Van der Poel al Giro? E all'Amstel chi ci pensa?

Si parla, in queste ore, della possibile presenza di Mathieu van der Poel al Giro, che dire: sarebbe una notizia incredibile per noi giromani; Mathieu van der Poel come catalizzatore, come trascinatore; sarebbe senza ombra di dubbio elemento polarizzante: non ce ne vogliano gli altri corridori, ma quando si muove van der Poel, è come se ci fosse, in quell'ammasso di bici su strada, qualcosa in più.
Sarà per il suo modo di correre, sarà perché spesso e volentieri preferisce l'azzardo alla sicurezza, il rischio, calcolato fino a un certo punto: si va all'attacco per entrare nella testa di chi segue il ciclismo e per vincere in maniera mai banale; per diversi motivi immaginarci van der Poel sulle strade della Corsa Rosa ci rende euforici, lo chiamano hype. Già, soltanto dire van-der-Poel-al-Giro è un bel motivo per aumentare la voglia proprio di Giro che a un certo punto dell'anno (di solito in concomitanza con la fine delle classiche) ti prende e diventa irrefrenabile.
Van der Poel nei giorni scorsi ha ricominciato ad allenarsi: ha posticipato la sua attività a causa di noti problemi fisici; lo abbiamo visto in Spagna in un momento di tregua dopo un allenamento, con Campenaerts davanti a una frittella; non ha ancora sciolto le riserve sul suo rientro in gara, e quindi siamo ben consapevoli che in realtà non si sa se verrà al Giro. Teniamo lì in un cassetto questa bella suggestione pronta da tirare fuori più avanti in caso di conferma.

Il fatto certo è che le sue corse stanno per iniziare questo week end in Belgio e lui non ci sarà. Dopo il primo assaggio fiammingo il fine settimana successivo ci saranno la Strade Bianche e poi la Tirreno-Adriatico dove lo scorso anno van der Poel ha piazzato un paio di quei suoi timbri tutt'altro che banali, difficili da dimenticare. Ha mangiato lo strappo di Santa Caterina verso Piazza del Campo, una sgasata di cui si è parlato molto per numeri fatti segnare, per le sensazioni lasciate. Poi alla Tirreno è stata la volta de “l'azione di van der Poel a Castelfidardo" che è già diventato totem per gli appassionati, archetipo sul modo di correre senza calcoli, un po' meno per chi analizza con più freddezza le corse, perché da lì poi si dice "un'azione che lo ha sfiancato e che forse gli ha precluso brillantezza per la Sanremo". Verrebbe da dire: e chi se ne frega, van der Poel è questo e ci piace per questo. Poi quando (e se) sarà il tempo di raccontare le occasioni mancate ne parleremo.

Ci sarà un momento in cui la primavera (ciclistica) sarà quasi verso il giro di boa, ci sarà una corsa che lui ha vinto, ormai sono passati quasi 3 anni, e per certi versi è stata la prima vittoria davvero importante nella sua carriera su strada. Fu una corsa pazza, tirata, entusiasmante – qui ci vuole – davvero fino all'ultimo metro; una corsa ricca di significato per gli olandesi, che la crearono perché negli anni '60 si ritrovarono senza una grande classica da contrapporre al calendario belga, italiano e francese, loro che della bicicletta ne fanno una ragione di vita.
E se qualcuno si fosse dimenticato di quell'Amstel Gold Race vinta da van der Poel, noi vi riproponiamo il finale a questo link www.youtube.com/watch?v=Yi4opDanurU.
Volume al massimo nelle casse o se siete in ufficio nelle cuffiette per rivedere la scena sul rettilineo d'arrivo, sperando di poter assistere ad altre imprese di questo genere targate MvdP, magari perché no, pure al Giro d'Italia. Sarebbe un lusso che ci concederemmo volentieri.


Tramonto e Polvere

È successo talmente tanto tra le 15.14 e le 17.15 di oggi, su quelle strade grigie che poi diventavano bianche, che a un certo punto eravamo a metà tra il dire basta e chiederne ancora.

Schmid vinceva la sua prima corsa tra i professionisti a 21 anni, nel giorno meno indicato. Si fa presto a dimenticare: ahilùi l'attenzione era tutta a quello che succedeva poco dietro, a qualche chilometro di distanza, dove la strada cambiava effetto da asfalto a sterro come fosse un gioco perverso. Dove la classifica cambiava a ogni metro, a ogni curva, a ogni grida di tifoso, a ogni ombra riflessa da ulivi e cipressi a bordo strada.

A una certa non ne avevamo abbastanza. Avremmo chiesto persino di più a Bernal, Ganna e Moscon: padrone, dinamitardo e perfido manovratore di questo Giro.
Avremmo mai chiesto di più a Buchmann? Anticipava l'attacco della maglia rosa arrivando - più o meno - assieme a lui, e riaccendendosi in un Giro fin qui passato nell'ombra, passato soffrendo il gelo.

