Gocycling, Città di Castello
Federico Rossi è nato e cresciuto a Città di Castello, poi, le circostanze della vita l'hanno portato a Milano e lì, nella grande metropoli, ha conosciuto Anna, così una parte della sua quotidianità, negli ultimi quindici anni, ha fatto radici nel capoluogo lombardo. La città, qualunque città, prende, dona, talvolta toglie: da un lato le opportunità dell'agglomerato urbano, dall'altro le mancanze ed è ciò che manca ad essere seme per quel che verrà. A mancare è la natura, l'outdoor, in cui sperimentare quelle biciclette che, anche a Milano, per Federico sono pane, per mestiere e per passione. Ad un certo punto la domanda che si fa strada: «Siamo sicuri che davvero non ci sia altro? Siamo veramente certi di non desiderare qualcosa in più per la nostra esistenza?». Un'esistenza simile pare quasi mutilata e la risposta arriva presto, con all'interno la consapevolezza che altro c'è, deve esserci per forza. Allora torna in mente l'Umbria selvaggia, in cui la natura cresce ed esplode, talvolta divora i sentieri, li ridisegna. Un luogo dove, a otto chilometri dal centro, già ci si perde, tra alberi, rovi, animali selvatici, pastori maremmani: si chiama Città di Castello ed è l'origine.
Federico e Anna ripartono verso una nuova casa, forse due: quella in cui abitare e quella da cui diffondere biciclette e racconti di bici. La seconda sarà in Via Mario Angeloni 7, in pieno centro storico, ed è di questa che vogliamo parlare: in un palazzo storico, dai muri bianchi, dalle volte a crociera, con grandi stanze piene di luce, quasi la portassero dentro, e muri spessi, in cui scavare e riporre libri, quasi fossero piccole cripte riservate alla conoscenza. Al centro della stanza un tavolo da falegname enorme, qua e là vecchie bici appese, quelle del padre di Federico, il primo telaio mtb Bianchi, prodotto negli Stati Uniti d'America, quello di alluminio incollato, una piccola opera d'arte, e ancora numeri delle granfondo e chicche di storia, in un ambiente minimale per scelta. Il locale l'ha scelto Anna, si chiama GoCycling e nasce nel centro storico di Città di Castello, non per un caso, ma per una precisa filosofia, con forti elementi etici, di non facile comprensione immediata.
«Non è una scelta comune, soprattutto in un mondo autocentrico, anche perché la stradina che conduce qui è stretta, in pietra serena, difficile da percorrere con la macchina, caratteristica delle città rinascimentali. Il venditore ci ha subito scrutato stranito, noi abbiamo proseguito- raccontano i due- e ne siamo orgogliosi, altrimenti nei centri storici cosa resta? Solamente bar e tavolini per gli aperitivi serali?». Il territorio che circonda GoCycling è pieno di bellezza, di storia e cultura: San Francesco, Raffaello, Piero della Francesca, musei e chiese di valore inestimabile. La nuova realtà, che ha aperto le porte ai visitatori lo scorso 20 settembre, cerca di restare in sintonia con questo sottofondo: lo spazio commerciale e di "rent a bike" si sovrapporrà con qualcosa che somiglia più a un centro culturale per tutto quel che è outdoor, ovvero piacere e scoperta della natura, delle attività nuove, di nuove idee e nuove invenzioni. La metafora di Federico è esemplificativa: succede come se la provincia, dopo tanto tempo, decidesse di spalancare le proprie porte e di aprirsi all'altro. «Forse è una caratteristica insita in certe zone quella di restare un poco chiusi all'altro, al resto, come se l'altro non interessasse o non fosse importante. La verità è l'esatto contrario: abbiamo bisogno come l'aria di condividere, di chiamare qui persone e bici, sogni, avventure».
Perché, proseguono Anna e Federico, se vi è una sicurezza, un punto fermo, quando si inventa un progetto simile, questo non è certamente in un riscontro economico, necessario, ma sempre sottoposto ai tempi e alle circostanze, bensì da piccoli piaceri quotidiani che un mestiere simile è ancora in grado di consegnare: «Il sollievo del sorriso di chi acquista la prima bicicletta, ad esempio, cancella tante cose che non vanno: più è la prima volta, più il brivido è forte. Si costruisce così una sorta di bagaglio culturale nel rapporto con il cliente: prima di parlare di bicicletta, si parla di dove si vuole andare, di quanto si vuole pedalare per arrivare in quei posti e di come si immagina il percorso. L'anima delle persone e delle cose, per noi, non è solo importante, è fondamentale. La sfera tecnica viene dopo, nonostante anch'io abbia sempre montato e smontato biciclette per capirle meglio. Amo alla follia qualunque bicicletta, per questo proietto questo mezzo in una sfera umana: quella del dialogo continuo, anche con i turisti, del racconto continuo anche delle proprie esperienze».
L'analisi di Federico Rossi è lucida: se il settore bici, a tratti, sembra implodere è perché per lungo tempo si è considerata la bicicletta in maniera troppo fredda, distaccata, come si considererebbe una lavatrice. Allora la bicicletta è divenuta un oggetto asettico, lontano e, quando questo accade, prevale una forma di "machismo" che si concentra solo su numeri e cifre, soprattutto in un tempo in cui è avvenuto un grosso cambiamento e le informazioni tecniche arrivano a getto continuo da qualunque fonte, rispetto ad ogni bene materiale: si tratta di informazioni commerciali, massificate e ultra dettagliate. «Talvolta i clienti possiedono anche informazioni che tu stesso non conosci, ma il gesto della pedalata va oltre quel tecnicismo. Io dico sempre: "Prima fai un giro su quella sella, poi mi racconti se ti è piaciuto, se ti sei divertito". Se ne parla e si interpreta il dato che, altrimenti, non vuol dire nulla: una bicicletta deve comunicare qualcosa. Colui che si interfaccia con il cliente ha il compito di leggere le emozioni del cliente e proiettarle su un mezzo piuttosto che un altro. Questo non potrà mai accadere in un centro commerciale, con turni lunghi, talvolta sottopagati, la domenica pomeriggio: non potrà mai accadere perché quel tipo di logica non lo permette, nonostante la buona volontà del lavoratore».
L'Umbria è una regione che sta crescendo e sta cambiando: il turismo è in aumento, ma anche la scelta di vivere in questa terra viene presa da sempre più persone. La bellissima Toscana, raccontano Federico ed Anna, è sempre colma di persone, qui il processo è differente, tuttavia è in corso. Si esce dal garage di casa e, nel raggio di qualche chilometro, ci si ritrova nel selvaggio, dove è necessario anche fare attenzione ai cinghiali, tra sentieri carrabili, mezzadri, luoghi disabitati che il ciclista medio tifernate, ovvero originario di Città di Castello, conosce. Tuttavia il suo giro classico è di un paio d'ore, con ritorno a casa verso le undici: «Pensiamo sia un peccato e, anche qui, portiamo un dato. Nella zona di Milano, seimila chilometri in mtb corrispondo a 17000 chilometri in auto per giungere in luoghi in cui è possibile pedalare: magari a Biella o in Lomellina. A queste condizioni, si capisce bene quanto sia difficile scegliere la bicicletta, anche il gravel, attraversando le campagne, che, visto il problema sicurezza che vivono le nostre strade, è, senza dubbio, maggiormente indicato, da questo punto di vista. In Umbria la storia è differente. Allora la domanda è: perché non ampliamo quelle due ore di pedalata? Anche qui si tratta di uscire, di aprirsi al resto, all'altro. Vorremmo smuovere le acque, proponendo una giornata e mezza di viaggio, un bikepacking con una notte fuori, magari al sabato ed alla domenica».
Il papà, adesso, è un signore novantenne e Federico si sente fortunato all'idea di averlo vicino, anche in GoCycling, perché è bello e perché è un valore aggiunto, come il tempo che si dedica ad un genitore e come il tempo che un genitore dedica ad un figlio. È felice vedendo le sue biciclette appese al muro, quelle biciclette viste, amate e poi acquistate. Anche gli amici del liceo e dell'università hanno ritrovato Federico e per loro è stato come incontrare l'uomo di città che, per amore, torna in provincia, dopo tanti anni. «Molte volte si ha il timore di iniziare qualcosa di nuovo soprattutto per quel che potrebbe dire la gente se non funzionasse. Abbiamo il timore di essere considerati un poco "sfigati". No, non si è sfigati: se si fa qualcosa con il massimo degli intenti, con passione, senza fare i furbi, senza fare scorrettezze, non si è sfigati nemmeno se non va. Certo, così facendo ci sono notti insonni con le bollette da pagare e tanti pensieri, ma pazienza, va bene così. Me lo ripeto spesso». Nel frattempo la bicicletta per Federico ed Anna continua ad essere avventura, a coincidere con la domanda "chissà com'è quel sentiero?" e con la voglia di andarci. La bicicletta è la meraviglia di quando si vede una bici caricata su un aereo per volare da un'altra parte ad esplorare strade, è risata quando, nel 1999, non si sapeva esattamente cosa fosse un "single track", lo si chiedeva a chiunque ed in molti non avevano risposta eppure tutti non vedevano l'ora di pedalarlo. La fitta rete stradale umbra pone varie alternative, così i ciclisti possono sentirsi maggiormente sicuri, non trascurando mai l'alternativa del gravel, che abbina sicurezza e natura. La raccomandazione è sempre la solita: rendersi visibili ed indossare il casco, anche nei pacchetti turistici che Federico, Anna e GoCycling propongono e dove la responsabilità di garantire la sicurezza di ciascuno è prioritaria. L'auspicio, invece, è che sempre più persone possano conoscere meglio il codice della strada, perché spesso è proprio la cultura di base a difettare.
I piedi, per Federico, devono essere sempre ben saldi a terra, mentre lo sguardo deve avere il più ampio orizzonte immaginabile per sperimentare, creare, inventare. GoCycling è sempre lì e cerca di essere presente nel modo migliore possibile, ovvero con quell'apertura di cui tanto Federico Rossi ci ha parlato. Aperti per un caffè, una chiacchierata, per l'inaugurazione e un prosecco, per consigli e scambi di idee. Probabilmente è per questo motivo che molte persone si sentono proprio partecipi del negozio e quando ne parlano usano il noi: «Dobbiamo fare...». In realtà, a metterci mano saranno sempre Federico ed Anna ma questa voglia di far parte di una realtà è così bella che nessuno osa mai dire nulla e quel "noi" sperano tutti di sentirlo spesso, più spesso ancora.
Locanda Hirondelle, Aosta
Quel nido di rondini, in un angolo, sotto il tetto della locanda, c'era già ai tempi di Rita e Aurelio. Poi le rondini erano tornate, come ogni primavera, e quei due signori avevano pensato che fosse un segno, per questo la loro locanda l'hanno chiamata "Hirondelle", ovvero rondine in lingua d'oltralpe. Qualche anno più tardi, anche Nathalie e Alice Pellissier, le loro nipoti, dopo tanto studiare, viaggiare, provare diversi lavori, avevano fatto ritorno in quel luogo, dove erano cresciute. I nonni se ne erano andati e i ricordi che ne hanno queste ragazze che, oggi, gestiscono questa attività ad Aosta, sono testimonianze, perché di loro hanno spesso raccontato i genitori, Vanda e Livio, magari a sera, comunque in quella locanda visto che Alice e Nathalie, sin da bambine, sono cresciute in una casa che era un albergo, quell'albergo dove lavoravano mamma e papà, dopo nonno e nonna. Erano gli anni degli 883 e di una canzone che recitava «questa casa non è un albergo» e con gli amici, a scuola, ne ridevano, si prendevano in giro. Ricordavano quando, ancora piccole, giravano per i corridoi in pigiama, disseminavano giocattoli ovunque, si avvicinavano ai tavoli mentre i clienti facevano colazione, pranzavano, cenavano e, qualche volta, venivano invitate ad uscire in gita, forse per quella naturale simpatia che suscitano i bambini. «Mamma e papà erano sempre impegnati, di corsa, di fretta, perché questo è un lavoro difficile, un lavoro che toglie tempo alla sfera privata e diventa il centro, assorbe qualunque cosa con cui venga a contatto: nella ristorazione, nell'accoglienza, non esiste il sabato, non esiste la domenica e nemmeno il Natale o la Pasqua. Se queste mura sono sopravvissute a decenni e decenni, lo dobbiamo ai loro sacrifici. Nell'infanzia, però, si desidera un adulto accanto, con cui giocare oppure uscire a camminare. Noi non potevamo chiederlo a loro, così lo chiedevamo agli ospiti che, alla fine, si affezionavano». Allora, fra tanti pomeriggi afosi d'estate, bui di inverno, tempestosi d'autunno e freschi di primavera, indirettamente, continuando a respirare quelle abitudini, Alice e Nathalie avevano imparato quel mestiere. Una consapevolezza arrivata d'improvviso: «Alla fine, noi quello sappiamo fare. E, forse, proprio quello dovremmo fare». Sì, le rondini che tornano a casa, con i primi cieli azzurri della bella stagione.
