Le domeniche senza Giro

Mentre il mare si agita, quasi succube di quelle nubi che i vetri del traghetto lasciano intravedere, ognuno fa i conti con il proprio tempo. Messina è ancora lontana e le cabine in cui ci si chiude a riposare troppo piccole per restarci nove ore. Si esce sul ponte, dove il fumo delle sigarette è spazzato via dal vento e ci si affaccia a guardare la spuma bianca che lo scorrere della nave lascia sul mare. La vertigine è lì, nelle mani che si stringono il parapetto e nei corpi che restano indietro, gettando in avanti solo il capo, per guardare.
Cosa sta accadendo in Ungheria, vicino al Lago Balaton, qui non lo sa nessuno. La connessione internet è assente da pochi minuti dopo la partenza e la televisione trasmette pochi canali, nessuno che restituisca qualche immagine del Giro d'Italia. Appena il traghetto si avvicina alla costa, in corrispondenza di qualche centro abitato, col segnale che torna si prova a cercare qualcosa: "Stanno andando piano, arriveranno tardi". Fino a tarda sera, è l'ultima cosa che sappiamo del gruppo. Il resto ipotesi, supposizioni ai tavoli accanto al ristorante.
Chi sale sul traghetto la domenica pomeriggio o va al lavoro o torna a casa. In ogni caso, quello è il momento in cui tutto si interrompe e, anche se stanco, scherzi. Oppure ti distendi su un divanetto e ti addormenti coperto da un cappellino. Sono i camionisti: qualcuno racconta a un ragazzo di quando, di notte, per non cedere al sonno, suona il clacson ai colleghi, si saluta, un sorpasso e via.
Il tempo sospeso è anche quello di ciò che chiunque potrebbe fare a casa, in una domenica qualunque: la Formula1, il Giro d'Italia e il televisore in salotto. Qui no e gli sbadigli testimoniano questo piccolo vuoto. Un signore, dopo di noi, chiede di cambiare canale, ma ritorna al tavolo con un pugno di mosche. Così, sul ponte, pensiamo a quante ore mancano, a chi per lavoro o per altri motivi di domeniche così ne vive tante, a chi sognerebbe di andare a vedere il Giro d'Italia passare come quando andava a scuola, ma sarebbe già felice di poterlo vedere a casa, con un figlio che fa i compiti per il lunedì e di tanto in tanto alza la testa a guardare la televisione.
Sono già passate le otto quando sappiamo che ha vinto Cavendish, dopo nove anni, a più di settanta all'ora, in volata. Cerchiamo l'ordine d'arrivo, mentre la connessione ritorna. In fondo, è sufficiente questo. Una notizia che ti arriva da una corsa di biciclette e ti ricollega alla realtà.


L'estate di Cavendish

In quelle ultime pedalate potenti, un po' sporche, in quelle mani sul caschetto, per una scena simile, già vista, o meglio, praticamente identica a quella di tredici anni fa su questo stesso traguardo a Châteauroux, c'è tutta l'estate di Mark Cavendish.

Nella faccia incredula, nella maglia verde, nella seconda vittoria in questo Tour, la trentaduesima in totale nella corsa più famosa del mondo, c'è tutta la sua essenza.

In quello che ieri era un pianto e che oggi diventa riso, in quella faccia rossa dalla fatica, nel gesticolare spiegando ai giornalisti la volata a fine tappa, in quegli occhi pieni di emozione, c'è tutta la classe del Missile di Man.

In quell'abbraccio con i compagni di squadra a fine corsa, in quell'urlo unanime e soddisfatto, in Alaphilippe in maglia iridata che tira il gruppo, in Ballerini che pilota Mørkøv e sembra fare a gara con van der Poel che tira il gruppo dall'altra parte, c'è tutta la fedeltà del ciclismo.

Nella battaglia per prendere il treno giusto, c'è il gusto del rischio.
Nelle sbandate e nella velocità, nelle rotonde e nella noia di una tappa di trasferimento, c'è tutto il sapore di una volata al Tour de France.

In quegli ultimi metri, in quell'accelerazione esplosiva, nel viaggiare da una ruota all'altra, nell'abbassarsi schiacciato sul manubrio, ci sono le trentasei primavere di Mark Cavendish, che sembra non sentirne mezza. E oggi è la sua estate, calda, quella del ritorno.

Foto: Bettini