La storia di Gaudu e Madouas

Il Tour de France di David Gaudu e Valentin Madouas è un insieme di immagini, ricordi, lunghe istantanee, infiniti momenti passati assieme. «È come lo Yin e lo Yang - ha raccontato Gaudu ai giornalisti dopo il traguardo di Parigi, riferendosi proprio alla corsa francese - può farti paura e trasformarsi in qualcosa di catastrofico, ma ti sa anche dare una felicità incredibile».
C'i sono attimi in cui si arriva stravolti come sul traguardo di Peyragudes. Gaudu è accasciato a terra con un asciugamano sul collo, quasi sfigurato dopo essersi lanciato a tutta per rosicchiare qualche secondo a Quintana, rivale per un posto nei primi cinque in classifica, in un interminabile sprint in salita. Qualche minuto dopo di lui arriva Madouas, compagno di squadra e amico; Gaudu gli prende la mano, se la porta sulla fronte e poi vicino alla bocca e gli dà un bacio.
È il suo modo per complimentarsi e rendere merito per quello che ha fatto Madouas (anche) quel giorno. Madouas è davanti in fuga, e, una volta staccato, diventa fondamentale nel supportare il suo compagno di casacca. «Devo ringraziare la squadra per come mi è stata vicina, ma in particolare devo ringraziare Valentin. Ogni volta mi salva il culo».
Madouas è così, un piccolo guerriero lo definisce Marc Madiot, colui che guida la Groupama-FDJ. Come chiamereste un corridore che, da neopro e più giovane al via, arriva 20° alla Strade Bianche? Era il 2018 e quell'edizione la ricordiamo per la pioggia e il fango e persino per la neve caduta il giorno prima: va in fuga (uno dei suoi motti è «Attaccare sempre!» mentre uno dei suoi riferimenti in gruppo è Nibali: «impressionante, fantasioso, formidabile per come si adatta a ogni situazione in corsa»), va in fuga tutto il giorno e rimane, fino alla fine, in scia ai migliori.
Ma la storia che raccontiamo è quella di entrambi, di Gaudu e Madouas e che parte da quando i due sono bambini, in Bretagna, e sono speciali per quanto vanno forte in bicicletta. "Le Telegramme" li definisce " le due pepite d'oro del ciclismo bretone".
Rivali («gli altri lottavano per il 3° posto, io arrivavo quasi sempre 2° e Valentin, quasi sempre, vinceva» ricorda Gaudu), se si può parlare di rivalità a quell'età, amici e poi inseparabili al Tour 2022. «Negli ultimi mesi ho passato più tempo con lui che con qualsiasi dei miei familiari» sempre Gaudu.
Se l'intreccio di Valentin, figlio di Laurent, 12° al Tour del 1995, con la corsa francese, parte da quando, ancora in fasce, insieme a sua mamma andava a trovare il papà corridore al villaggio di partenza, quello di Gaudu inizia nel 2008 quando i due, appena dodicenni, si sfidarono sulla Grand'Rue di Brest in un torneo di bici che in premio dava una divisa Cofidis e un biglietto per assistere all'ultima tappa del Tour de France a Parigi. Vinse (rarità) il più piccolo fisicamente («Gaudu era piccolo e fragile, mio figlio era già pronto, quadrato e potente» racconta papà Laurent), e quella differenza oggi è rimasta. Insomma, Gaudu vinse allo sprint, nella finale a due, e 14 anni dopo Valentin e David si ritrovano a sfilare per i Campi Elisi, stavolta dall'altra parte della barricata, a festeggiare il 4° posto in classifica dell'occhialuto scalatore e l' 11° del fedele compagno di squadra, premiato a fine corsa anche per essere stato "il miglior gregario della terza settimana".
«Una 4X4» definisce così Madiot Valentin Madoaus. «Per le mani - sostiene l'anziano team manager francese, vincitore di due Roubaix nel 1985 e nel 1991 - non ho mai avuto un corridore così completo». Quest'anno è finito sul podio del Giro delle Fiandre, quel giorno si faceva la corsa per Küng, ma nel finale Madouas stava meglio e piombò insieme a van Baarle sul duo di testa - van der Poel e Pogačar - cogliendo un incredibile podio. «Da lì si è come sbloccato dopo una stagione difficile», parola di David Han uno dei suoi allenatori. «Ma nessuno si sarebbe aspettato questo rendimento un salita. Ha dimostrato nella terza settimana di essere uno dei dieci migliori scalatori del Tour». Anche David, parlando del suo amico e compagno di squadra: «Me lo aspettavo davanti nelle tappe miste, ma quello che ha fatto in montagna è stato incredibile».
Il rapporto tra David e Valentin è fatto di ricordi, non solo strettamente legati al rendimento e ai risultati, non solo la mano portata sulla fronte e poi baciata, ma anche qualcosa successo quando avevano solo 9 anni: «Valentin attaccò e mi staccò. Lui primo, io secondo, ma ciò che mi rimane impresso ancora oggi fu il momento in cui tirammo fuori dalle tasche una merenda e ci fermammo a mangiarla davanti a un recinto pieno di animali. Poi siamo tornati a casa».
La storia di di Gaudu e Madouas è un insieme di immagini, ricordi, di lunghe istantanee, di infiniti momenti passati assieme. E altri ancora ce ne saranno da raccontare.


