Grazie ciclismo per questi momenti indimenticabili
Ciclismo e anno 2021 un binomio perfetto. Qualcosa che vorremmo riuscire a raccontare meglio ma forse più di ogni altro modo è stato lui a raccontarsi in maniera perfetta: esagerato, romantico, epico, preciso, spettacolare. Quello che abbiamo sempre chiesto e che spesso, nell'ultimo decennio, abbiamo solo visto (quando siamo stati più fortunati) a metà, relegato a episodi isolati.
Ciclismo e anno 2021 un pissi pissi bau bau tra due innamorati, e in mezzo noi; in realtà noi più che altro a fare da contorno ad applaudire; con gli occhi a cuoricino come la vignetta di un fumetto, persino il cuore che batte che pare uscire dal petto; o perché no, momenti irrefrenabili nei quali ci siamo alzati dal divano e non riuscivamo più a stare fermi nell'attesa di una volata, di un giro finale, di un centesimo in più o in meno, di un attacco decisivo, o anche scriteriato. A cercare con lo sguardo quel corridore su cui tanto puntavamo, a immaginarsi rimonte e rinascite, abbozzando per le delusioni, ma applaudendo tutti dal primo all'ultimo.
Ciclismo e anno 2021: un'intesa perfetta. Abbiamo provato a estrapolare alcuni momenti battezzandoli come “i momenti migliori della stagione”, ma potete immaginare quanto sia costato lasciarne fuori almeno altrettanti.
10) Bernal a Cortina (e sul Giau)
E chi se la dimentica quella giornata? Era il 24 maggio del 2021 e si imprecava perché le immagini non arrivavano: per via del maltempo non c'era copertura televisiva. Ci siamo affidati a una sorta di radiocronaca, come si usava una volta, ed ecco il gesto di Bernal che abbiamo definito quel giorno come di totale rispetto verso la corsa e i suoi tifosi; Bernal che sbuca sul nostro televisore solo nel finale, si leva via la mantellina nonostante freddo e fatica, con l'unico intento di mostrare la Maglia Rosa regalandoci una delle immagini simbolo del ciclismo 2021.
9) Roglič a Tokyo
Parrebbe uno sgarbo non inserire Roglič che in stagione ottiene 13 successi, uno più significativo dell'altro. Abbiamo scelto l'oro olimpico della prova a cronometro: perché è simbolo e perché vincere ai Giochi resta per sempre sulla pelle di ogni sportivo. Su un circuito pesante come un mattone, lungo e vallonato come una crono da Grande Giro, nonostante ciò, ahinoi ingenuamente pensavamo fosse tutto apparecchiato per Ganna, ma fu un dominio assoluto dello sloveno. 55'04'' il suo tempo volato via sopra i 48 orari di media. Oltre 1' sul secondo in un podio stellare, per una top ten degna di una prova di altissimo valore.
8 ) Viviani a Roubaix 2021
Il biennio a due facce di Elia Viviani vede dipinto il suo volto migliore in quel finale della corsa a eliminazione, solo pochi giorni fa, nel velodromo al coperto di Roubaix, mondiali su pista. Viviani che scalza via con una volata imperiosa il più giovane Leitão, come se la freschezza non contasse, ma solo colpo di pedale e talento; Viviani che da Tokyo in poi (bronzo nell'omnium, non va dimenticato) ha fatto nuovamente click: nella testa e nelle gambe. Viviani che a conti fatti porta a compimento una stagione iniziata fra i mugugni, conclusa con sette successi su strada, una medaglia olimpica e due mondiali su pista. Mica male.
