Alessandro Tonelli spiega la fuga

Se vi capita di scorgere la lista di partenza di una qualsiasi corsa e di leggere "Alessandro Tonelli" fra gli iscritti, allora già sapete che lui, molto probabilmente, andrà in fuga. Solo di recente è successo alla Milano-Sanremo, ha proseguito poi alla Tirreno-Adriatico come fossero azioni collegate l'una all'altra, ma in realtà accade così tante volte da non riuscire nemmeno ad avere un dato certo. «Ma non è che io vada in fuga tanto per fare» esordisce così Alessandro Tonelli, ventottenne della provincia di Brescia, per la precisione di Bornato, come spiega qualsiasi guida che parla di quella zona e come sottolinea lui, fiero, «Nel cuore della Franciacorta dove si produce il famoso vino».

«Andare in fuga è l'unico modo che ho per vincere» ribadisce. Al Giro d' Italia di due anni fa, l'unico al quale abbia partecipato fino a oggi, il ragazzo della Bardiani-CSF-Faizanè ci provò almeno tre o quattro volte: non è sicuro nemmeno lui del numero preciso, mentre ce lo racconta.
Tuttavia, Alessandro Tonelli è un ragazzo pratico; lo capisci dal primo scambio di parole: per lui le fughe non sono mai un romantico sogno d'evasione, quanto un concreto atto verso la libertà. E quando ci sei dentro non è che hai tempo di pensare ad altro, se non alla corsa. Un gioco macabro con il gruppo che ti insegue, acqua che prova a spegnere il fuoco, una partita a scacchi a dimensione umana e dove i muscoli e le gambe muovono le pedine. «E la testa fa la sua parte. Perché la fuga, se vuoi che arrivi, devi saperla gestire, devi batterti con il gruppo, provare a ingannarlo, ma non tutti ci riescono e soprattutto, il bello o il brutto dipende dal punto di vista, è che la fuga non sempre va all'arrivo». Che sia quello il suo fascino? Che sia quello il motivo che ci spinge a raccontare più spesso e volentieri l'ultimo del gruppo oppure le storie di anarchici fugaioli, piuttosto che cannibali e tiranni? «Io da sempre vado all'attacco: era così da ragazzo, è così adesso. L'unica corsa che ho vinto tra i professionisti, nel 2018, l'ho vinta dopo un fuga».

Puoi metterci tutta la forza che hai, puoi sbizzarrirti con tutta la tattica che vuoi, ma «Il destino di una fuga alla fine lo decide il gruppo. Due anni fa al Giro gli attacchi da lontano non arrivarono quasi mai, lo scorso anno sono arrivati praticamente tutti. Classifica generale e squadre dei leader ne condizionano il buon esito». Lo abbiamo definito macabro, ma appare quasi ingiusto: sembra di avere il proprio destino stretto nelle mani di qualcun altro, ma non c'è solo questo. «Prendere la fuga non è mai semplice. A parte nelle tappe che sai che finiranno in volata e allora va via una fuga all'inizio che verrà ripresa, andare all'attacco diventa questione di gambe. Di colpo d'occhio, di tempismo. In fuga ti ritrovi anche signori corridori. Alla Tirreno-Adriatico ero con van der Poel e Visconti, alla Milano-Sanremo eravamo i bresciani: Cima, Frapporti e io. C'è stata una tappa alla Tirreno dove ci sono voluti settantacinque chilometri per portare via, di forza, la fuga».

E per una volta che non va in fuga Alessandro Tonelli rischia di lasciarci la pelle e non è un modo di dire. Siamo in Cina al Tour of Qinghai Lake. È la sesta tappa. Il gruppo sbanda a causa di una folata di vento «Fa un'onda, come si dice in gergo, e io, che ero all'estremità del plotone, mi trovo sbalzato contro un paletto: da cinquanta chilometri orari a zero nel solo impatto. Svengo, non ricordo più nulla e mi risveglio in ospedale. Dieci costole rotte, la scapola fratturata e uno pneumotorace. Resto in Cina per quarantatré giorni: una quindicina di ospedale a Xining a quasi 2.500 metri di altitudine. Il problema era che non potevo tornare a casa in Italia, senza aver pienamente recuperato. E allora avevo una badante che mi aiutava a cambiarmi e a mangiare, una traduttrice dal cinese all'inglese per riuscire a farmi capire almeno dai dottori, e per fortuna dopo qualche giorno anche mia sorella: la Cina è lontana e avevo bisogno dell'affetto di un familiare» racconta sereno, cosciente che quell'episodio, inevitabile, fa parte oramai del suo bagaglio d'esperienza.