A Liegi vince la fantasia

A Place Saint-Lambert, alla partenza della Liegi-Bastogne-Liegi, qualcuno ricorda Antoine d'Ursel, l'uomo che "tentò di truffare la Liegi", nel 1892, non proseguendo per Bastogne, ma restando lì, nascosto, nell'attesa del suo rivale Leòn Houa. D'Ursel perse, venne scoperto e fuggì in America, in preda all'imbarazzo. A Liegi resta anche qualcosa di Georges Simenon e del commissario Maigret, qualcosa di quello studio in cui lo scrittore si chiudeva, con del cognàc e delle pipe. Potresti immaginarlo ovunque, guardando verso l'alto di un edificio, dietro una finestra. Non c'è posto per strane idee.

Da Liegi a Bastogne e ritorno, ma da un'altra strada. Quella infarcita di côte, denti a mordere i muscoli. C'è la fuga, c'è anche un italiano davanti, Lorenzo Rota, ma le strade imbastite di case con tetti di ardesia, a cupola, a torretta, a ricordare i Castelli della Loira, non hanno pietà. Lui, Huys e Marczyński saranno gli ultimi fra i sette fuggitivi a cedere alla caccia del gruppo. Vliegen si bloccherà d'improvviso qualche metro prima, massacrato dai crampi, come un rantolo sordo. L'inizio dei saliscendi è una campana a morto per chi è in coda al drappello di testa come al plotone: atleti che si staccano, indolenziti dall'acido lattico, come tendini che si strappano, mentre davanti si buttano le prime carte.

Luis Leòn Sànchez e Omar Fraile scattano sulla Côte de Wanne, placcati dal gruppo. Anche Philippe Gilbert si farà vedere in testa sullo Stockeu, colle che ricorda una stoccata, qualcosa di rapido ma doloroso. Lui che, nei giorni scorsi, è andato dal suo macellaio, a Remouchamps, accanto a La Redoute a comprare una bistecca. Emozionato perché non gli capitava da tanto di essere a casa nei giorni prima della Doyenne. Sono graffi, niente più. Rosier e Desnié sono solo fatica, pura fatica, nelle gambe, in attesa di una corsa che scalpita, un purosangue nervoso che cerca di scrollarsi di dosso un fantino inesperto.

L'azione della Deceuninck-Quick Step e successivamente quella della Ineos frantumano il plotone una prima volta su La Redoute, una seconda volta sulla Côte de Forges, la più innocua all'apparenza, ma, dopo duecentoquaranta chilometri, le apparenze somigliano a miraggi: ingannano sempre.