7) Pogačar sul Col de Romme
Davanti c'era una fuga, mentre dal cielo pioggia grossa come biglie di vetro. E poi freddo e quindi mantelline, mica troppo normale a luglio seppure siamo sulle Alpi. Condizioni ideali per esaltare il ragazzetto col ciuffo biondo che spunta dal casco e che arriva (il ragazzo, ma volendo anche il ciuffo) dalle parti di Komenda, Slovenia. Siamo sul Col de Romme e mancano poco più di 30 km al traguardo: zona Pogačar. Lui attacca, stacca tutti, continua a guadagnare sul Col de la Colombière, devasta il Tour, prende la maglia gialla, alimenta (stupide quanto inutili) polemiche. Tra i suoi avversari diretti per la classifica generale il migliore è Vingegaard che paga 3'20''. Distacchi d'altri tempi per un corridore che riscrive la storia (di questo sport, sottolineiamo, altrimenti pare che esageriamo).
6) Van Aert Ventoux
E se si parla di storia (eheh) e Tour come non citare l'impresa di van Aert sul Mont Ventoux? Come non cantare le lodi di un ragazzo che, con la maglia tricolore belga, vince al Tour rispettivamente: in salita in fuga, dopo aver scalato il Mont Ventoux due volte e aver staccato fior fiori di corridori; a crono qualche giorno dopo; in volata sugli Champs-Élysées. Altro campione che pare essere arrivato da tempi diversi, ma in realtà è perché il ciclismo del 2021 è questo. Pochi calcoli, attacchi da lontano, corridori completi. La gente ringrazia.
5) Van der Poel Strade Bianche
E c'è Roglič, c'è Pogačar, c'è van Aert, non poteva mancare van der Poel. Era l'alba di una stagione magnifica e la Strade Bianche ci offrì uno spettacolo contornato da fuochi d'artificio. A giocarsi il successo il meglio del ciclismo mondiale con van der Poel che sullo strappo di Santa Caterina portava a scuola tutti, facendo segnare wattaggi mai visti. Staccava tutti, compreso Alaphilippe che poi qualche mese più tardi si rifarà invece con una serie di sparate delle sue. Di van der Poel si poteve mettere anche il sigillo sul Mur de Bretagne con quella maglia gialla simbolica a compimento di un finale lasciato in sospeso da nonno Poulidor. Abbiamo scelto gli sterrati senesi, non abbiamo fatto torto a nessuno.
4) Caruso al Giro 2021
Una delle emozioni più grandi di questo 2021 ce l'ha regalata Damiano Caruso al Giro d'Italia. Il suo podio non è figlio della retorica del gregario che finalmente si traveste capitano e vince, ma semmai è il sigillo di una carriera sempre ad alto livello. La vittoria sull'Alpe Motta con la curva dei tifosi che lo incita, la sua resistenza, l'aver staccato persino Bernal in maglia rosa ci danno la dimensione di quello che il corridore ragusano è. E secondo noi potrà ancora essere anche la prossima stagione, anche (o soprattutto) a 34 anni, nonostante il ciclismo dei giovani fusti.
3) Quartetto olimpico
Simone Consonni, Filippo Ganna, Francesco Lamon, Jonathan Milan: in rigoroso ordine alfabetico. La mattina dell'inseguimento a squadre a Tokyo è emozione pura. Lamon che lavora ai fianchi, poi si stacca, Consonni e Milan che fanno il loro lavoro pulito e di qualità, Ganna che trascina alla rimonta. E che rimonta! incredibile, impensabile a tratti insensata. Danimarca, dette Furie Rosse per un motivo, lo spauracchio da anni, i grandi favoriti: battuti sul filo dei centesimi. Una goduria che ci porteremo addosso tutte le volte che chiuderemo gli occhi e penseremo al 2021.