In gergo si parla di ristrutturazione ed è questo ciò che fanno le sorelle Pelissier appena presa in mano l'attività. Ristrutturare significa mettere a nuovo, pur facendo i conti con quello che già c'è stato, con il passato. L'impostazione di base viene mantenuta, ma alcune scelte si distanziano abbastanza da quello che è l'arredamento classico delle case in Valle d'Aosta, con molti orpelli ed un particolare legno tipico: «L'idea comune è che così si trasmetta calore. Noi abbiamo sempre seguito una filosofia: less is more. Meglio togliere che aggiungere e, togliendo, alla fine aggiungerai. La semplicità, se ben interpretata, non priva di nulla, anzi porta altri significati e le persone se ne accorgono. Il calore qui giunge attraverso la luce ed uno stile nordico: sono chiare le pareti, è chiaro il legno. I colori vengono dai tavoli, dalle sedie, dalle poltrone, dagli elementi d'arredo. Il tutto crea luminosità». All'ingresso si incontra subito la reception a destra ed il bar a sinistra, spazi che, di solito, sono anonimi, poco abitati negli alberghi, in quanto, di base, luoghi di transito per pochi minuti, il tempo di fare il check in oppure di bere un caffè: in locanda "Hirondelle" proprio in questi luoghi vi è una libreria, vi sono dei giochi, per favorire la socializzazione fra gli ospiti stessi e fra gli ospiti ed i gestori dell'hotel. Il sottofondo è in una parola che Nathalie, Alice e Beatrice, loro fidata collaboratrice, hanno fatto propria: sostenibilità.
«Si tratta di un discorso a 360 gradi. Parte dall'alimentazione, ad esempio, dalla nostra scelta vegana, anche se l'etichetta non ci piace, però non si ferma lì: intendiamo un modo di vivere che non causi sofferenza ad altri esseri viventi, che ci rimetta in pari con la natura e con i nostri ritmi naturali. Quelli umani che, troppo spesso, dimentichiamo». Nathalie e Alice parlano anche di loro stesse, del loro modo di affrontare quel lavoro, ad esempio. Il primo impatto le ha messe a dura prova, perché, come i genitori, si stavano lasciando trascinare nel vortice di un'attività che annullava tutto il resto, che prosciugava, attraverso lo stress che c'è, in ogni mestiere, ma era tanto, troppo: «Riconosciamo il merito di mamma e papà, senza alcun dubbio, però ricordiamo anche come passavano le loro giornate. Siamo state distanti per diverso tempo, vivevamo in paesi differenti, ma, quando siamo ritornate ad "Hirondelle", ci siamo dette che, pur ammirando l'esempio, dovevamo staccarcene, per il nostro bene. Solo un'altra strada ci avrebbe permesso di continuare a lavorare qui. La persona deve essere al centro, nonostante il lavoro sia importantissimo. Tuttavia prima noi stessi, poi il lavoro, qualunque lavoro». Di fatto, aprire un'altra via vuol dire lasciare la via maestra, il percorso ed il modo di vivere segnato dai genitori e non è mai facile. Racconta Alice che il cambiamento è stato impattante, soprattutto quando ne ha parlato con la madre che, per cultura, non ha mai detto no al lavoro, ha sempre cercato di accontentare tutti e ha rinunciato a molto per quella locanda, senza rammarico, era soddisfatta: «Ha patito questa nostra volontà di cambiare completamente approccio, soprattutto all'inizio, ed era normale. Per lei è stata quasi una messa in discussione personale. In realtà, alla fine, è come se avessimo vissuto una sorta di psicoterapia transgenerazionale e anche mia mamma, così ansiosa, piano piano ha capito ed ha acquisito morbidezza. Ha compreso che è possibile dire no, che talvolta è necessario farlo».
Un passaggio che non riguarda solo Nathalie e Alice, ma anche Beatrice Durantini, «energia nuova e travolgente», che si è unita all'attività da qualche anno, provenendo dalle Marche ed avendo alle spalle studi in giurisprudenza, perché si era stancata di quel tipo di vita "standard" e cercava altro. A lei i genitori hanno ricordato gli studi pagati, la carriera che avrebbe potuto avere e quella scelta di un lavoro che, a fronte di molto impegno, spesso restituisce poco. Beatrice non ha avuto dubbi e, oggi, "Hirondelle" è una locanda gestita da tre donne: «Ognuna di noi ha portato e porta una propria parte, una propria peculiarità in questo progetto: io con la mia passione per il ciclismo e la bicicletta, Nathalie con lo yoga e la meditazione e Beatrice con questa ventata di aria fresca, attenta alle nuove generazioni, alla città, alla stand up comedy, alla cinematografia. Non a caso organizzeremo delle rassegne cinematografiche, tra cui una retrospettiva su David Lynch, ma anche dei corsi di ceramica e delle cene con delitto. Non mi piace usare la parola orgoglio, tuttavia, sono contenta di questo esempio di imprenditoria femminile, per la sinergia che poniamo in atto, per l'attenzione alla questione di genere e alla questione sostenibilità. Senza perdere la delicatezza». Sì, le persone che entrano in locanda si confrontano con questi temi, spesso, attraverso l'occhiata ad un libro nella libreria, piuttosto che per avere sfiorato l'argomento, senza che nessuno lo imponga, perché non sarebbe giusto e perché dalle imposizioni nasce il conflitto, il rifiuto e questo Nathalie, Alice e Beatrice lo sanno, perché hanno sbagliato anche loro, hanno alzato i toni anche loro per un'idea, pur giusta, e poi sono state male. Da una parte c'è il messaggio che Hirondelle prova a trasmettere, dall'altro, la quotidianità.
«Io e Nathalie fatichiamo ancora a trovare il giusto equilibrio. Qualche volta, soprattutto in estate, quando il lavoro è sempre più ed il tempo libero sempre meno, Nathalie e Beatrice mi vedono stanca e mi propongono di andare a farmi un giro in bici. Bastano un paio d'ore e torno rigenerata». Alice confessa che il suo luogo preferito è un sentiero chiamato Ru Neuf: parliamo, il più delle volte, di antichi percorsi di ruscelli, canali di irrigazione in epoca medievale, che si addentrano nei boschi, nella natura, nel silenzio, per, magari, venti chilometri, sempre in pianura. Democratici, perché possono essere percorsi da chiunque, basta una gravel, una mountain bike, talvolta a piedi. Anche Nathalie e Beatrice, quasi per osmosi, hanno iniziato ad interessarsi di biciclette e ciclismo. Beatrice, poi, avendo anche un compagno pedalatore è «circondata» e non può che imparare cose. Per Alice è iniziato tutto da una vecchia bicicletta e da un viaggio in Sardegna: da quel momento non è più riuscita a viaggiare al ritmo di aerei, bus e macchine. Ha sempre cercato una bicicletta, più simile a lei, con la possibilità di scoprire, addentrandosi in paesini e vicoli che altrimenti non sarebbero esplorabili. Una bicicletta come inno alla lentezza ed alla riflessione.
«Mia sorella Nathalie, invece, è la nostra parte spirituale. Ogni tanto la prendiamo anche in giro, perché i nostri ospiti avvertono questa sua vocazione e si confidano molto con lei, la cercano. Grazie a lei non mi abbatto quando arrivano i momenti difficili, perché mi ha insegnato che se arrivano c'è un motivo, ed è giusto affrontarli e proseguire, trarre ciò che possono darci. Nathalie è il motore di tutto questo. La locanda è un luogo tranquillo, in cui organizziamo anche incontri di yoga, invitando insegnanti, cercando di coccolare chi viene a trovarci, come proviamo a fare sempre».
Inclusività è la parola chiave ed è attraverso questa inclusività che, spiega Alice, dalla locanda "Hirondelle" si guarda il mondo. Certo, perché chi fa il suo lavoro conosce il mondo attraverso le persone che, soggiornando, lo portano fra quelle mura. Bisogna restare curiosi, attenti, è necessario averne cura, proprio mentre si lavora. «La nostra strada è iniziata da poco, impareremo molto e probabilmente cambieremo anche. Però non modificheremo mai la sincerità verso i clienti: non è stato facile intraprendere la via vegana, perché comunque è un lavoro e la preoccupazione di perdere una fetta di clienti poteva esserci. Non li abbiamo persi, nonostante la nostra clientela sia per la maggior parte onnivora, perché hanno compreso la nostra sincerità. Il lavoro crediamo sia questo e speriamo resti sempre questo. Ci sono i problemi, le avversità, le difficoltà, ma il lavoro può nutrire. Anzi, deve nutrire qualcosa nelle persone». Il nido di rondini là sopra, sul tetto, c'è ancora e le rondini continueranno a tornare perché, ormai, è casa loro.
Foto: Tommaso Longo
Palo Alto Bikes, Rivignano
Palo Alto era Palo Alto Market, a Poblenou, Barcellona: una vecchia fabbrica tessile di mattoncini rossi, con una ciminiera che svetta alta nel cielo, il cosiddetto Palo Alto, per l'appunto. Questo spazio, un tempo simbolo dell'industria, oggi pulsa di nuova vita, ospitando giovani artigiani e creativi che ogni mese danno vita a un mercatino, un magico equilibrio tra modernità e tradizione. In Spagna, a Barcellona, Lorenzo Sandrin era arrivato per incontrare Michela, la sua attuale compagna, ma quello strano nome e la scelta di quegli artigiani l'avevano, da subito, meravigliato.
Che a Palo Alto, in California, esistesse già un negozio di biciclette dal nome Palo Alto Bicycles, l'avrebbe scoperto solo anni dopo, quando in via Umberto 79, a Rivignano, in provincia di Udine, i vetri di una piccola vetrina si affacciavano già su un altro Palo Alto Bikes, quello nato dalla sua idea di ricreare quell’atmosfera magica di artigianato moderno. In California, Lorenzo non è mai stato, ma Italo, un signore all'epoca ottantenne, gestore della ferramenta del paese, sì, per trovare suo figlio che vive negli Stati Uniti. «Italo aveva un inglese incerto e le movenze di un padre anziano, ma in quel negozio lontano, riuscì a spiegare che pure nel suo paese c'era una realtà con lo stesso nome. Non so quanto quel titolare, con svariati dipendenti e un giro d'affari importante, potesse essere interessato al racconto della mia storia, ricordo però l'ultima volta che Italo venne da noi e mi narrò questo fatto. Purtroppo Italo non c'è più, ma io lo rivedo orgoglioso come quel giorno e, nella mente, risento la sua descrizione, mentre lo immagino che parla in inglese del proprio paese e del nostro negozio». Così questa è la storia di quel nome curioso, dietro a cui se ne nasconde un'altra, schietta e sincera, come sono i friulani: senza fronzoli, senza retorica.
La verità è che Palo Alto Bikes è nato da una necessità, di più, è nato da diverse insoddisfazioni lavorative. Suo padre faceva il lamierista carrozziere, un mestiere quasi ormai scomparso, dedito alla riparazione degli oggetti in lamiera: che fossero pezzi di una vecchia Alfa Romeo Giulia, di una Lambretta o di un trattore non faceva differenza. Li portava a casa e ci lavorava pazientemente, mentre Lorenzo e suo fratello imparavano. All’epoca uno scooter usato, con qualche sistemazione e una riverniciatura, pareva come nuovo. Lo spazio per tutto questo era l'officina sotto casa, fino a che, un giorno, papà tornò con un telaio in acciaio datato, montato Campagnolo: era il periodo delle biciclette a scatto fisso, della Red Hook. Quell'officina diventò improvvisamente dedicata a quella e ad altre biciclette: Lorenzo montava, smontava, lucidava e costruiva ruote. Michela, di tanto in tanto, passava da quelle parti e le sue parole erano sempre più o meno le stesse: «Che bella la tua manualità, perché non ne fai qualcosa in più? Dovresti provare».
«Di fatto, fu un salto nel buio, un azzardo, seguendo un’ispirazione e un modo diverso di vedere il ciclismo. Ho viaggiato per le principali capitali europee, oppure a Barcellona e Berlino, ad esempio, cercando ispirazione ed imparando tutto quel che potevo captare, per poi applicarlo nel mio progetto. Avevo uno studio di produzione che, però, non riusciva a fornirmi alcun sostentamento a livello economico: dove c'era l'attrezzatura audio, ora ci sono attrezzature per biciclette, la musica degli strumenti è diventata vento tra le ruote e la passione è divenuta un lavoro».
Palo Alto Bikes è cresciuto di giorno in giorno, di mese in mese, di anno in anno: nel primo periodo vi trovavano casa biciclette molto standard, ora in esposizione è possibile trovare brand di nicchia (come BROTHER Cycles, O.P.E.N. e Bombtrack) e qualche ruota in carbonio assemblata a mano. Col tempo sempre più persone sono arrivate qui attratte dalla passione e dalla cura che Lorenzo mette nel suo lavoro. L'attenzione di Lorenzo è stata quella di rimanere al passo coi tempi, ricercare prodotti e soluzioni interessanti e dedicare tempo alle esigenze dei clienti e ai loro montaggi personalizzati. «Credo che questo mondo, quello del ciclismo, si possa dividere in tre macrocategorie: gli amatori, gli agonisti e gli appassionati. Da questi ultimi si trae sempre nuova linfa per le giornate: conoscono ogni salita e ogni altimetria, in vacanza, a tempo perso, vanno in bicicletta, magari salgono al Galibier o al Mont Ventoux, soprattutto conoscono cose a cui gli agonisti non fanno nemmeno più caso, presi dal risultato, dai numeri. Il mio lavoro mi ha permesso e mi permette ogni volta di vedere le diverse facce di questo piccolo universo chiamato ciclismo».
Un gestore, specifica Lorenzo, nel 2025, non può fermarsi alla vecchia logica del negoziante o del meccanico, bisogna, invece, entrare nell'ottica di una sorta di "meccanico 2.0", perché «mi si permetta il gioco di parole, fare solo ciò che paga, in realtà, non paga. Le persone ormai acquistano tutto dal divano di casa: bisogna aiutarle a fidarsi e, al giorno d'oggi, non è facile». Lorenzo non si sente venditore, anzi, narra che quella è la cosa che ha più difficoltà a fare, lui si diverte a costruire bici su misura, per quella persona o per quell'evento, quando, tuttavia, si trova a dover vendere inizia a fare domande, a chiedere, a rovistare fra le varie esperienze, fra le vecchie biciclette per reperire le misure corrette: qualche cliente non è rimasto al passo con i tempi, allora Lorenzo improvvisa, sa farlo bene, gli riesce, e così cerca di capire la persona che ha davanti, quel che vuole, che desidera.