E quanto Alessandro Tonelli sarebbe voluto andare in fuga da lì! «Ma non potevo» afferma con una mezza risata, prima di farsi serio «Dovevo pensare a stare bene fisicamente; semplicemente perché il ciclismo è solo una parentesi della nostra esistenza, mentre il corpo devi mantenerlo tutta la vita e quindi la mia preoccupazione maggiore era quella di non aver subito alcuna conseguenza fisica da portarmi dietro per sempre. E così mi consigliarono, una volta guarito, di scendere verso Pechino per iniziare a recuperare e allora mi sono goduto il resto dei miei giorni in Cina come turista infortunato e quello che ho visto... le differenze tra loro e noi. Ho girato il mondo e non ho mai visto tante contraddizioni. Sono avanti dal punto di vista tecnologico, ma tutte le informazioni che arrivano a loro sono filtrate. Hanno Google e i vari Social bloccati perché il governo decide quali informazioni dare e quali no. Non hanno WhatsApp, usano WeChat e i mendicanti in giro per la strada lo sfruttano per chiedere l'elemosina. Sì, avete capito bene: fanno l'elemosina col telefonino; anche i poveri hanno il conto in banca collegato a WeChat e tramite il QR Code chiedono i soldi» E poi ci racconta del cibo: «Solo pollo e riso» e di come per strada trovi, testualmente «Gente che rutta e scatarra: e per loro è una cosa del tutto normale!». E poi ancora: « Oppure una volta ero al ristorante a fare colazione, la sala vuota, il posto davanti a me libero: un signore si è seduto al mio tavolo come se nulla fosse» racconta divertito.

E se viaggiare diventa «uno dei fattori che più appagano le mie scelte di vita», stare tutto il giorno al vento contribuisce a fargli amare un mestiere che non fa sconti. «Non sono un vincente, non lo sono mai stato e allora mi devo far piacere altre cose, altre situazioni: come amare la fatica oppure pedalare in solitudine sulle montagne intorno alla mia zona. Perdermi a osservare la natura - cosa che faccio anche nel tempo libero facendo trekking con gli amici di sempre». E poi si torna lì: la fuga. «Sono sempre stato un attaccante e quindi non mi disturba stare sempre in fuga, anzi, per certi versi faccio meno fatica davanti che in gruppo. E poi l'ho scelto io, perché amo spostare i miei limiti e provare fino a dove posso arrivare con il mio fisico e con la mia mente». Sognando che prima o poi una fuga con lui dentro possa andare fino all'arrivo, magari al Giro d'Italia. “Le antiche arene sono un cerchio chiuso dal quale nulla può scappare” scriveva Elias Canetti. Diteglielo a uno specialista della fuga come Tonelli, e vediamo.

Foto: Bettini/per gentile concessione dell'Ufficio Stampa Bardiani


Svegliarsi di soprassalto oppure Thomas G

Espressione rilassata: prima, durante e dopo una corsa importante. È sempre stato così, sin dai primi passi. Mentre gli altri si incupivano, tesi fino a strapparsi, logorandosi fino a otturare i propri pistoni, Geraint Thomas faceva scivolare via le preoccupazioni pedalando sciolto con quelle gambe che sembrano stiletti affilati. «Mai visto uno con una testa simile» - racconta Rod Ellingworth, suo ex allenatore e deus ex machina dei successi della Gran Bretagna nel ciclismo.

E d'altronde, la forza mentale di Geraint Thomas non è mai andata in frantumi nemmeno tutte le volte che è finito a terra. La prima brutta caduta nel 2005 in Australia: finì in terapia intensiva e gli tolsero la milza. «I miei vennero a Sidney preoccupati, finì che ci divertimmo un mondo». Al Tour del 2013 cadde nella prima tappa, si ruppe il bacino e restò ugualmente in corsa fino a Parigi supportando Froome verso la vittoria finale. Al Giro del 2017, quando era in piena lotta per la maglia rosa, si scontrò con una moto della polizia e qualche giorno dopo si ritirò. Lo stesso anno al Tour vinse il prologo, indossò la maglia gialla, ma tempo una settimana e finì di nuovo a terra: clavicola rotta. Memorabile il suo incidente alla Gand-Wevelgem del 2015 quando una folata di vento lo buttò fuori strada mentre era in fuga per la vittoria.