2) Mondiale su Strada (Da Remco a Julian)
E sì, perché domenica 26 settembre tra Anversa e Lovanio abbiamo assistito alla Corsa e non solo per l'assegnazione della maglia più bella del ciclismo (di tutto lo sport ?), ma perché due corridori hanno fatto in modo che difficilmente ce la dimenticheremo. Evenepoel ha esaltato; ha attaccato da lontanissimo come fosse uno di quei corridori di terza fascia che ci provano perché siamo a un mondiale ed è sempre bello portare in giro la maglia della propria nazionale; ha azzardato e non ha guadagnato, anzi, ancora oggi paga un presunto carattere poco accondiscendente secondo i due compagni di squadra che erano con lui nel finale (van Aert e Stuyven). Ma tant'è: a noi esalta con quel carattere che poi è il carattere del corridore vincente. Alaphilippe si è consacrato, invece. Ha attaccato tre, quattro, forse cinque volte: l'ultima è stata decisiva, nessuno ha avuto le gambe per seguirlo. Ci ha fatto letteralmente impazzire.
1) Colbrelli a Roubaix
E pensavamo di aver visto ormai tutto la settimana prima in quel bagno di umori e fragorosi pensieri. Pensavamo, in stagione, credevamo di aver visto un ciclismo italiano competitivo su (quasi) tutti i terreni. Pensavamo di non vincere più una corsa come la Roubaix poi è arrivato lui, Sonny Colbrelli e pochi minuti prima poteva esserci Moscon, ma la sfiga c'ha visto benissimo. Colbrelli invece è stato un sogno, per lui, per noi, per tutti.
Quanto bene vogliamo a Damiano caruso?
Il cuore dell’Andalusia è terra secca, fatta di salite aspre, poca vegetazione, sole a picco sulla testa. E a fine agosto fa un caldo terribile. È terreno per imboscate e alla partenza da Puerto Lumbreras l’atmosfera è di quelle tese. Almeno tre della banda Ineos pronti ad attaccare Roglic. Manca solo la musichetta da western. Luogo designato per lo scontro: l’Alto de Velefique, salita durissima che conduce al traguardo.
Ma c’è qualcuno che se ne frega dei progetti degli altri, viene da Ragusa e si chiama Damiano Caruso. Da quelle parti non è meno secco e aspro l'ambiente d'estate. Parte con un gruppetto, con Bardet, Majka e Amezqueta, tra gli altri, sulle prime rampe del secondo colle, l’Alto Collado Venta Luisa. Poi in un tratto di falsopiano a metà salita rompe gli indugi e quando mancano 71 km all’arrivo, se ne va #alvento, da solo. Pedala bene Damiano, sembra quello del Giro. Regolare, ritmo altissimo. Passa per primo sul Venta Luisa, inizia la discesa e non molla. Il suo vantaggio sul gruppo della Roja supera i 5 minuti. La Jumbo non spinge troppo e Damiano ne approfitta.
Il caldo non da tregua. Quando attacca la rampa dell’Alto de le Velefique pedala bene, rilancia la sua Merida, maglietta aperta e bocca spalancata. Damiano è a tutta. Fa caldissimo, è secco tutto attorno. Probabilmente Damiano si sente come in Sicilia, quando pedalava da ragazzo. Lo aspettano 11 km e mezzo da fare fuori soglia. E mentre lui conta le gocce di sudore che cadono sull'asflato, ecco iniziare le sparatorie dietro di lui: Adam Yates prima, risponde Roglic, rientra Bernal. Ci riprova Carapaz, ma niente da fare. Ancora un allungo di Yates. Cedono tutti, cede anche Bernal. Se ne vanno Mas e Roglic, a tutta. Una serie di attacchi feroci. Ma Damiano è là davanti, sempre a maglietta aperta, sempre a bocca spalancata. E pedala sempre bene. E fa sempre un caldo maledetto.
Nessuno sconto per lui, alle sue spalle se le danno di santa ragione. Ma Damiano vede l’ultimo chilometro e a quel punto non molla più. Fa in tempo a chiudersi la maglietta, ad esultare come avesse segnato un goal in finale, a tagliare il traguardo con più di un minuto su Primoz Roglic ed Eric Mas.