«Mi interfaccio anche io con quello che chiamo "l'arrangismo friulano", un atteggiamento ben riassunto da una frase tipica: “fasin di bessôi”, ovvero "facciamo da soli", omaggio alle capacità ed ai talenti friulani e forse anche un poco alla proverbiale diffidenza di questo popolo. Mi capita che mi arrivino qui persone con biciclette in condizioni abbastanza precarie che, magari, hanno intenzione di fare lunghi viaggi, all'altro capo del mondo: in quel caso serve spiegare, è necessario mettere davanti alla realtà dei fatti. Non sempre capiscono perché è un qualcosa di ancestrale quel modo di fare, quello del pensare di non aver bisogno di nessuno, ma talvolta si riesce a cambiare. Dalla stessa origine deriva l'avversione che spesso, anche sui social, si ha nei confronti dei meccanici, quasi non fossero idonei ad occuparsi delle nostre biciclette perché "faremmo meglio da soli". La problematica è la stessa e vale per ogni zona d'Italia». Il friulano, inoltre, è diffidente, anzi, forse, molto diffidente, ma, una volta che si riesce a fare breccia nel suo scudo, si rivela una persona aperta e calorosa. Bene, in quel momento diventa impossibile anche solo passare dalla regione senza avvisare: ci tiene a mantenere il contatto, la conoscenza, l'amicizia.
Il locale è articolato in due ambienti distinti, caratterizzati da altrettanti, spazi, come fossero due mondi: uno relativo alla vendita con qualche bici in esposizione, l'altro all'officina, con una piccola vetrina ad attirare l'attenzione sul negozio. L'idea è sempre quella di cercare di offrire non solo prodotti e servizi ma anche un’esperienza divertente ed originale al cliente: «Penso, ad esempio, alla Cimiteri Ride, la nostra gravel annuale che organizziamo nel periodo della festa di Ognissanti. Sarà per il nome assurdo o il periodo particolare ma ogni anno attira sempre più partecipanti. Non serve molto: una traccia particolare, i ristori con prodotti appetibili, magari locali. La chiave è mantenere tutto semplice, genuino, anche se non è così scontato: alla fine, si tratta solo di una pedalata insieme, nulla di più. Un altro esempio potrei portarlo parlando delle uscite che organizziamo in notturna, al mercoledì, e, visto che siamo un poco distanti dalle principali città, ci siamo inventati una sorta di tour: siamo stati ad Udine, a Pordenone e in altre località. Sapete il bello? Alcune di quelle persone, che hanno pedalato nei nostri eventi, si scambiano nomi e numeri di telefono e, successivamente, si ritrovano per correre assieme: questo per me è un risultato, forse il più importante».
L'invito di Lorenzo è quello di restituire il maggior potere possibile all'utente finale, un potere che, di fatto, gli appartiene. Per farlo, spiega, è necessaria una sorta di involuzione, un ritorno alle origini. Si tratta di riscoprire le botteghe, dove trovavi non più di una ventina di biciclette, in contrapposizione ai grandi negozi, dove spesso «si vendono scatole vuote». In quelle botteghe, l’utente si riconnetteva con l’artigianato e con una dimensione più umana e autentica. Secondo Lorenzo Sandrin, quando queste due strade – tecnologia e artigianalità, modernità e tradizione – torneranno a incontrarsi, sarà stato fatto un grande passo avanti. È una visione in cui crede fermamente.
Intanto, da quel 9 marzo 2019, sono già trascorsi ben più di cinque anni, quasi sei, a dire la verità, mesi e giorni in cui quel salto nel buio e quella scelta coraggiosa si sono rivelati un successo. Di passi avanti se ne sono fatti e tanti e se ne vorrebbero fare ancora. Crescere, certo, ma con un punto fermo: la natura artigianale, che, ancora oggi, è preziosa e da preservare. Nelle pieghe dell'artigianalità ci sono le origini e le origini sono la base da cui costruire qualunque cosa: anche Palo Alto Bikes, dal nome californiano, dal ricordo spagnolo, dalla base friulana, dalla realtà a due ruote, come due ruote hanno le biciclette di qualunque ordine e grado.
Coco Cycle, Milano
Colin Nicolas Buckley ha compiuto cinquantatré anni nei giorni del Natale e da circa quaranta notti di Natale c'è la bicicletta nei suoi pensieri. Cambridge, dov'è nato, è una città di ciclisti, con al centro l'università, luogo di studio o di ricerca: a scuola smontava e rimontava biciclette da corsa, assieme ai compagni di classe, tuttavia, come ogni amore, c'è una data precisa in cui ci si incontra ed il sentimento si materializza. Per Colin è il 1984 e le coordinate sono quelle del Tour de France, la corsa che ancora oggi è la più bella del mondo nelle sue parole e nei suoi ricordi. Nella memoria quei giorni sono anche quelli del vento in faccia, della velocità in sella e della sua ebbrezza, del suo brivido tipico della giovane età. Ai banchi di scuola si sostituisce il mestiere di meccanico, i suoi attrezzi, la sua pazienza, il suo legame con il ridare vita ad un oggetto: «Se qualcosa non funziona, la mia idea è quella di capire il perchè e agire di conseguenza per sistemarla, perché "riparare" è un bellissimo predicato verbale. Ciò che è guasto è semplicemente fuori posto, fuori dall'ordine naturale delle cose e gli esseri umani, con il loro lavoro, possono ristabilire quest'ordine, in questo modo le cose tornano a funzionare e riacquisiscono la propria luce. Si tratta di una missione».
Non è un caso che le biciclette di Colin siano per la maggior parte datate, antiche, in acciaio, magari plasmate quarant'anni fa: attorno a loro si racchiudono le varie esperienze che ha raccolto in giro per il mondo e, poi, al suo arrivo in Italia, nel 1992. Parla perfettamente in italiano, si scorge l'inflessione britannica e con orgoglio ed un lieve tremore delle corde vocali afferma: «Molte persone mi cercano e se io cambio luogo, città o paese, loro viaggiano per portarmi nuove e vecchie biciclette. Viaggio con un bagaglio di esperienze che riapro non appena tocco una bicicletta». Colin Nicolas Buckley smette per un attimo di parlare e si affaccia alla vetrata che guarda via Gerolamo Tiraboschi, a Milano.
Cosimo Capobianco ha conosciuto Colin circa vent'anni fa, mentre lavorava nel settore librario, tra librerie e case editrici. In quel periodo Cosimo era in una libreria tra via Indipendenza e Piazza Vetra proprio a Milano, Colin, invece, aveva appena scoperto Granciclismo, la casa delle biciclette fra le più belle che c'erano, le Cinelli di Antonio Colombo. Una sede era a Cesena, un'altra proprio in Piazza Vetra: duecentocinquanta metri di negozio e vetrate e vetrine su tutte le tre facciate. Il design era innovativo, si potevano acquistare le prime borse provenienti da America e Giappone ed anche Colin nel 1993 aveva comprato qualche bicicletta da loro, spendendo gran parte dei propri risparmi. Colin e Cosimo si incrociavano tra la via e la piazza: tra chi cercava un libro e chi ammirava quell'universo a due ruote. Il caso volle che la libreria venne chiusa e Granciclismo dovette trasferirsi e finì proprio in quei locali, accanto al parco delle Basiliche di Milano, ancora tra vetri e vetrate. Forse è quello il momento in cui le strade di questi due uomini tornano ad incontrarsi: Cosimo non vorrebbe più «dipendere da nessuno» se non dalle persone che entrano nel negozio, sogna un locale pieno di bici e ciclismo perché è anche la sua passione. Di più: vorrebbe costruire qualcosa di nuovo, partendo dall'inizio e crescendolo come si crescerebbe una creatura. Quanto a Colin è sempre stato meccanico, non ha mai abbandonato le sue biciclette, e pare la persona giusta, al momento giusto. Anche Cosimo guarda fuori, verso via Gerolamo Tiraboschi: ad agosto è nata una società, il 12 settembre hanno preso possesso dei locali al numero 8 e da quel momento, piano piano, stanno mettendo assieme Coco Cycle. Sì, Coco come Colin e Cosimo.
Si tratta di un'officina di riparazioni in cui chiunque arrivi può domandare qualunque tipo di riparazione, per ristabilire quell'ordine e riportare quella luce di cui parlava Colin: «Il nostro- raccontano i due- vuole essere un lavoro onesto, spinto dalla passione. Il progetto è quello di offrire un servizio di un certo livello, atto a soddisfare le aspettative delle persone. Le domande sono semplici: perché si continua a cercare il nuovo, si vende e non si ripara più nulla? Perché la vecchia bicicletta di papà o di nonno viene definita cancello? Perché le botteghe dei genitori vengono abbandonate al loro destino e nessuno vuole più prendersene cura? Perché il mondo corre veloce, forse anche troppo veloce, si acquistano pezzi nuovi su Amazon, magari non si sa nemmeno come utilizzarli, si è disposti a pagare qualcuno per montarli, non per aggiustare e questo fa perdere l'anima agli oggetti». La realtà è che, non appena si scopre il restauro e la nuova vita che ne deriva, le persone restano entusiaste. Ogni tanto Colin prende un libro, smette di maneggiare ingranaggi e attrezzi e inizia a sfogliarlo, a mostrarlo, a raccontare quel che c'è scritto e da lì spera derivi la consapevolezza, in chi ascolta mentre aspetta la propria bici, dell'altra lezione che consegna il riparare, l'aggiustare: la possibilità di conservare la storia di una bicicletta: «Le persone hanno un tempo limitato sulla terra, se ne vanno e portano con loro tutto il vissuto. Penso a Coppi, a Maspes, a Gaiardoni, a Magni: quanto hanno vissuto e custodito? Io lo dico ai ciclisti: dovete scrivere libri perché non si può sprecare tutto ciò che provate sulla vostra pelle, è un patrimonio. Quando le persone scoprono degli scritti, si fermano, pensano, ascoltano, leggono. L'universo è immenso, eppure la bicicletta compie questo piccolo miracolo, avvicina, cancella anche le distanze interpersonali. Se restaurata, sistemata, preserva la memoria di ciò che scompare o potrebbe scomparire».
Per questo la maggior parte dello spazio in Coco Cycle è dedicata all'officina e le pareti sono attrezzate con accessori e ricambi: le bici nuove sono poche, solo alcune in vetrina. Lo spazio non è moltissimo, ma è un piccolo mondo in cui c'è tutto quel che serve per custodire una bicicletta. Sono partiti da zero ed il “piatto”, questa è la metafora culinaria utilizzata, non era già pronto da servire a tavola, bensì da costruire passo passo, come il locale, dandogli forma di giorno in giorno ed aggiungendo accessori, scelti e collocati personalmente. Il palazzo è antico, risale ai primi del 1900, ristrutturato solo ultimamente, molto luminoso, perfetto per un mezzo "verde", legato alla natura, come la bicicletta: la pavimentazione è uniforme, consiste in un mosaico colorato, di quelli dei vecchi tempi, facile da pulire, il soffitto è alto.
Si stanno sbrigando le ultime pratiche burocratiche e l'insegna non c'è ancora, ma il messaggio a chi arriva lo trasmette l'accoglienza: «Ognuno si relaziona con la bicicletta in un modo personale ed è a maggior ragione per questo che ciascuno deve essere ascoltato e rispettato. A noi interessa l'individuo: nulla cambia che pedali contro il vento, correndo su strada, oppure che accompagni i bambini a scuola. La porta è aperta a tutti, cerchiamo di mettere a proprio agio perché nessuno deve avere timore qui dentro ed il rapporto che si può instaurare attraverso una riparazione è differente da quello che si crea con la vendita: in quest'ultimo caso, si parla solo di quel che si ha, della novità per l'appunto, nel caso di una riparazione, invece, il dialogo è a tutto tondo. Il cliente chiede quali prodotti utilizzare, cosa cambiare, se un copertone da strada piuttosto che un altro, nascono idee, ci si scambia suggerimenti, si pensa a come personalizzare quella bicicletta, magari con una sella particolare. Spesso il cliente ritorna e chiede ancora un parere: è il modo di rendere partecipi di quella storia, di quella piccola antichità. La cultura della bicicletta è anche questa e si diffonde proprio così, nello scambio di esperienze». Il rapporto e la conoscenza del mezzo variano a seconda del tipo di utilizzo: raccontano Colin e Cosimo che talvolta chi pedala per utilità, per spostamenti, di fatto quasi non conosce il mezzo, qualcuno ha confessato di non sapere che le ruote andassero gonfiate. Diverso è il caso di coloro che della bicicletta hanno fatto uno stile di vita, una delle tante letture della quotidianità: certamente l'approccio è cambiato, soprattutto da parte dei giovani.
Cosimo pensa a suo nipote: «Ha quattordici anni e vedo la sua generazione; pedalano poco, utilizzano la bici solo per necessità, noi la consumavamo da quanto la sperimentavamo. Sto pensando ai parchi pubblici, negli anni settanta, quell'innamoramento che pare andato perso. Qualcosa di simile mi pare di vederlo rispetto ai libri, alla lettura ed è una piccola malinconia, una forte nostalgia». Ogni tanto qualcuno cambia idea e quello che un tempo era considerato un "cancello" viene d'un tratto visto come un prezioso gioiello: è l'opera di un meccanico a cambiare la visione. Allora tutti se lo tengono stretto, non lo mollano più.