Il nome Redoute deriva dal linguaggio bellico, significa fortino di guerra, luogo in cui mimetizzarsi e nascondersi. Qui è ancora possibile fingere. Poco più in là ogni imbroglio è scoperto e pagato a prezzo d'oro. Richard Carapaz riuscirà ad andare via così, grazie alla tattica di squadra, a tutta, testa bassa e denti talmente digrignati che quasi ti chiedi come facciano a non saltare sotto tanta pressione. Chi sbaglia, paga. Vale per l'Astana che dopo tanti attacchi resta a bocca asciutta quando l'attacco è quello giusto. Vale anche per lo stesso Carapaz che forse esagera nello scatto e quando partono Valverde, Alaphilippe, Woods, Pogačar e Gaudu non può che restare a guardarli, da lontano.

Siamo sulla Roche-aux-Faucons, salita che nel nome ricorda i falchi, per assonanza, loro che ghermiscono e portano via. Roglič è dietro, Schachmann anche, Kwiatkowski pure.

Ora la strada verso Liegi scorre veloce, prima perché in discesa, poi perché i cinque in testa spingono i pedali a gran velocità, sembrano non sentire la fatica, mentre provano a seminare il gruppo. Nel frattempo le squadre degli attaccanti rompono i cambi e favoriscono la fuga.

L'ingresso nell'ultimo chilometro è attesa, battito e respiro trattenuto. Gaudu si sposta a bordo strada, Alaphilippe si volta a destra e a sinistra, favorito in volata, Valverde è in testa, quarantuno anni oggi e ad un passo dalla quinta Liegi, come Merckx, alla sua ruota Woods, Pogačar pizzica la radiolina e si mette in ultima posizione. Valverde parte lungo, Alaphilippe sembra rimontarlo, è pronto al colpo di reni finale, Pogačar è un equilibrista che dal lato delle transenne si butta all'interno e lo supera sul traguardo. Al secondo posto il campione del mondo che ancora una volta viene beffato da uno sloveno, terzo Gaudu.

Vincono l'imprevedibilità e la fantasia di un ragazzo di ventidue anni che l'anno scorso ha vinto il Tour de France e che ancora riesce solo a immaginare dove può arrivare. Perché Simenon ed il suo Maigret lo sanno bene: a Liegi non si può barare, ma è concesso, anzi doveroso, inventare.

Foto: Peter De Voecht/BettiniPhoto©2021


I quattrocento calci

A guardarlo quando non è in bici faresti fatica a immaginartelo come uno scalatore duro, vero, di quelli che, quando pedali in gruppo con lui speri sempre di trovartelo in cattiva giornata, altrimenti, forte com'è, capace che fa saltare il banco, che ti fa saltare per aria. Intanto lui è lì, piccolino sul manubrio ma forzuto, a mulinare sui pedali, a scartare da una parte all'altra della careggiata nei tratti più duri, a guardare in faccia uno per uno gli avversari, a staccare tutti.

Occhialuto, faccia tra l'intellettuale e l'impiegato, David Gaudu non è per nulla il nome nuovo del ciclismo francese - né mondiale - perché talento e carisma lo aveva già mostrato anni fa quando era ragazzino e quando, per forza di cose, eravamo tutti più ingenui. Negli ultimi mesi, però, qualcosa è scattato, e anche lui strada facendo, con gambe sempre più veloci, si è unito a quel gruppetto di corridori che hanno preso di petto il ciclismo e lo stanno rivoltando.

Arriva dal Finistère, terra alla fine del mondo e di ciclisti a tutto tondo, persino di scalatori, nonostante le cime più alte pare non arrivino nemmeno a quattrocento metri, e hanno un nome così difficile da ricordare e da pronunciare: Roc’h Trevezel e Roc'h Ruz. Genitori descritti come di una disarmante normalità e che nulla hanno a che vedere con le due ruote agonistiche: papà artigiano piastrellista, che lo ha messo in bici per passione, mamma ragioniera contabile: quell'aria impiegatizia che trasmette per forza l'ha ereditata da loro. Storie anche di animali la sua: Pierre Carrey, su Libération, un paio di anni fa alla vigilia del Tour, per raccontarlo scrisse un incipit ricco di ritmo e assonanze:

"Quand les coureurs cyclistes se vivent en objets fragiles enveloppés dans du papier bulle, levés avec le coq, endormis avec les poules, David Gaudu, 22 ans, s'est choisi une autre voie: sa chienne".