Una giornata di ciclismo eroico, un Damiano Caruso d’annata, che sembra migliorare sempre di più. Maglia a pois di miglior scalatore da portare con orgoglio.
«Sono andato via da solo a 71 km dall'arrivo perché ho sentito che la Ineos voleva chiudere il buco e allora mi sono sentito di provarci da solo» ha detto subito dopo la gara.
Quanto ti vogliamo bene, Damiano!
Il valore di Damiano Caruso
Ieri era tutto nelle gambe di Damiano Caruso. Per esempio, c'era la storia del padre che, senza lavoro, nell'estate del 1984 fece parte della scorta del giudice Giovanni Falcone, guardia del corpo negli anni di piombo, a soli diciannove anni, per un milione e duecentomila lire, i nostri seicento euro. In una Sicilia dura, aspra, rigida. Ma gli uomini passano, diceva Falcone, restano le loro idee che continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini. Così il problema non erano i seicento euro al mese, ma la volontà di dare un esempio al figlio, un esempio che gli facesse strada. Per questo ancora oggi il padre gliene parla con orgoglio, con fierezza.
E Damiano Caruso ha capito ed ha sempre voluto essere uomo prima che ciclista. «Quei valori ho cercato di portarli con me nel tempo, anche quando è stato più difficile. Per questo penso che questa vittoria sia per me, perché nessuno può capire cosa ho passato per essere qui, tutti i sacrifici che ho dovuto fare. Perché certe cose le ho provate io, le so solo io». Caruso che ha spiegato quel gesto, quella pacca sulla spalla a Pello Bilbao, meglio di chiunque altro. Perché quella pacca sulla spalla parla di ciò che ha vissuto. Del coraggio che un uomo si sente di fare ad un altro uomo, come lui, anche se ieri sembravano così diversi Damiano e Pello.
«Gli ho dato quella pacca perché so cosa si prova a fare ciò che ha fatto Pello. Lo so perché l'ho sempre fatto io, perché magari ho vinto da campione ma non mi sento un campione. Pello non è il vecchio Caruso, come qualcuno ha detto. Io e Pello siamo uguali ed io ho vinto perché c'era Pello».
Caruso che rifugge ogni forma di retorica: «Non c'è molto da dire. Ho semplicemente corso per vincere perché quando sei un professionista o sei al servizio della squadra oppure devi provare a vincere». Non senza dubbi, ma i dubbi sono tipici della scelta ed anche Caruso ne ha avuti: «Quando siamo rimasti davanti mi sono chiesto se fosse la cosa giusta da fare, poi mi sono risposto che non mi interessava, che avrei continuato a prescindere da tutto. Fosse andata male, sarei stato il Damiano Caruso di sempre».
E agli uomini non fa male il dovere, mai. «Ai ciclisti fa male la pressione, agli uomini fa male la pressione. Poche cose pesano di più. In queste tre settimane ho dovuto imparare a gestirla e così farò anche domani. Non dovrò pensare di essere al Giro, dovrò solo pensare a dare tutto quello che mi è restato. Non avrebbe senso nulla di diverso». Lui, quello che sta accadendo adesso, ha iniziato a pensarlo dopo la tappa di Montalcino quando qualcuno gli ha detto: «Perché pensare solo ad una tappa e non alla classifica? Io credo tu possa centrare entrambe». Così è tornato in sella da capitano, schivando le illusioni, ma essendo certo del fatto che, anche con i piedi per terra, si possa credere in qualcosa di grande e provare a realizzarlo.