Colin, a Cambridge, lavorava in una piccola officina, erano i primi tempi ma una cosa la ricorda chiaramente ed è un'eco che persiste: la felicità non arrivava con lo stipendio, ma era una sorta di restituzione che si sviluppava quando qualcuno sorrideva contento vedendo la propria bici di nuovo in ordine. Ha imparato lì l'etica del lavoro: fare bene, a prescindere da tutto e tutti, perché è un dovere, perché, a sua volta, fa bene a chi di quel lavoro usufruisce. Lì fuori c'è sempre Milano, una città in cui per le biciclette, per i ciclisti si dovrebbe fare di più, ma i primi passi si stanno muovendo: «Parliamo delle migliorie alla ciclabilità, dei restringimenti di strade larghe e di una consapevolezza che è crescente rispetto alla necessità di proteggere i ciclisti e, magari, a diminuire le automobili, perché in sella si respira meglio, si viaggia meglio, si arriva anche prima, Tuttavia parliamo di una città che si blocca completamente ogni volta in cui piove, piena di sensi unici, con strade con pavè e qualche volta con asfalto non troppo curato, con i binari dei mezzi pubblici. A volte sembra quasi non ci sia il desiderio di aiutarti a pedalare, di permettertelo, a forza di frapporti ostacoli, laddove invece sono necessarie infrastrutture e talvolta anche multe: sì, i controlli sono fondamentali perché ciascuno rispetti la legge, perché si possa creare una sana convivenza».
Quando piove, Colin si veste, si copre, poi sale in bicicletta e pedala verso Coco Cycle: si bagna? Certo, ma dice sempre che qualche goccia d'acqua non è nulla rispetto al piacere di respirare l'aria fresca, di non chiudersi in un'automobile per minuti e minuti, talvolta ore. La sua felicità è condivisa, perché di storia in storia racconta anche questo a coloro che entrano nel locale e tutti quelli che provano iniziano a sentirsi bene, a non temere più qualche goccia d'acqua: può anche essere piacevole. Intanto Cosimo e Colin continuano a lavorare, ad aggiustare, a sistemare, a rimettere a posto, in ordine. Del resto ce l'hanno detto; riparare è un bellissimo predicato verbale.
Atelier Boldrini, Aosta
La parola atelier deriva dal francese antico "astelier" che, a sua volta, proviene da "astelle" ovvero piccola scheggia di legno di quelle che cadono a terra durante le ore di lavoro degli artigiani del legno nei loro laboratori, scarti di lavorazione che parlano di un mestiere antico. A Le Pont Suaz, Aosta, presso l'omonima frazione, al civico 51, nasce, nel 2008, proprio un atelier. Nel linguaggio comune la parola si riferisce in generale al lavoro artigianale, può essere adottata per le confezioni, la sartoria, la pittura oppure l'arte in generale, ma questa bottega riprende le origini del vocabolo, quasi fosse lo studio di un linguista, il lemma di un vocabolario.
Si chiama, infatti, Atelier Boldrini perché è un ricordo di quando si era bambini e si trascorrevano interi pomeriggi nella falegnameria di nonno: storia di Roberto che, cresciuto, era diventato istruttore di sci e non c'è nulla di strano, anzi, forse è proprio naturale perché fuori da quella falegnameria la neve cadeva densa e le cime delle montagne, tutte intorno, la custodivano fino a tarda primavera, cullata dal freddo. Roger e Mathieu, i suoi figli, intanto crescevano: avevano una bicicletta che usavano per andare a scuola e per recarsi agli allenamenti sulle piste da sci, magari per fare resistenza. Forse fu questa "l'America" di quei ragazzini che, qualche anno dopo, quando Roberto abbandonò il lavoro sulla neve ed iniziò a lavorare in un negozio di biciclette, avevano già familiarità con quel mezzo. La rivoluzione copernicana, però, l'ha attuata Roberto decidendo di mettersi in proprio ed ecco, come in un cerchio, siamo tornati all'inizio di questo racconto. Ad "astelle", alle schegge di legno e ad un atelier della Val d'Aosta. Da quel momento, le estati di Mathieu erano fra quelle mura, anche se aveva solo poco più di sedici anni. L'anno della maturità è quello in cui inzia a tutti gli effetti a collaborare in negozio, dove, dal 2020, si unirà anche Roger: «Un fratello è quella persona con cui è tutto più facile: discutere, gridare, litigare, non parlarsi, ma anche chiarisi ed abbracciarsi. Roger conosce ogni aspetto della meccanica, a lui devo l'ordine e la precisione. Non è facile, certo, perché portare il lavoro in famiglia non lo è mai. Allo stesso tempo, però, qualunque cosa accada qui dentro ci riguarda tutti: il traguardo è comune. Le discussioni si oltrepassano così».
Era un piccolo negozio in una piccola città quanto è piccola Aosta: è cresciuto con il passare delle stagioni ed ora, cinquecento metri più in là, sono duemila metri quadrati di attività, su due piani, con un'officina di centocinquanta metri poco distante dal negozio: «L'ingresso dell'officina si affaccia sull'unica ciclabile che passa in Valle d'Aosta: qualunque pedalatore che abbia un problema può richiedere assistenza. I nostri meccanici possono usare i martelli e noi possiamo conversare con i clienti nel silenzio. Così è più bello». Atelier Boldrini crede nella possibilità di ascoltare le persone e cercare di farle tornare a casa soddisfatte per la qualità del lavoro svolto e la qualità coincide con il rispetto della parola data, in modo preciso, con la fiducia nel fatto che ciò che si dice diventerà un'azione, che le promesse, di Roger, Mathieu, di Roberto e del ragazzo dipendente, non sono vane. «Noi ascoltiamo con molta attenzione le richieste di ciascuno e agiamo su quella base, non cambiamo nulla, se non avvisando il cliente. Penso al nostro ruolo come ad una guida: ci sono le domande, ci sono le risposte e credo ci sia un'etica precisa. Personalmente consiglio sempre al cliente la bicicletta più adatta a lui, in base al suo livello di abilità e di esperienza in sella: non mi interessa vendere una bici che costa di più, anche se l'avventore può permetterselo, anche se il nostro guadagno sarebbe maggiore». La bellezza deve andare d'accordo, essere in perfetta sintonia, con la comodità perché se manca quest'ultima le persone smettono di pedalare, anche fosse per spostarsi in città e sbrigare le commissioni di giornata. Molti ciclisti arrivano in atelier con notizie acquisite da internet: in questo caso il dialogo è importante, ma non si forza più di tanto la mano, perché è sbagliato e perché il miglior modo di comprendere, anche quanto siano erronee certe convinzioni è di farlo da soli, da qui nasce la fiducia.
«Alcune volte si discute, succede che qualcuno vada via, senza acquistare nulla, magari deluso. Altrettanto vero è che è già capitato che, poi, ritorni e si fidi, magari diventi un cliente fisso. Ecco: non esiste soddisfazione maggiore. Tenere la barra dritta, non rinunciare alle proprie idee e constatare che, alla fine, vengono comprese, fatte proprie. Questa è la nostra filosofia». Un tavolo, all'interno di Atelier Boldrini, è il luogo destinato alla lettura, magari a vedere la televisione, dove le gare vengono trasmesse a ciclo continuo. Ogni tanto succede una cosa speciale: alcune persone entrano in atelier e non lo fanno per riparare una bicicletta, per noleggiarla o per acquistarla, ma solo per parlare, per chiacchierare, per trascorrere qualche minuto di buon tempo. Anche perché nella zona di Aosta e dintorni, da novembre a marzo le biciclette vengono usate ben poco a causa delle temperature spesso rigide: «Purtroppo non siamo nel Nord Europa, dove si pedala anche con cinque gradi sotto lo zero e con la neve che cade. Da noi, talvolta, si preferisce avere la bicicletta bella e non usarla: una logica che non capirò mai. Nel nostro caso, parlo della Valle d'Aosta, siamo una piccola regione che necessiterebbe di una struttura comunicativa più vasta per i tanti turisti che transitano da queste strade. Magari un sistema di app più semplice per scaricare tracce nei dintorni che permettano di pedalare tutti i giorni, perché non è raro che si scelga l'automobile per percorrere un tragitto molto breve che in sella sarebbe percorribile anche più velocemente, sicuramente in maniera più salutare». Per chi pedala nella zona, il consiglio di Mathieu è quello di esplorare la zona della salita del Gran San Bernardo, dove fino a qualche anno fa si organizzava anche una gara: 36 chilometri di salita, percorsi a cronometro.
Ora quella gara non c'è più, ma resta un posto "magico": «Inoltre siamo vicini alla telecabina che porta a Pila: chi noleggia qui le bici, può salire lassù e lassù c'è davvero tutto quel che si può sognare in bici, compresa una piccola mappa con il tracciato delle piste da downhill e di quelle per le famiglie. Vero che noleggiare è più facile in alta montagna, ma questo è indubbiamente un punto a nostro favore». Al piano superiore è presente un vero e proprio showroom, un open space con anche abbigliamento e scarpe.
In estate, in officina, lavorano tre ragazzi: quando un nuovo cliente arriva con una bicicletta, si compila una scheda, con tutti i dati necessari: la raccomandazione di Mathieu è quella di scrivere ogni dettaglio in fase di accettazione, dalla "a alla z", in quanto la chiarezza permette di lavorare meglio. Vi sono tre postazioni: «Al termine di ogni operazione bisogna ripulire ed ordinare tutto: le biciclette, invece, vanno lavate e pulite prima di aggiustarle. Mi sembra il minimo e non solo perché in questo modo non si perde tempo a cercare attrezzi nel disordine: pensiamo ad un ristorante con una cucina sporca, chi ci andrebbe? Che impressione ne avrebbe? Ovviamente vi sono delle differenze, ma il ragionamento è lo stesso, l'idea che si trasmette la stessa. il cliente viene poi avvisato con un messaggio su whatsapp della conclusione del lavoro e con l'occasione può anche richiedere il conto o altre specifiche». Quando Mathieu ha iniziato a lavorare era giovane ed ha imparato tutto da suo padre, da un paio d'anni ha preso in mano le redini dell'atelier ed ha così affrontato la realtà di un mestiere tanto bello quanto complesso, per esempio nel far quadrare i conti e nel conciliare quella che era una passione con quello che è un lavoro con tutti gli obblighi ed i doveri che ne conseguono: c'è meno tempo per le pedalate, resta intatta la voglia di far bene quel che si fa, con il giusto equilibrio, senza dimenticare mai che, in fondo, la bicicletta è lo strumento che gli permette di mantenersi e questo fatto deve meritare tutta l'attenzione possibile, in dedizione e studio.
Mathieu non è mai stato un "fanatico" del ciclismo, però l'ha sempre praticato ed è particolarmente attento ai più giovani che salgono in sella. Il vento sta soffiando a favore, per usare una metafora, perché indubbiamente tutti i campioni dell'ultimo periodo sono fonte di ispirazione per i bambini ed i ragazzi: «Sono fiducia pura, stimoli che giungono che li invitano a provare questo sport. Da bambini colgono soprattutto il valore legato all'amicizia, più avanti, diciamo dai quindici anni in su inizia ad esserci qualcuno che vuole che il ciclismo diventi un lavoro o comunque anche solo la possibilità di competere, di fare a gara. Si tratta di qualcosa di speciale perché la bicicletta, da un lato, permette la fatica, la esalta, dall'altro è anche la possibilità di liberarsi dalla fatica stessa, magari attraverso una discesa, liberi al vento». Le tradizioni sono importanti in atelier, così importanti che si parla in dialetto valdostano e ci si sente a casa: anche l'altro ragazzo che Mathieu vorrebbe assumere dovrà abituarsi a questa consuetudine.Roberto ora ha sessantacinque anni, va ancora in atelier, anche se Mathieu e Roger continuano a dirgli che non potrà lavorare per sempre. Lo si guarda in volto mentre li osserva all'opera e si comprende, a vista d'occhio, quanto sia orgoglioso del fatto che i suoi figli lavorino assieme. Già, Mathieu e Roger che hanno compreso sino in fondo il suo insegnamento rispetto all'onestà, a costo di essere anche troppo buoni. Mathieu e Roger che lo vorrebbero vedere più spesso a pedalare e faranno di tutto perché sia così. Del resto, cosa c'è di più bello di vedere in bicicletta qualcuno a cui vogliamo bene.
Motovelodromo Fausto Coppi, Torino
In qualche cassetto di fotografie di qualche vecchia casa torinese si ritrovano fotografie di quando, in Corso Casale, al Motovelodromo "Fausto Coppi", le voci e le mani a rumoreggiare nell'aria erano tutte per il momento d'oro del football americano ed i rugbisti, con le loro mete, erano di ispirazione per le nuove generazioni. Un signore anziano narra di aver incontrato Fausto Coppi, qualcuno, più audace, racconta di aver corso con l'Airone. Magari, come è accaduto a Benedetta Lanza, un vicino di casa, in una mattina come tante altre, si lascia andare ad una confessione: «Sai che ho aggiustato biciclette per trent'anni in quel Motovelodromo?». Non lo sapeva Benedetta, pure se il quartiere è lo stesso e mattine di autunno, ancora buie, prima di andare a lavoro, ne ha viste tante, mentre anche quel signore saliva in auto. Diari dei ricordi che, casualmente, ogni tanto riaprono coloro che oggi hanno dai sessant'anni in su. I più giovani parlano dei mercatini dell'usato che si svolgevano ad inizio degli anni 2000 proprio laddove una volta le biciclette sfidavano il vento. Memorie, memorie storiche che hanno in comune un luogo e tante vite, tante quotidianità, giornate andate, tanto tempo fa, al Motovelodromo. Ma nelle scuole, nei licei, cosa resta di tutto questo? Perché quei ragazzi non erano ancora nati negli anni venti del novecento e questa storia la possono conoscere solo attraverso qualche libro, se sono curiosi, appassionati forse. Ma è giusto così? Il tempo passa e non può fare nulla, le persone, invece, sì. «Ad una certa età è possibile restituire- ci dice Fabrizio Rostagno- ed è un verbo molto bello, perché si avvera solo ad un certo punto della vita: quando hai tante fortune ed anche tante sfortune ma, in ogni caso, tanti giorni alle spalle. Perché anche gli studenti del 2024 abbiano la stessa memoria, pur declinata in un tempo diverso, è necessario restituirgliela ed il modo per farlo è restituire a tutti il luogo storico in cui si è costruita ovvero il Motovelodromo "Fausto Coppi".