Elegante in bici, vincente su pista, sul pavé e nei Grandi Giri, Geraint Thomas è visto in gruppo come personaggio tranquillo e rispettato; garbato e dai modi britannici, lui che arriva dal Galles - Cardiff per la precisione, 'Diff, come dicono da quelle parti. Nell'ultima tappa al Tour del 2018 Daniele Bennati gli si avvicinò prima del traguardo e gli disse: «Il fatto che sia uno come te a vincere il Tour de France, mi fa venire la pelle d'oca».
Quando poi Thomas dice che dell'Italia gli piace tutto, in particolare il cibo, non è una strizzata d'occhio, sembra parli davvero di amore. In tempi non sospetti raccontava di come pensare al Giro d'Italia lo facesse svegliare di soprassalto la mattina, e quando si è sposato lo ha fatto nella St Tewdric's House, una villa italiana del XIX secolo, in Galles. Successivamente lui e la moglie l'hanno acquistata, restaurata, e oggi, a partire dalla modica cifra di circa cinquemila sterline, chiunque ci si può sposare.

Ha frequentato la stessa scuola secondaria di Gareth Bale, e in Galles è ritenuto uno dei personaggi sportivi più grandi di tutti i tempi, al pari della leggenda del rugby Gareth Edwards. Sempre a Cardiff, in suo onore, dopo il titolo olimpico vinto a Londra, la Royal Mail fece dipingere d'oro una cassetta delle lettere nella piazza centrale ed emise un francobollo col suo nome.
Il suo primo allenatore racconta di quando trovasse questo ragazzetto di nove anni mingherlino, pallido, con le gambe fini come uno sfilatino, tutte le mattine fuori dal velodromo a spiare i ragazzi che correvano con la maglia del Mindy Flyers Club. A furia di vederlo gironzolare lì intorno, timido, a bocca aperta e con gli occhi sognanti, un giorno lo invitò a fare qualche giro, gli diede una bici di riserva e lo lanciò in pista. Tempo qualche anno e Thomas divenne il più forte della sua scuola, poi del Galles, poi della Gran Bretagna, fino a conquistare due titoli olimpici nell'inseguimento su pista, nel 2008 a Pechino e nel 2012 a Londra.

«Non aveva mai il broncio anche quando perdeva una corsa» dice di lui un altro suo allenatore, mentre Courtney Rowe, padre del futuro compagno di squadra Luke, ricorda il suo talento: «Luke era bravo, ma G è sempre stato semplicemente geniale». E se c'era da fare festa lui era il primo ad arrivare e l'ultimo ad andarsene: «Ad ogni addio al celibato io tornavo a casa alle 22.30, Thomas per ultimo».
Alla fine del Tour de France vinto, Arsene Wenger, all'epoca manager dell'Arsenal, lo chiamò per congratularsi, e Thomas, tifoso sfegatato dei Gunners, pensava fosse Wiggins, noto imitatore, che scherzava. Qualche tempo dopo incontrò Leo Messi al termine di un Barcelona-PSV di Champions finito 4-0 e con una tripletta del fenomeno argentino. Messi gli regalò la sua maglia autografata e qualcuno scrisse: “Messi ha voluto incontrare il Re del Tour de France”. Quel Tour che in Sky non volevano che vincesse: «Mi dissero che avrebbero corso tutti per Froome anche se avessi avuto un minuto di vantaggio e che se nella cronosquadre avessi avuto un problema, non mi avrebbero protetto né aspettato», rivela Thomas nella sua biografia.

Escluso dalla selezione per il Tour di quest'anno - chi lo ha visto al Delfinato non ne è rimasto sorpreso - Thomas sarà una spina nello Stivale. E se dovessimo puntare un penny su un vincitore del Giro, il suo nome ci potrebbe far vacillare. A patto che G, come lo chiamano in gruppo, smetta di svegliarsi di soprassalto pensando all'Italia e mantenga il suo profilo equilibrato. “Imponi la tua fortuna e corri verso i tuoi rischi”, scrisse un giorno René Char, e ci pare un pensiero perfettamente adatto al cammino di Geraint Thomas.

Foto: ASO / Alex BROADWAY e ASO / Pauline BALLET