Damiano Caruso è padre e ha detto che questa storia vorrebbe raccontarla al figlio. Noi raccontiamo questa storia per Damiano e per tutti coloro che nella vita sono un poco come Caruso. Sono uomini di fatica e di sudore che non hanno la stessa risonanza di un ciclista che centra il podio al Giro, ma che sanno le stesse cose e in quel mese in cui ottengono un piccolo successo sul lavoro, tornando a casa, lo raccontano ai propri figli. Fieri di tutta la fatica che hanno fatto, dritti per la propria strada
Abbagliati da Caruso
Lo abbiamo spinto, lo abbiamo tifato, qualcuno si è commosso. Abbiamo fatto i conti come ragionieri sul suo vantaggio, ci siamo riempiti il cuore come adolescenti innamorati. Un ultimo atto meraviglioso. Da impazzire. «Credo di essere l’uomo più felice del mondo» ha detto a fine tappa. Protagonista di un indimenticabile pezzo di teatro andato in scena: Damiano Caruso.
Dalla discesa del Passo San Bernardino in poi, due ore di Ciclismo. Il giorno del coraggio, oggi, in sella a una bicicletta, il mestiere di Caruso. Interpretato da chi è sempre stato il più forte tra i compagni di squadra, uno che fatichi a chiamarlo gregario se solo non sapessi che gregario è un mestiere nobile. In scia a Pello Bilbao, fedele scudiero, seguendo traiettorie bagnate, pennellandole con giusto tempismo e senza mai rischiare. Oggi è suo il palcoscenico. Oggi è sua la giornata. Oggi è suo il nome sul manifesto. Pazienza per Bernal, ne abbiam parlato, ne parleremo.
Tornanti su tornanti e intorno neve. Montagne e valli che riempiono gli occhi e selezione prima da dietro, poi sparpaglio. Strada viscida e poi asciutta, sole che si alterna a una sottile pioggerellina. Poche persone e a un tratto tifo da stadio. Gente che sembra perdere la ragione disseminata ovunque nel finale verso l'Alpe Motta.
La curva a 1,5 chilometri dalla fine presa a tutta che per un attimo abbiamo temuto come tutte quelle persone lo potessero far cadere, e invece era solo pronta a inghiottirlo di urla e gioia che esplodeva nel vedere un italiano davanti. Nel vedere Caruso lì davanti. Oggi la sceneggiatura prevedeva il lieto fine.
Dietro, l'inseguimento di Castroviejo e Martínez fondamenta su cui si basa il Giro di Bernal. Il vantaggio che scende chilometro dopo chilometro: che importa ormai se quella maglia resterà meritatamente sulle spalle del colombiano. Oggi è il giorno del coraggio, il giorno di Caruso.
Il giorno del suo sigillo, terzo in carriera, il più importante. «Sono sicuro che prima o poi la vittoria arriverà - diceva tempo addietro- ci sarà una giornata in cui potrò giocarmi le mie carte e sarò il più forte. Ne sono sicuro». Quella vittoria è arrivata, voluta, cercata, inventata. Intuizione improvvisa sua e della sua squadra. Oggi è stato il migliore.
La pacca sulle spalle quando Bilbao si sposta, nel momento decisivo di questo Giro: sineddoche del ciclismo. Nel momento decisivo della sua carriera, Caruso pensa bene di perdere mezza pedalata, un po' di fiato, per ringraziare il suo compagno. Sì, è così che si fa.
Un nuovo Caruso? Nemmeno a pensarci, figlio dell'umiltà, Caruso ciclista. Lui che ha scelto di restare a vivere in Sicilia perché: «è difficile abbandonare ciò che si ama».
Comunque vada, ci siamo detti a un certo punto temendo venisse ripreso, è un gran Caruso. Sfoderiamo senza vergogna i superlativi. Esageriamo, gonfiamoci di retorica, oggi va così. Ammirati lo ringraziamo per questo giorno. Per aver provato a ribaltare il Giro lui che così vicino non c'era mai arrivato se non forse in quei sogni di quando si è bambini. All'arrivo indica se stesso: "Caruso sono io" sembra dire con le dita che battono sul petto.
"M'illumino di Pantani" scrisse Gianni Mura un giorno, e non crediamo di fare torto a nessuno se ci siamo illuminati di Caruso. Gregario sempre, ma da oggi anche campione.