Parliamo di due ettari e mezzo di terreno in centro a Torino, di un immobile storico, ma non è pensabile restituire nulla se non rendendolo attuale, dinamico, animato». Fabrizio Rostagno è ora CEO di Sport4Good, società che si occupa del restauro architettonico del bene, e presidente della SSD a RL Motovelodromo di Torino, Benedetta Lanza, invece, è responsabile delle relazioni con il territorio e della progettazione sportiva con carattere sociale, la cosa più importante da dire, però, è che, senza un bando del comune di Torino per la concessione per sessant'anni del Motovelodromo, questa storia non sarebbe mai esistita. E in Corso Casale sarebbe rimasto un cumulo di ricordi, attaccato ad un luogo abbandonato di cui la memoria non si è presa cura. Era il mese di dicembre del 2019 e Fabrizio, torinese doc, proprietario di vari circoli di padel, nessuno dei quali a Torino, partecipava al bando, quasi per gioco. La realtà spiazza ed invade i disegni degli esseri umani: quel bando lo vince. Il possibile nasce in quel momento.
La successione di eventi è mirabile, nonostante una pandemia di mezzo: il bando Muoviamoci della Compagnia San Paolo, assieme all'impegno di Rostagno, permette il restauro della facciata storica. L'idea centrale è quella di rispettare la storicità del luogo, di valorizzarla e di iniziare l'attività sportiva al più presto. Passano mesi e per le tante volte in cui Benedetta Lanza, che inizia a collaborare nel giugno del 2020, si chiede se mai ce la faranno, altrettante volte Fabrizio le ripete di essere sicuro di farcela: «Per me è una visione: quando hai una visione, spesso non c'è nulla e gli altri possono anche non crederti, ma la visione resta, lì, nel cassetto. Se trovi qualcuno, anche solo poche persone che riescono ad immaginarla con te, ne trai una forza enorme e diventi sicuro. Insisti». Tra giugno e luglio del 2021 la firma, chiavi in mano, così si inizia a ristrutturare e si riaprono le porte al pubblico, da ottobre: campi da padel e da beach volley, i primi spogliatoi sono container, si ristruttura la curva, nasce l'idea del bar e del ristorante e le scuole del territorio iniziano a trascorrere al Motovelodromo le ore di educazione fisica. Anche se è novembre, fuori fa freddo, eppure quei ragazzi sono così felici. Nell'aprile del 2022 viene ristrutturata la pista, le bici tornano a girare, si tengono i centri estivi ed il bando Con.bi.na, dalle parole conoscere, bicicletta e natura, porta cento ragazzini a pedalare lungo il fiume con guide ed istruttori che raccontano le varie caratteristiche della flora e della fauna. A dicembre del 2022 gli spogliatoi veri e propri prendono il posto dei container, nel febbraio del 2023 è il turno del ristorante, a luglio nasce la piscina estiva, la possibilità di praticare triathlon, in una piscina regolamentare di 25 metri. E servirebbero dei puntini di sospensione, anche se non ci piacciono, perché le tribune sud e nord sono ancora in divenire. «Succede lo stessa cosa che accade nelle nascite: qualcosa che non c'è, all'improvviso, arriva. In questo caso, la meraviglia è stata vedere un posto in completa rovina rinascere, cambiare di pezzetto in pezzetto- spiega Benedetta- e aggiungere un pezzettino diverso ogni giorno, nuove potenzialità ogni settimana», La parola giusta è ispirazione e Fabrizio Rostagno se ne intende di ispirazioni. Dice che partono da un qualcosa che lui ha sempre saputo fare bene: copiare. Ride di gusto e aggiunge: «Anche a scuola, eh».
Rostagno si occupava di impianti fotovoltaici nel 2001, ben prima che il loro business prendesse piede. Il "pionierismo" è in quell'indole: quando conobbe il padel in Spagna, ne vide i numeri, le potenzialità e lo portò in Italia e poi a Torino oppure quando a Copenaghen, dopo essere stato con i figli a Legoland, capitò in questa sala, a pedalare con i simulatori. L'ha replicata al Motovelodromo: con i garmin, gli schermi e sette postazioni, per allenarsi come ci si allenerebbe a casa ma con una socialità maggiore. La sua legge è fare le cose bene, badare alla sostenibilità economica, in primis, altrimenti è tutto vano, poi guardare a realtà più grandi, magari ai velodromi con 12000 persone, al Nord Europa, voler arrivare lì e pensare che arrivarci sia possibile, partendo da quel manufatto fisico che è la bicicletta e da tutto ciò che implica il ciclismo, almeno in questo caso. E andare, parlare, narrare, quel che è stato e quel che sarà. Un libro scritto da Beppe Conti contiene la storia del Motovelodromo, un altro nascerà con i racconti delle persone che l'hanno vissuto. Poi accogliere, ascoltare le domande, cercare le risposte: in questo modo migliaia di ragazzi hanno assistito alla presentazione di Lidl-Trek in occasione dello scorso Giro d'Italia, nonostante la pioggia ed il tempo inclemente. Perché Fausto Coppi è un ricordo, bellissimo ma pur sempre ricordo, mentre il Giro d'Italia c'è e passa sempre. Un inno all'importanza dello sport, al suo valore sociale, all'inclusività, alla cultura, quando lo sport è in un libro, in pagine e parole. Benedetta Lanza aggiunge: «Non è facile ma stiamo cercando di coinvolgere sempre più le scuole e con i docenti di educazione fisica, piano piano, ci stiamo riuscendo, con un reciproco adattamento alle necessità gli uni degli altri. Gli istituti scolastici più vicini vengono a trovarci. A gennaio, sono stati qui i licei: gli studenti che avevano materie da recuperare, da potenziare, si sono dedicati a quello, altri hanno potuto staccare, godersi la libertà e dalle nove del mattino alle quattro del pomeriggio hanno sperimentato ogni tipologia di sport che pratichiamo in questa struttura». Al Motovelodromo si iniziano a svolgere anche le discipline aeree ed è grazie a quel pionierismo di Fabrizio, su cui ora pesa una grossa responsabilità, quella della storia trascorsa che, forse, sarà sempre più grande e più importante di quella futura, ma poco importa.
«Stiamo lavorando su una scuola di ciclismo, strutturata, in cui tutti i ragazzi possano accedere, affinché corrano in un luogo sicuro e la sicurezza deve essere un cardine. La responsabilità è aprire il Motovelodromo e renderlo accessibile a tutti, far crescere anche la parte agonistica, per questo abbiamo coinvolto Fabio Felline, con una squadra corse dai 6 ai 12 anni. Bisogna lavorare ad un tessuto che permetta al ciclismo di continuare a crescere, di sperimentare e farsi conoscere da chi non pedala, da chi non ha mai provato. Il territorio è dalla nostra parte, penso a Superga, alle nostre colline: lì si può diffondere la cultura e raggiungere chi ancora non l'ha». C'è la Gran Fondo Torino, la Milano-Torino a scatto fisso, il Giro d'Italia con le biciclette storiche, che ha portato una ventata d'antico in questa modernità, ci sono gli eventi di triathlon, la Nightri, il 21 giugno, nella notte, dalla sera alla mattina, senza contare i tornei internazionali di padel, a squadre, in carrozzina, ed ancora eventi di sensibilizzazione, nelle scuole, anche a tema sicurezza stradale. L'apporto della Federciclismo è fondamentale, come l'apporto di coloro che hanno praticato il ciclismo come lavoro perché «solo parlando la stessa lingua è possibile capirsi al meglio e se vogliamo che il ciclismo torni al centro abbiamo l'obbligo di rivolgerci a chi quella lingua, per restare nella metafora, la conosce bene». Sembra strano ma accade: quando le classi arrivano al Motovelodromo, in qualche giorno d'inverno, c'è sempre qualche ragazzo che ammette di non utilizzare la bicicletta, qualcuno, addirittura, spiega di non essere capace di andare in bicicletta: «Stupisce- spiega Benedetta- perché per la mia generazione pedalare è come camminare, però è bello che accada e che imparino qui. Anche questa è cultura sportiva». Allo stesso modo è cultura sportiva l'idea di provare a diffondere tutti gli sport: «Spesso si va dove è più facile: credo che in molti abbiano scelto uno sport non basandosi sulla totalità degli sport praticabili, bensì su quelli più accessibili. Noi vorremmo ampliare questo panorama, fare in modo che tutti possano almeno provare, anche solo un anno, poi è possibile cambiare». Si arriva così al ruolo sociale della bicicletta ed ai corsi di manutenzione organizzati con il sostegno del ministero, piuttosto che a quelli per diventare guide cicloturistiche: «Torino è una città molto legata all'automobile, ma vediamo tutti come il mercato dell'automobile inizi ad essere in difficoltà: io sono certo- afferma Fabrizio Rostagno- che la bicicletta possa aiutare anche in questo senso, creando posti di lavoro».
All'interno del Motovelodromo, il bar, a propria volta, propone e organizza eventi, Fiab collabora e le associazioni non vedenti si mettono in gioco con esperienze belle, significative: provare a guidare un tandem, aiutare un non vedente, mettersi nei panni di chi non può vedere e lasciarsi accompagnare. Altra parola chiave è accoglienza, comprendere quanti più professionisti nel progetto, senza gelosie, senza egoismi. Forse, ci dicono, qualcosa di simile non poteva che accadere a Torino, «forse questo è proprio il posto giusto, per la bellezza e per l'importanza riconosciuta alla bellezza, perché siamo vicino al centro e, per i numeri, questo è fondamentale, ma anche accanto alla natura. C'è unicità, autenticità e continuiamo a credere nell'unicità e nell'autenticità, è il nostro carattere di piemontesi e di torinesi. Il nostro essere sabaudi fa in modo che ci voltiamo spesso a guardare il passato, lo consideriamo e quando iniziamo a fare qualcosa cerchiamo di farlo con cura, con spirito di appartenenza». I problemi restano, la burocrazia è sempre molta e a volte gli ostacoli paiono insormontabili, Fabrizio e Benedetta hanno capito che l'unica via per farcela è restare concentrati sul progetto, dedicandosi a quello e pensando a quel che è possibile realizzare. Alcuni momenti hanno la capacità di far dimenticare ogni cosa e di metter ancor più in risalto il bello: Fabrizio pensa a quella madre, davanti alla scuola di suo figlio che, conoscendolo, lo ha avvicinato per dirgli «grazie, perché il Motovelodromo mi ha cambiato la vita». La sua bambina lo frequenta. Oppure, ancora, alla conoscenza di Fabio Wolf, ai progetti che riguardano disabilità e sport in cui lo ha coinvolto e ad una pedalata spensierata, verso Mantova, dove hanno trascorso la notte in tenda. Sono stati contenti, ed a ripensarci lo sono ancora. Probabilmente è anche questo il segreto della restituzione, il motivo per cui provare a restituire esperienze e passioni fa stare bene.
Karhu, Cuneo
La noia non fa bene alla quotidianità dei giorni ed Enrico Arese, pur tra i tanti dubbi di un mestiere che ne pone di illimitati, ha la certezza che le sue giornate non saranno mai noiose. A casa lo prendono in giro: «Enrico ed i suoi amori, Enrico ed i suoi continui innamoramenti», entrambi frutti di un entusiasmo ontologico sin dall'adolescenza, e tante storie che non entrerebbero in un libro. Le mattine di adesso sono simili a quelle mattinate estive da ragazzino, quando se ne inventava sempre qualcuna nei suoi giochi e, poi, partiva con il padre Franco, verso le Olimpiadi, i Mondiali oppure gli Europei, dall'atletica, al tennis, alla pallavolo, al ciclismo. Era felice perché quegli atleti, che i suoi amici immaginavano supereroi, erano solo esseri umani ed erano a tavola con lui, a pranzo, a cena. A lui era successo di perdersi dietro ad un amore, mentre assieme al papà era rimasto travolto dal passaggio di Roger Federer proprio lì accanto: nessuno aveva avuto il coraggio di dire una parola, di chiedere una foto, un autografo. Era bello guardarlo, solo guardarlo.
La realtà pareva una fantasia, per lui e per i suoi fratelli, Emanuele ed Edoardo, ma ci ritorneremo. Ora ci basta dire che ciò che è rimasto uguale è un lavoro che si rinnova continuamente, come quello in ambito sportivo: dalla cura della parte tecnica, al prodotto, al marketing, ai distributori, ai negozianti, ai prototipi, alle installazioni. E ancora gli eventi, gli incontri con il pubblico, i viaggi, le notti in ufficio, le corse, metaforiche e reali, perché il brand finlandese Karhu di corsa si occupa. Queste tutte le sfaccettature, belle, faticose e sfidanti, delle sue giornate e dei suoi risvegli. Impossibile stufarsi, annoiarsi, così anche in questo tardo pomeriggio Enrico Arese è nel suo ufficio del Karhu Store di Cuneo, in piazza Boves 7, dove lo incontriamo.
