercato una bici di scorta, per il timore di non riuscire a farcela». Del resto, Alessandria vive ancora la leggenda del "Campionissimo", di Fausto Coppi, l'idea della bicicletta sia come mezzo di locomozione che come mezzo sportivo è ben chiara nelle persone, altrettanto si può dire per la cultura della bici, quello che, forse, ancora manca, spiega Pezzano, è la comprensione del fatto che la bicicletta va oltre a questo: basti pensare a quanto fa bene alla nostra salute, alle endorfine che rilascia, alla sua capacità di liberare la mente, a tutta una serie di altri benefici di cui si parla ancora poco.

Al momento della realizzazione del locale, gli architetti hanno stoppato diverse proposte di Federico per l'arredamento del locale, tuttavia le più significative sono rimaste: il park tool in cui sono depositati tutti gli attrezzi da lavoro e l'atmosfera conviviale, in cui «si lavora seriamente ma c'è anche il momento dello scherzo, della battuta, dell'ironia, che è un toccasana», manca una spillatrice per la birra, un piccolo bar, un "bike bar", magari separato da una parete in vetro dall'officina, in modo da preservare un collegamento tra i due rami di Fede Bike Service. L'unico rammarico è il non essere riuscito a trasmettere ai propri figli la passione per la bicicletta, giocano a basket e sono attenti conoscitori di motori, che smontano e studiano in garage, in questo somigliano al padre da giovane. Proprio ad un garage è legata l'ultima storia di questa visita, una storia che torna indietro nel tempo: «Con il fatto che sistemavo le biciclette di tutti gli amici, davanti al mio garage c'erano sempre un sacco di automobili parcheggiate. Una sera, la situazione destò l'attenzione delle Forze dell'Ordine che mi citofonarono, chiedendo informazioni su cosa stesse accadendo. Spiegai, mostrai. Si fermarono anche loro ad osservarmi lavorare. Non è incredibile?». Sì, è incredibile ed è quello che la bicicletta può fare, lo sa Federico Pezzano, come lo sappiamo noi.