E se parliamo di assonanze ci verrebbe da dire come oggi abbiamo finito di aspettare Gaudu, ma lo evitiamo. Ci verrebbe da dire che Gaudu quando vuole in salita è uno di quelli che può inserirsi tra gli sloveni e dare filo da torcere ai colombiani, come ha già fatto per altro: nel 2016 vinse il Tour de l'Avenir dove al quarto posto arrivò proprio Bernal. Lo scorso anno vinse due arrivi in salita alla Vuelta, nel 2019 al Romandia tra i battuti Roglič.

Diciamo anche che, più che inseguire il Tour - come ogni francese lo sente sulla pelle - David Gaudu potrebbe lasciare il segno alla Freccia Vallone o alla Liegi-Bastogne-Liegi. Sulle strade delle Ardenne c'ha già provato: alla Freccia fu nono da neo professionista, di più: fu il primo a rompere gli indugi nella caotica volata, oltre il 20%, sul Muro di Huy, mentre alla Liegi (6° nel 2019) sulla Redoute prima ancora di lui il protagonista è stato il suo cane.

Gaudu ha un husky: Houna si chiama. Sono inseparabili come dimostrano le foto che il corridore pubblica sui Social o come raccontano i suoi compagni di squadra. Madouas, amico, coetaneo, anche lui bretone e suo compagno di stanza, raccontava tempo fa sempre sulle pagine di Libération: «Ogni sera David ci mostra una foto del suo cane. Se viene a trovarlo all'inizio di una gara, ce lo dice il​​ giorno prima. È pazzo. Non so se lei lo calma o se gli dà la forza per fare il suo lavoro, ma il suo cane occupa un posto essenziale nella sua vita». Mentre Pinot, suo capitano in Groupama (ancora non per molto visto la parabole delle loro carriere) puntualizza: «Se io sono un animale da fattoria, Gaudu è un cane».

Lo stesso Gaudu racconta di come la sua vita giri intorno a Houna, come un personaggio a metà tra un romanzo di Guillermo Arriaga e un racconto di Jack London: «Siamo fatti l'uno per l'altro. Mi segue ovunque e in inverno mi alleno a piedi correndo assieme a lei nei boschi. Sta sempre al mio fianco. Nella mia borsa c'è la sua ciotola insieme ad acqua e cibo. È un cane robusto e potente, ma c'è una cosa bizzarra però che non mi torna: in salita non va troppo forte. Se io sono uno scalatore allora lei è una velocista».

Ma torniamo a quella Liegi Bastogne Liegi: sempre Carrey sul quotidiano francese descrive il passaggio sulla Redoute di Gaudu, racconta di un trambusto inizialmente non identificato tra la folla. Poi a un certo punto si vede un cane tirare come un forsennato al guinzaglio: è Houna “che salta come una cavalletta quando David le passa sotto il naso”. Storia di cani ma anche di gatti: un giorno un gatto gli attraversa la strada durante una corsa tra gli juniores gli si infila tra i raggi e Gaudu cade.

Pochi giorni fa ai Paesi Baschi è rimasto solo con Primož Roglič, mentre Tadej Pogačar si affidava a più miti consigli lasciando perdere qualsiasi rischio in discesa. Vince Gaudu dopo aver battuto il pugno in segno di intesa a Roglič il quale evita la volata che sarebbe stata vincente sì, ma esiziale per il prosieguo della stagione. Dopo gli ostaggi fatti alla Parigi-Nizza è arrivato tempo di farsi qualche amico in più in gruppo, avrà pensato lo sloveno. L’idea di tenersi stretto Gaudu non ci pare così campata per aria. Già sulle Ardenne vedremo che effetto farà e poi al Tour magari la prova del nove.

Foto: ©PHOTOGOMEZSPORT2020