Quella giovinezza speciale è derivata dal ruolo del padre: Franco Arese è stato per venticinque anni presidente di Asics, ha introdotto il marchio in Italia, ha lavorato a stretto contatto con il Giappone, è stato ed è un padre «che non ne ha sbagliata una» e, a livello imprenditoriale, l'assioma è pressoché identico. Nel frattempo, Emanuele era il responsabile commerciale dell'azienda, colui che si occupava della linea moda per l'Europa: un ragazzo con la passione per il duro lavoro, con l'etica del sacrificio e la consapevolezza che sia la via maestra per raggiungere i traguardi nati nell'immaginazione. Tutto questo fino al momento in cui Franco non decide di lasciare. E di tutta quell'esperienza? Di quegli anni di lavoro? Non si poteva gettare tutto al vento e non lo si è fatto. Franco avrebbe voluto ideare il marchio "Arese", Emanuele gli ha sottoposto la situazione di Karhu: una realtà storica, nata nel 1916, in Finlandia, gloriosa, al centro del mondo running negli anni settanta, ottanta e novanta, tuttavia da ripensare. «Mio padre aveva corso il mezzofondo agli Europei di Helsinki nel 1971. Di più, aveva vinto e conservava una maglietta Karhu, sponsor dell'evento, donatagli per l'occasione. Quella maglietta è oggi nel suo ufficio. Sì, perché in quei giorni ha accettato la sfida, rilevando il 75% dell'azienda. Oggi ha ottant'anni, pure lui rifugge la noia, e ogni tanto passa di qui, altrimenti telefona: "Allora? Si vende? Cos'hai venduto oggi?" Un martello pneumatico che ricorda che per stare in piedi bisogna vendere». Emanuele lavora ad Amsterdam, ha ripensato il prodotto ed ispirato i fratelli. Vero, i competitori sono giganti, ma la loro realtà familiare è più veloce, snella, cura la distribuzione passo dopo passo e per gli Europei di atletica di Roma, dove l'Italia ha stabilito un nuovo record di medaglie, cinquantatré anni dopo il successo di Franco, si è tolta la soddisfazione di essere sponsor. Il sogno è rivivere qualcosa di simile agli anni dell'adolescenza di Enrico e chissà che non accada.
Le domeniche a Genova, al Marassi, a vedere giocare la Sampdoria, le sere in trasferta, le Olimpiadi di Atene, quelle invernali a Torino, il basket, la maratona di New York, la Mercatone Uno di Marco Pantani che «come facevi a non innamorarti del ciclismo? Faceva innamorare anche le pietre», lo sci e così via: bastava aprire il giornale e scegliere dove andare. Fino al 2012, a quel cambio di rotta: «Ho sentito il vuoto, ma mi ha fatto bene, grazie a quel periodo sono rimasto un ragazzo con i piedi per terra, ho compreso che nulla era dovuto. Siamo una famiglia unita, legata alle cose semplici, con poche cose in cui credere ma ben salde. Lo sport è una di queste, magari vissuto dalla strada, dal vivo. Mio padre viene da una famiglia di contadini, dal nulla. Lo sport ci ha "costruito", tenuto lontani da brutte compagnie, dagli errori che si possono fare da ragazzi. Lo sport ci ha aperto un mondo diverso da quello degli aperitivi serali, dalle discoteche, dagli svaghi che diventano vizi e ti bloccano. A casa, la nostra televisione trasmetteva sempre le voci di una telecronaca: mia madre ci ha sopportati».
Il lavoro ha unito questa famiglia, in cui i componenti hanno imparato a conoscersi e volersi bene anche grazie al sacrificio e alla fatica. Enrico, «quello con le idee meno chiare in casa», avrebbe voluto diventare un grande sportivo: voleva studiare all'Isef, non l'ha fatto su consiglio del padre. Si è iscritto ad architettura all'università, ha smesso prima di laurearsi, ma, oggi, sa che va bene così e ai suoi figli racconta in questo modo quel che può fare lo sport, anche se non si diventa campioni. Si cresce, ecco il punto. Si va a letto presto, ci si allena per diventare come Federer, anche se Federer si fatica anche ad immaginarlo, si hanno idoli differenti: ragazze e ragazzi che spesso non hanno avuto quasi nulla, eppure il talento li ha portati dove li ha portati. Enrico Arese pensa ad Antonio Cassano e a tutte le volte che lui ed Edoardo lo hanno visto giocare a Marassi: loro tifosi della Sampdoria, perché la Sampdoria era sponsorizzata da Asics.
«Dal Real alla Sampdoria, sembra assurdo. Quel ragazzo, che la gioventù aveva messo a dura prova, mandava fuori di testa con le sue giocate, il suo modo di stoppare la palla e valorizzava i suoi compagni di squadra che altrove parevano irriconoscibili. Senza scuola, senza insegnamenti, con tanti nodi da sciogliere, ti incantava. Mi porto addosso delle emozioni che non so cancellare. Siamo arrivati in Champions League con lui. Vorrei incontrarlo, sperando di non restare senza parole come con Federer. Mi accontenterei di una foto simile a quella che ho con Usain Bolt, altro genio totale». L'idea è quella di un'attività sportiva che plasma la comunità, la riunisce, permette l'incontro: allora è logico che, il 21 settembre, sia stato inaugurato un Karhu Store a Cuneo, nella loro città, dopo la sede di Helsinki e l'esposizione di Tokyo. In piazza Boves, laddove ci si può riscaldare prima di iniziare a correre insieme oppure laddove si può fare colazione al ritorno da una sgambata, magari verso il Parco Fluviale. All'interno, non solo l'attrezzatura e l'abbigliamento per il running, ma anche libri e riviste, scritti e fotografie, altra parte essenziale di quel senso di insieme, di aggregazione, di cui abbiamo scritto. Il tutto a declinare nella maniera più completa il termine esperienza. Perché è vero che in un negozio oggi bisogna saper fare tutto, dalla contabilità, alla selezione dei prodotti, alle fotografie, alle vendite, ma non è possibile trascurare questo aspetto che, nella "filosofia degli Arese", è il punto fondamentale. Anche per Enrico è un'esperienza nuova, da cui continuare a imparare ogni giorno e, un domani, forse, da replicare altrove.
L'inizio è a Cuneo, città di persone con voglia di fare, di quelle che non intraprendono un'opera se non hanno la certezza di poterci mettere qualità, città di persone affezionate ad ogni via, ad ogni piazza. Talvolta rustiche, ma vere, concrete, belle, verrebbe da dire. Cuneo è casa della famiglia Arese e molto di ciò che possono raccontare deriva dal fatto dell'essere nati e cresciuti da queste parti: tutti li conoscono e loro conoscono tutti. Enrico era seduto ad un tavolo, davanti ad un aperitivo con un amico, Roberto Ricchiardi quando l'idea è balenata nella sua mente: «Sai che i locali di Urban Jungle -l'attività di Roberto- sarebbero perfetti per Karhu?», ha detto Enrico. «Cosa aspetti? Mettiamoci al lavoro», ha risposto Roberto. Ed eccoci qui, partiti meglio di quanto si potesse pensare. Certo è solo l'inizio, certo c'è ancora tanto lavoro da fare, ma solo con il principio è possibile credere in un qualcosa di ancora migliore, diversamente non c'è storia. A Cuneo anche perché un luogo simile mancava, bisognava per forza andare fuori città ed era un peccato. Ora c'è e ci sono anche eventi collaterali per ricordare alle persone quanto è bello correre: la mezza maratona, ad esempio. Prolungamenti necessari di questa storia per mantenere vivo il ricordo e la consapevolezza, per non smettere, ma, anzi, alimentare l'entusiasmo.
Sono ormai cinque fine settimana che Enrico resta in negozio a lavorare: «Forse dovrei correggere il tiro, ad un certo punto bisogna rallentare, perché non va bene esagerare. Rallenterò, mi riposerò un poco e, poi, riprenderò. La corsa mi supporta in questo: una volta la detestavo, mia moglie mi ha aiutato ad apprezzarla e mi è utile anche per il lavoro. Corro al mattino, mi aiuta a stare bene, anche perché spesso fino all'una di notte non sono a casa. Viaggio molto, devo organizzarmi».
Quando qualche dubbio bussa, Franco, il padre, è una certezza, perché ha già vissuto tutto quello che i suoi figli stanno sperimentando ora ed i suoi consigli sono sempre proiettati in avanti. Anche il legame di Karhu con il ciclismo proviene da lui: dall'Asics-CGA, più precisamente, dove correvano Michele Bartoli e Paolo Bettini, squadra che ha disputato il Giro d'Italia e ottenuto non pochi risultati. Non solo: c'è la partnership con la GF Fausto Coppi ed il legame con il Cuneo Bike Festival. L'eco è lontano, sia perché Karhu produceva anche biciclette ai suoi inizi, sia perché abbinare corsa e pedalata è la base di molte discipline, quali duathlon e triathlon, su tutti. Un amore riacceso quello per il ciclismo, proprio nell'epoca di Tadej Pogačar, Mathieu van der Poel e Wout van Aert: atleti di forza ed istinto, per questo vicini alle persone. «Il sogno sarebbe quello di essere sponsor ad un'Olimpiade: so che è difficile, diciamo pure quasi impossibile, ma ho la certezza che sia proprio quel "quasi" a far la differenza in tante storie. Comunque vada, su tutto, noi vorremmo restituire qualcosa alla città, perché Karhu è di questa città. Vorrei accadesse come negli incontri, dove ci si conosce, si trattiene qualcosa dell'altro e poi si continua la propria strada, tornando di tanto in tanto e scoprendo qualcosa in più. Sarebbe bello». Sì, sarebbe bello e sarebbe la prosecuzione di questa storia partita da lontano, nei giorni e nei luoghi.
Cycle Lab, Conegliano Veneto
«Noi abbiamo sempre voluto promuovere la bicicletta in senso lato, ovvero nella concezione più ampia possibile. La bicicletta, a nostro avviso, andrebbe utilizzata a prescindere, che sia per fare sport, per la propria salute, per la comodità di uno spostamento. Il principio dovrebbe essere: vorresti pedalare, facciamo tutto il possibile perché tu possa andare in bicicletta. Le persone si riconoscono in questo mezzo, lo sentono vicino e vorrebbero farlo entrare sempre più nella propria quotidianità, purtroppo è ancora poco utilizzato in sostituzione dell'automobile perché mancano piste ciclabili e la struttura viaria, in Italia, non permette spesso di muoversi in sella senza avere paura. Ma, a parte questo, la spinta ideale della gente c'è, come il desiderio di avere una bicicletta non solo per fare attività fisica, ma anche per una necessità giornaliera». Le prime parole di Paolo Monai descrivono, da subito, la filosofia di Cycle Lab, una sorta di "boutique della bicicletta", nata esattamente dieci anni fa, in Viale XXIV Maggio, a Conegliano, dall'idea di tre soci, successivamente divenuti due, provenienti da mondi, spesso, lontani dal ciclismo: Paolo è agente di commercio nell'ambito arredamento di altissima fascia, uno dei soci si occupava di design, solo Andrea era all'interno dell'universo bicicletta, però «usava la bicicletta anche per andare al supermercato». Cycle Lab è nato ed è cresciuto così perché questo era il progetto iniziale ed esistere aveva senso per avverarlo: «Un impegno a cui cerchiamo di tenere fede è quello della spiegazione, l'unica possibilità che un professionista ha se davvero vuole il bene del settore di cui si occupa. Chiunque arriva in negozio con delle convinzioni, perché legge, chiede agli amici, magari su qualche forum: non è negativo, lo facciamo tutti. Poi, faccia a faccia, ci si confronta e le persone capiscono, magari studiano. Solo i "bicchieri pieni" non ci interessano: chi è già convinto di essere dalla parte della ragione e non vuole ascoltare. Lo lasciamo ad altri, ad un altro approccio. Diversamente, le parole d'ordine sono chiedere e spiegare».
Sì, insieme ad altri imperativi legati all'etica del lavoro: se la bicicletta ideale per il cliente non è in negozio, lo si dice, si ammette, non si vende ciò che si ha, pur di vendere qualcosa. Il meccanismo, precisa Paolo, si guasta spesso all'origine: «Se è vero che molte volte i negozi acquistano in maniera errata, è altrettanto vero che le aziende continuano a produrre materiale che devono vendere per pagare fornitori: è un mercato in cui sopravvivere è difficile. Basta un cambio di colore e di poco altro perché la bicicletta precedente veda dimezzato il proprio valore, nello spazio di alcuni mesi. Gli standard cambiano velocemente, le bici invecchiano, allora i negozianti si trovano quasi "costretti" a vendere per vendere. Non è una giustificazione, ma una spiegazione». In una sorta di reazione a catena, le persone iniziano a non fidarsi più del professionista e la catena si inceppa, ecco la necessità di un cambio avvertita e messa in pratica da Cycle Lab. Il bisogno di farsi ascoltatori si è reso evidente di fronte ad una realtà che, spesso, non prestava attenzione alle richieste o ai bisogni dei clienti, chiusa in un guscio impermeabile, incapace di guardare altri mondi, di farsi influenzare e quindi migliorare: dall'aspetto esteriore, al modo di pensare e di agire. Quando si arriva da Cycle Lab, tornano in mente i negozi nord europei, infatti, da lì arriva il disegno su cui si sono basati Paolo e Andrea: «La prima reazione deve essere quella suscitata dalla bellezza, dalla meraviglia: il rispetto per il prodotto bicicletta passa da qua, dalla sua valorizzazione. Anche un prodotto meno bello esteticamente, se valorizzato racconta un'altra storia. Per molto tempo, le biciclette sono state vendute in luoghi che somigliavano a supermercati. Quando parlo di boutique della bicicletta intendo esattamente questo: poche bici e ben esposte. Divisioni molto nette fra zone: dalla bicicletta in senso stretto, a tutto quello che le ruota intorno, all'abbigliamento. Soprattutto, chiarezza e visibilità: le postazioni dei meccanici a vista in modo che il cliente possa parlare con l'operatore mentre lavora, chiedere e magari imparare. Non sempre funziona così, ma abbiamo il dovere di muoverci in questa direzione».
Gli altri mondi conosciuti, per lavoro o per altre vicissitudini, entrano in gioco proprio qui: il confronto fra quello che accade in un'officina meccanica che si occupa di automobili ed in una che si occupa di biciclette, ad esempio. Storicamente, nelle officine di biciclette, racconta Paolo, il meccanico ritirava la bicicletta, eseguiva le riparazioni, successivamente telefonava, ci si recava a ritirare la bici, si pagava una cifra, si tornava a casa, spesso non avendo neppure ben chiaro quale fosse il problema. Altrettanto spesso, qualche giorno più tardi, la problematica si presentava nuovamente e si era da capo. «Forse qui siamo stati fra i primi ad avere l'accettazione, come accade per le automobili: registriamo tutti gli interventi sul mezzo, rilasciamo un foglio con gli interventi effettuati e con il costo orario. Da quel momento, la persona ha scritto nero su bianco quel che abbiamo fatto e, se il problema si ripresenta, può contestarcelo, la fiducia si accresce così. Se trattiamo in questo modo la macchina, perché non dovremmo farlo con la bici? Si torna al rispetto: il cliente, pagando, deve poter misurare il lavoro svolto». Il cardine della conoscenza è sempre al centro, soprattutto quando con la propria bicicletta si uscirà da Cycle Lab e, da quel momento, bisognerà prestare attenzione a vari fattori, non sempre dipendenti dalla propria volontà, soprattutto su strada. Due le raccomandazioni principali che non possono mancare ed a cui non vi è alibi: indossare il casco e rendersi visibili con una luce posteriore sempre accesa. Il casco, precisa Paolo, è accettato senza dubbi in ambito sportivo, meno in ambito urbano, soprattutto con il salire dell'età, ma le cose stanno, lentamente cambiando.
«Nello stesso momento in cui sottolineiamo questi doveri, dobbiamo essere lucidi e ribadire che una grossa parte di problematica deriva da una rete viaria non adeguata e da ripensare in tutte le città. L'esempio l'ho sotto gli occhi: il negozio si trova a Conegliano, io abito a Vittorio Veneto. Due città e circa 70000 abitanti, nel raggio di 15 chilometri abbiamo circa 100000 persone. Bene, tra le due città non esiste una rete viaria adeguata con piste ciclabili ben collegate: ove ci sono, sono tutte interrotte. In questo modo, i micro-spostamenti sono scoraggiati in sella e si continua a preferire l'automobile, anche su tragitti di cinque minuti di tempo. Se manca la sicurezza, manca tutto». In realtà, il problema infrastrutture non è l'unico: Paolo parla anche dei parcheggi per mettere in sicurezza le biciclette: in Italia sono ancora attrezzature vecchie, all'estero hanno lucchetti adeguati e sono appositamente progettati.
Il problema, precisa, è che spesso i comuni non sono aiutati con professionalità adeguate per occuparsi di queste tematiche: «Si parla sempre di bicicletta legandola al viaggio, ci sta, ma io vorrei più Germania, più Olanda, più Spagna, anche, in Italia. Da noi si allargano le corsie delle auto a discapito dei ciclisti, all'estero si progettano le strade con un principio chiave: il ciclista deve andare dal punto "a" al punto "b" e compito dello stato è consentirglielo. L'ottica è completamente diversa. Qualche realtà si salva anche nel nostro paese: penso a Parma, a Ferrara, dove tutti si sono sempre mossi sulle due ruote, però sono eccezioni, altrimenti l'auto viene sempre prima nelle priorità». Accanto a questo, una serie di blocchi che originano da pigrizia o chiusura mentale: in primis, il fatto di non pedalare nella quotidianità per il freddo, piuttosto che per la pioggia, cosa che nei paesi del Nord non è assolutamente concepita. Altro fatto da sottolineare è la mancanza di attenzione e di progettazione rispetto a strade che permettano anche alle cargo bike di percorrerle in sicurezza, perché se il ciclista non è aiutato e sostenuto tenderà a non scegliere più la bicicletta.
Paolo Monai osserva il divanetto vicino alla macchinetta del caffè, l'area relax in cui i clienti possono aspettare che vengano effettuate le riparazioni, proprio accanto ad un piccolo spazio dedicato ai libri ed alle letture, un'altra via per riposare e riflettere, poi riprende a parlare: «La consapevolezza cresce discutendo e raccontando, facendo rete, lavorando assieme. In questi dieci anni ci siamo spesso sentiti soli, ma non abbiamo mai mollato e quell'idea, alla fine, ha preso forma ed è una certezza per tante persone, qualcosa che ci auguriamo possa ispirare. La bicicletta è, di fatto, un divertimento: perché non rendiamo sempre più piacevole parlarne? Credo sia la strada per metterla sempre più al centro della realtà, perché di ciò che piace si narra sempre volentieri e dalle storie si può modificare il circostante». E, chissà, magari proprio questa chiacchierata può essere un inizio.
Buonenotti, Siena
Ci sono parole che, in fondo, sono sinonimo di ospitalità, di accoglienza, certamente di una predisposizione d'animo gentile verso l'avventore. Due fra queste le abbiamo scoperte, meglio sarebbe dire riscoperte, a Siena, proprio dopo aver varcato Porta Camollia e aver letto quella scritta in latino: «Cor magis tibi Sena pandit». Sì, Siena ti apre il cuore ancor più di questa porta, recita così ed essere ospitali, in fondo, richiede questa inclinazione. Ma le parole a cui ci riferiamo noi sono di uso corrente, nessun lontano eco storico, "nessun latinorum" da rispolverare: buongiorno e buonanotte, tutto qui, nel soggiorno, accanto alla cucina, alla macchinetta del caffè, dove ogni mattina si prepara una colazione, sempre diversa, al b&b che, da questa parola, ha preso il nome: "Buonenotti".
Siamo in Strada di Marciano 23 e Luca Massini ci ha accolto da poco narrando quello che dovrebbe essere un rito: la colazione. «All'alba, c'è Alessandra Forzoni che attende il risveglio di ciascuno, aspetta che entri qui. Ci si saluta, ci si dice reciprocamente buongiorno, poi, l'ospite si siede al tavolo e da lì inizia la conversazione: "Ha dormito bene? Cosa desidera?". Sempre prestando attenzione a quel che il cliente cerca: magari vuole solo un poco di silenzio e allora si sta zitti, ci si muove piano. Le nostre giornate principiano in questo modo».
Accogliere significa anche far sentire a casa, a casa propria, e questo "Bijou hotel" è, in realtà, il ribaltamento dell'abitazione di Luca e Alessandra: un open space simile, pensato come se dovesse essere vissuto dalla loro famiglia, con ogni dettaglio scelto come si scelgono le cose fra le pareti di casa. Alessandra aveva un sogno simile sin dal 2001, 2002, perché l'idea di costruire qualcosa di nuovo, così ideato, le piaceva, ma c'era un posto di lavoro sicuro, uno stipendio fisso e tante certezze che un cambiamento simile avrebbe messo in discussione totale: «Coloro che io non avevo voluto lasciare, nel 2011 mi hanno lasciato. La multinazionale per cui lavoravo ha chiuso, proponendomi un trasferimento tra Brindisi, Rovigo e Roma. Virginia, mia figlia, era ancora piccola e non me la sentivo di andare così lontano. Ho cercato un lavoro simile per molti mesi, ho ricevuto proposte inaccettabili. Ad un tavolo, con Luca, durante un aperitivo, ci è venuto in mente quel sogno nel cassetto e, quasi per scommessa, abbiamo aperto quel cassetto e l'abbiamo tirato fuori. Era un tardo pomeriggio di gennaio». In mente, si fa spazio quella casa che Luca e Alessandra vorrebbero ristrutturare da tempo e che sarebbe, comunque, da ristrutturare: in quell'inverno si progetta, a marzo partono i lavori, a giugno apre il b&b. Era il 2013, undici anni fa.
Hanno avuto «l'incoscienza dei vent'anni, senza avere vent'anni», per il resto, dentro, c'è la loro verità: «A me vengono in mente- spiega Alessandra- i budini al cioccolato che preparavo per Virginia, quando era bambina. Sì, quelli che si comprano al supermercato. Ricordo che li impiattavo, aggiungevo un poco di zucchero a velo, sopra, magari, una fragola o qualche mirtillo. Sai le bruschette alle olive? Mi preoccupavo di disegnare una piccola bocca, un nasino e due occhi. Ospitare è questa cosa qui, avere cura per l'altro, ed io faccio lo stesso a casa nostra, quando preparo la tavola e sposto i bicchieri, un attimo prima di sedermi con Luca e Virginia, perché mi sembrano più belli in un'altra disposizione. I prodotti del "Buonenotti" sono gli stessi con cui pranziamo e ceniamo noi, ma, proprio perché non sono solo a casa mia, chiedo le intolleranze a ciascuno e provo a preparare qualcosa di personalizzato. In un ambiente familiare, ci si sente sicuri anche per questo».
Un giorno, la madre di Alessandra è entrata in quella casa, mentre i lavori erano in corso: c'era solo una parete portante o poco più. «Ma sei sicura di quello che state facendo?». Non lo erano, Luca e Alessandra: avevano timore per quel salto nel buio, in un mondo complesso che non conoscevano e, ancora oggi, stanno studiando, provando a comprendere, mentre la pandemia ha cambiato tutto, anche le persone, che sono diventate più fredde, spesso più nervose. Il timore c'è ancora adesso, perché tutto può cambiare, perché non si sa mai, soprattutto in un'attività di questo tipo, a non voler cambiare sono proprio loro, perché le persone tornano, si ricordano delle attenzioni. In undici anni hanno ascoltato storie di ogni tipo: felici, tristi, hanno pianto, si sono commossi, vissuto mancanze e costruito ricordi: alcune persone arrivano per motivi di studio, altre di lavoro, qualcuno di salute. «Vorremmo essere vicini a chi arriva, in un modo o nell'altro, non abbiamo mai pensato di arricchirci, abbiamo sempre cercato di metterci a cena, a sera, soddisfatti, per la giornata vissuta. A mia figlia- aggiunge Luca- ho sempre detto che i complimenti non bisogna mai farseli da soli, come autoscatti. Devono essere gli altri a riconoscere un tuo merito e se vedono un demerito si ha l'obbligo di ascoltare e capire come cambiare. Qui, le parole belle sono venute dagli amici e dagli ospiti e sono state una spinta». Se non avesse funzionato, c'era un piano "b": avrebbero eliminato due bagni, l'avrebbero trasformato in un appartamento, forse messo a disposizione degli studenti. Forse, sì, perché sono testardi e qualcosa si sarebbero inventati. In mezzo a tutti gli impegni dell'apertura, non si era nemmeno pensato a un sito web, a come promuovere la struttura: l'inaugurazione è avvenuta con un aperitivo ed i primi ospiti sono stati proprio gli amici di una ragazza presente quel giorno. Passo dopo passo, le persone sono arrivate, ad agosto è andato tutto meglio di quanto si potesse pensare e l'autunno, che avevano immaginato di recupero, di riposo, ha mostrato un'altra faccia di questa terra: tutte le persone che arrivano in Toscana con i colori di ottobre e di novembre e vanno al Duomo di Siena, verso le Crete, nel Chianti. Stanchezza, ma anche felicità, perché quel sottotitolo che avevano scelto, «la vostra casa a Siena», non era più solo un modo di dire, ma stava diventando una realtà. Luca continuava ad inforcare la sua bicicletta: «Pedalare significa produrre idee, tornavo, le proponevo ad Alessandra: se funzionavano, le appuntava, altrimenti significava che dovevo rimettermi in sella». La fiducia nei nuovi progetti non è di tutti, anzi, è davvero di pochi e Luca e Alessandra lo sanno molto bene, lo hanno vissuto sulla loro pelle. Non ci credeva nessuno, o quasi, solo la piccola Virginia e Silvia, la sorella di Alessandra, altri dicono oggi quel che dicevano in quegli inizi: «Vedrete, non avrete più un giorno libero, pagherete un sacco di tasse e, sin dal mattino presto, sarete impegnati con il lavoro». Qualcuno ad Alessandra lo ha detto da poco: «Ancora con quelle torte, con quei dolci? Non sei stanca?». No, non lo è, e quando parla delle sue creature si illumina: le crostate di albicocche, di ciliegie, di more, i muffin, pane per la sua creatività, le uova strapazzate che qualcuno degli ospiti ha descritto come "le più buone mai assaggiate". Qualche ospite, al ritorno da una pedalata con Luca, si siede al tavolino, chiede una fetta di crostata e la gusta, con gioia: Luca e Alessandra non si fanno notare, ma non riescono a smettere di guardare e si sentono fieri.
"Buonenotti" è anche una «piccola galleria d'arte», perché Silvia è un'artista e ogni quadro appeso alle pareti è suo. Ogni tanto, se ne aggiunge qualcuno, si cambia il posto di qualcun altro, l'unico a restare sempre è quello nella sala colazioni: anche l'arte accoglie, quel che è piacevole accoglie, quel che è "personale" accoglie. Per questo motivo ogni camera è differente ed ha un proprio nome, perché che sia per lavoro, per studio o per salute, avere la sensazione di essere attesi fa la differenza, pur se non si fa festa. Il parquet, pur differenziato, è la costante. La "Stanza del sole" ha colori che spaziano tra il giallo, l'ocra, il Terre di Siena ed il bianco: la testata del letto è costituita da una cornice apposita, pensata da un corniciaio pedalatore della zona, che l'ha ricoperta con sfoglie di oro zecchino. Le poltrone sono dorate e provengono dalla casa della mamma di Alessandra, mentre i comodini sono in cipresso e quel profumo si diffonde ovunque e ciascuno si chiede da dove provenga. La parete è fatta da Luca, su suggerimento di Silvia, in lunghe telefonate mentre lei è a Puerto Rico: indicazione su indicazione, ora è visibile il risultato finale. In "Contrasti", invece, i colori predominanti sono il bianco ed il grigio sporco, l'arredamento è moderno, la testata del letto è di pietra grigia, il bagno è grande, come grande è la doccia. Da entrambe ci si affaccia sulla campagna senese, in "Contrasti" c'è anche una terrazza per fare colazione all'aperto. La terza camera è anche la più grande: "Il giardino dei sogni". Si tratta di una sorta di "camera zen", dove Alessandra ha ridato vita ad un vecchio scrittoio ed i comodini sono sbiancati da un sapiente artigiano. Più in là, una maglia della "Strade Bianche" appesa, apre la porta ad un'altra storia: Luca e la bicicletta.
Tutto è iniziato per caso, per necessità dopo un incidente in moto, la sua passione precedente: «Mi hanno praticamente dovuto ricostruire un piede e da lì ho iniziato a pedalare, traendone la stessa soddisfazione, che si tratti di strada, di cross o di gravel, la disciplina perfetta per queste terre. Corro in un gruppo sportivo e ho l'attestato di accompagnatore, così porto in giro gli ospiti. Potrei farmi pagare? Sì, ma non lo farò mai: non accetto di ricevere denaro per qualcosa che mi diverte, mi sembrerebbe di approfittarne. Sono felice quando scopro un percorso, quando lo racconto o quando degusto un vino, un piatto di pasta ed un cappuccino, magari a Radda in Chianti. Spesso mi dirigo verso Montalcino, verso le crete, verso i boschi o verso il Chianti. Vado in ricognizione, poi invito gli ospiti. Così ho conosciuto Riccardo Magrini, che viene a trovarci spesso. Con lui condivido anche la passione per il Palio e siamo entrambi della contrada dell'Oca». Sorride, Luca, e racconta che, un domani, al momento della pensione, vorrebbe dedicarsi solo al proprio orto, alla propria bicicletta e alla propria contrada: le cose più semplici e più belle che ha, quelle che, in famiglia, tutela e chiede anche ad Alessandra e Virginia di tutelare con una metafora tratta dal mondo della Coppa America, dalla vela: un approccio "lasco", "andando di lasco", in larghezza, per custodire i propri spazi e arricchirli. «Per Virginia, ad esempio, i tesori sono i cavalli, le lingue, la tecnologia, gli amici, il compagno, l'università, il suo essere un'atleta: nostra figlia passa, magari, per un caffè, ma va bene così, è giusto così, ogni tanto, quando c'è troppo da fare, accorre per aiutarci ed è bello». A Siena, la città di questa famiglia.
«Essere di Siena è la cosa più bella e difficile che si possa vivere: è una città piccola, con tutti i difetti delle città piccole, ma dal punto di vista umano offre quanto nessuno potrebbe mai immaginare. Spesso la detesti e quando la detesti non te ne accorgi, però, appena vai via da qui, ne senti la mancanza, vorresti tornare. Siena è, in fondo, un universo a parte. Avremo la puzza sotto al naso, avremo un carattere difficile, tuttavia Siena è Siena». Forse anche per questo Luca e Alessandra vogliono solo continuare così, non perchè hanno poche idee, ma perchè stanno già bene: magari si potrà aggiungere qualche passeggiata a cavallo, qualche cooking class attraverso le conoscenze culinarie di Alessandra, ma nulla più. Lo ricorda una bottiglia di vino con il nome "Buonenotti", donata dal fidanzato di una ragazza che purtroppo non c'è più e che al b&b si recava perché era vicino all'ospedale dove eseguiva le cure. Oppure quella coppia di anziani signori, sull'ottantina, fra i primi visitatori. Lei, bellissima: un rossetto che più rosso non si può e un cappello di paglia d'altri tempi. Lui, innamorato come non mai: una sorta di principe azzurro, un personaggio uscito da un film, pieno di attenzioni per la compagna, dalla colazione a letto, all'attesa, ad ogni piccola attenzione, perso dietro a quell'amore. Sono queste e tante altre piccole e grandi storie a tenere accesa l'idea nata in quel pomeriggio di gennaio e a far crescere solo la voglia di continuare, per altre "Buonenotti".
Masciarelli Sport Cycling Center, San Giovanni Teatino
«Tutto quello che vedi, tutto quello che ho e, vorrei dire, quel che sono, lo devo alla fatica e allo spirito di sacrificio di due persone umili: mio padre e mia madre»: sono parole di una gratitudine genuina di un figlio verso i propri genitori che, a San Giovanni Teatino, in via Cavour 71, nei locali di "Masciarelli Sport Cycling Center", si sentono pronunciare spesso. A noi le dice Simone Masciarelli, figlio di Palmiro, fratello di Francesco e Andrea, classe 1980, ciclista professionista dal 2000 al 2013. Poi si concede un viaggio indietro nel tempo, mentre indica il padre, settantuno anni, ancora in officina, dal mattino alla sera, a fare il suo "mestiere": «Quell'uomo è vissuto e vive rendendo tangibile quotidianamente il significato dell'applicazione del sacrificio e della dedizione: ciclista o meno, è una sua componente. Sto pensando, ad esempio, al Fiandre del 1984, quando papà era in fuga e sul Grammont, al rifornimento, il direttore sportivo gli disse: "Vai, giocatela, Moser non ne ha oggi. Non aspettarlo". Non capì, si fece riprendere, poi, sul Bosberg, a quindici, forse venti chilometri dal traguardo, quando comprese che Francesco non avrebbe potuto fare risultato, ripartì: concluse al sesto posto. Un Fiandre può cambiare la carriera di un ciclista, avesse proseguito con la fuga, chissà. Ma non era da lui, il suo sentire era quello di mettersi a disposizione, di lavorare duro. Negli anni ottanta, ha pensato a questa attività mentre ancora correva: veniva qui alla fine degli allenamenti, quando era a casa dalle gare e si metteva a lavorare. Queste mura sono venute su grazie a lui e a mia madre che, con tre bambini ancora piccoli, si dava da fare perché potesse esistere».
A Simone, Francesco e Andrea, il padre non ha mai detto molto del ciclismo e, sebbene tutti e tre siano diventati ciclisti, non è stato lui a incoraggiarli a seguire questa via, forse perché l'aveva percorsa in tempi non sospetti. Le persone, però, parlavano, parlavano e parlavano continuamente, come fanno sempre, come fanno ancora oggi a proposito dei figli di Simone, altri due ciclisti in divenire che sentono, spesso, le medesime parole: «Non volevo questo per loro, ho provato a fargli scoprire altri sport, altre possibilità, ma pare quasi una questione genetica, una calamita. Non volevo perché so quel che si dice quando si ha un certo cognome, quasi bastasse quello per fare strada e so anche quanto si soffra. Io ed i miei fratelli facevamo il doppio della fatica, perché non solo dovevamo conseguire un risultato sportivo, ma volevamo fare anche in modo che fosse talmente forte, talmente evidente, da non lasciare spazio a dubbi, a chiacchiere. Perché non è più facile, non lo è mai stato, anzi, può essere più difficile. Erano i tempi in cui, anche dopo una vittoria, arrivavano i rimproveri, perché non era solo importante vincere, era importante come si arrivava al risultato». Palmiro ha proseguito la sua strada in silenzio e, silenziosamente ha invitato anche i suoi figli a fare lo stesso, sarà per questo che «per molti anni ha fatto fatica "a mollare la presa", a lasciarsi andare, a fidarsi completamente ed a lasciarci libertà ed iniziativa fra queste pareti. Credo sia normale, è la sua creatura. Ora lo fa ed io mi sento sempre più responsabile ogni volta in cui vedo la cura che mette su quelle biciclette, nonostante siano passati decenni e tutto sia cambiato. Papà studia, conosce e molti problemi complessi è ancora lui a risolverli».
Masciarelli Sport Cycling Center si estende su una superficie di circa mille metri quadrati ed il progetto è stato, sin dagli inizi, quello di creare uno spazio in cui un pedalatore potesse avere a disposizione tutto quel che è necessario per approcciarsi alla bicicletta. Un luogo, insomma, da cui iniziare a porre le basi per costruire un rapporto, perché quello con la bicicletta è un rapporto a tutti gli effetti, una conoscenza che si amplia con il trascorrere dei chilometri: «In quest'ottica, ritengo che le persone spesso trascurino l'aspetto biomeccanico, della posizione in sella ed è un errore. Anzi, talvolta è la radice del motivo per cui si smette di pedalare. Il ciclismo è vita lenta, in sella si passano ore ed ore e, per fare questa scelta, la bicicletta deve essere un posto "comodo", la fatica, semmai verrà dai percorsi. Laddove non si fa questo passo, diventa sofferenza solo il posizionamento. Il discorso è universale, cambiano le sfumature, dal corridore del Tour de France, alla signora che pedala nel centro cittadino. Il sentirsi a proprio agio deve essere il comune traguardo ed il nostro tempo, a mio avviso, dobbiamo investirlo proprio lì».
All'ingresso, si scorge subito tutto lo spazio espositivo dedicato alle biciclette, nel retro la sala biomeccanica dove lavora Andrea e la palestra di Francesco, sul lato sinistro, invece, tutto quel che concerne le attività, i servizi, l'officina, l'accettazione, l'abbigliamento ed i materiali, mentre la parte commerciale è sul lato destro. «Il nostro è un negozio di storia e di storie, questa è la definizione che preferisco, perché c'è la storia del ciclismo, quella di cui abbiamo fatto parte, come qualunque ciclista, e ci sono le nostre piccole storie, che, talvolta, così piccole non sono, per l'importanza e l'impatto che hanno avuto su di noi, sulla nostra carriera o sulle nostre giornate».
Allora è bello ripetere quella frase che Palmiro dice spesso ed è come un "grazie" al capitano di una vita: «Forse Moser avrà vinto molto anche grazie a me, ma, di certo, io ho vinto tutto quello che ho vinto grazie a lui, perché era un capitano che sapeva ricompensare del lavoro svolto, dell'impegno profuso». Ora, dice Simone, forse c'è più individualismo, minore disponibilità a mettersi in gioco per qualcosa che, alla fine, non comporti un risultato personale, eppure la storia di squadre come UAE Team Emirates e Visma Lease a Bike, prosegue, contiene il medesimo nocciolo duro: atleti che potrebbero essere capitani in qualunque altra squadra che, tuttavia, decidono di mettersi al servizio, di lavorare per una causa, "anima e corpo". Palmiro Masciarelli avrebbe potuto essere uno di loro e alcuni luoghi sono testimoni di questa opportunità, la Spagna, ad esempio, e Barcellona in particolare, con quel Campionato del Mondo concluso al settimo posto, in un finale da solo, senza i suoi capitani, Moser, Saronni, Argentin che, piano piano, avevano ceduto il passo. «Sono gare che cambiano la vita di un atleta, non so cosa sarebbe successo se avesse vinto il Mondiale oppure il Fiandre. Non so nemmeno se sarebbe successo qualcosa di diverso, perché mio padre è così, in fondo». In questo modo ha insegnato l'onestà ai propri figli. Sono tornati tutti e tre in quel negozio: in particolare, Simone, che ha smesso di correre a causa di un problema all'arteria iliaca, si è inserito in quella dimensione quando vi lavoravano più di dieci persone ed è dovuto partire da zero, perché il cambiamento era importante e di commercio lui non sapeva praticamente nulla. Ci è riuscito, se è vero che, attualmente, fa ciò che prima faceva il padre e, come lui, cerca di accontentare tutti. Non ci pensava, non poteva pensarci, non poteva crederci. Andrea ha studiato molto, si è specializzato in biomeccanica, Francesco è volato in California per curare un problema di salute, poi è tornato in Italia ed anche lui si è messo a studiare, per diventare un preparatore. Ma di studiare non si finisce mai.
Simone Masciarelli, intanto, sta provando a riprendersi tante cose di cui l'aveva privato la vita da atleta, in primo luogo i viaggi consapevoli, quelli in cui si sa che si sta viaggiando e si riesce a guardarsi attorno, a memorizzare paesaggi ed a scattare fotografie. Talvolta anche a prendersi il tempo per consigliare un posto da visitare: «In Abruzzo siamo fortunati, tra mare e montagne con varie sfumature nel mezzo. Forse, il preferito è la Costa dei Trabocchi, ma c'è tanto altro e ci sono le strutture per godere di quel che c'è». Ogni mattina, spiega Simone, ci si sveglia con l'entusiasmo di andare a fare il proprio dovere, anche nelle difficoltà, come succedeva quando erano tutti ciclisti, e questo è uno degli aspetti che preferisce, vista la passione che implica e visto che non tutti possono avere questa fortuna, possono plasmarla, crearla. La storia alle loro spalle li rende, spesso, dei punti di riferimento per chi sceglie la bicicletta e, in fondo, se dovessero avere un desiderio non cambierebbero molto, non cambierebbero nulla, anzi. Vorrebbero che, nei prossimi anni, potesse restare così, perché avere un'attività non è mai semplice e, in questi anni, anzi, è molto difficile e confermarsi è già una buona speranza.
Allora torneremo qui, a San Giovanni Teatino, in via Cavour 71, e cercheremo Palmiro che gira inquieto, tenendo tutto sott'occhio, Simone, con il suo senso di responsabilità, Andrea e Francesco, ognuno attento al proprio ruolo, in ogni dettaglio. Torneremo, vedremo tutto questo e sapremo che non è cambiato nulla. Come dice e sogna Simone Masciarelli.