Avremmo voluto dire "basta, ti prego" guardando la volata di Covi che stringeva i denti. Gli occhi sembravano fuoriuscirgli dalle orbite, pareva potesse superare Schmid, ma poi si incartava: di più non poteva. Così come gli altri della fuga, con Kluge che attaccava e si staccava, De Bondt che voleva essere il primo campione nazionale belga a vincere al Giro dai tempi di Maertens, Vanhoucke che avrebbe voluto conquistare una corsa e dedicarla al suo amico Lambrecht che purtroppo non c'è più.

Oppure quel Gavazzi che non è un ragazzino, sa che il tempo sfugge e allora si rende ogni giorno protagonista. Cosa avremmo potuto chiedergli di più?
Avremmo potuto mai chiedere di più a Bettiol vedendolo andare così forte, su ogni terreno, come non succedeva da tempo? E a Nibali che guidava il gruppo sugli sterrati nonostante qualche settimana fa si sia rotto un polso?

Avremmo voluto spingere Ciccone mentre si staccava per la prima volta al Giro, abbiamo detto basta vedendo la sofferenza di Evenepoel, sudato, umano, tenero nella sua difficoltà; gli avremmo dato una pacca sulla spalla e avremmo voluto dire ad Almeida di fermarsi un po' prima per aiutarlo. Avremmo voluto captare il segnale radio per sentire cosa si sono detti tra ammiraglia e corridori in quel momento.

Ci siamo esaltati nel vedere Caruso rimontare dopo essere rimasto dietro nel primo settore sterrato, per poi emergere col baffo impolverato ogni qualvolta la strada s'impennava.

Abbiamo avuto male alle gambe per loro, in quelle due ore in cui tutto si ribaltava tranne Bernal. Dove Vlasov resta l'osso più duro, Yates cresce e Carthy si conferma. Avremmo voluto essere nell'espressione di Foss e Bennett che provavano ad attaccare, ma dietro Moscon, con gambe di bronzo e cosparse di terra, li respingeva.

Avremmo voluto essere in Carboni che per qualche minuto ha pedalato con Evenepoel in salita. Avremmo chiesto “pietà, per favore”, per Bardet che era davanti, persino bellino da vedere, se solo avessimo visto l'attimo in cui scompariva.
Abbiamo visto sprofondare Formolo e ci siamo immaginati saltare Martin. Abbiamo visto calare Valter e imprecare Taaramae.

Abbiamo visto il sole nascondersi tra le nuvole per poi riapparire e illuminare la polvere. E poi tramontare su una giornata entusiasmante, di un Giro entusiasmante, che non dimenticheremo presto. Forse mai.

Foto: Luigi Sestili


Riuscirci comunque, crederci sempre

Qualche giorno fa, Cyclingtips ha scritto che meno dello 0,02% delle persone che vivono nei Paesi Bassi si chiama Taco: nei Paesi Bassi vivono circa 17,5 milioni di abitanti, il conto è presto fatto: 1300. E si chiama Taco proprio il vincitore della terza tappa del Giro d'Italia. Pensate che questo ragazzo, solo pochi mesi fa, avrebbe voluto smettere di correre in bicicletta. Già, pochi fronzoli per la testa e tanta serietà: serve un lavoro, se non può esserlo il ciclismo, si cercherà altro. Il suo mito è Graeme Obree, uno scozzese che è riuscito a battere il record dell'ora correndo su una bicicletta costruita con vecchie parti di lavatrici. Nulla a che vedere con quella di Taco e con i suoi studi sull'aerodinamica che lo hanno portato a vincere a Canale con soli quattro secondi di vantaggio sul gruppo.
Il motivo per cui siamo partiti da lui è semplice: perché la sua storia ciclistica avrebbe potuto finire ed invece continua che è un piacere. La sua squadra, la Intermarché-Wanty-Gobert Matériaux di storie simili ne conosce tante. Come non parlare di Rein Taaramäe, ad esempio. Lui è nato in Estonia, a Vandra. Oggi, quando si parla di Taaramäe si pensa ad uno scalatore. Peccato che nella sua nazione la cima più alta scalabile sarebbe una passeggiata anche per un velocista. Taaramäe ha fatto come molti suoi compagni tra Estonia, Lettonia e Lituania, si è spostato in Francia ed ha iniziato a correre lì, con le categorie amatoriali, pur di poter diventare un ciclista.

Forse anche la sua storia avrebbe potuto non esserci, ma lui ha creduto al contrario ed è qui, al Giro. Spesso in fuga.
Riccardo Minali, a fine novembre dello scorso anno, era ancora senza squadra e non sapeva spiegarselo. Diceva che, alla fine, è ben strano questo mondo. Magari quando sei in giornata buona non ti vede nessuno ed invece quando ti stacchi e non riesci a muovere i pedali sono tutti a guardarti. Lì si fanno un'idea su di te e poi fargliela cambiare è quasi impossibile. Anche perché cambiare idea costa fatica e l'essere umano è conservatore per indole. Poi la squadra l'ha trovata, in Belgio. Sì, perché anche Minali è in Intermarché.

Vi potremmo parlare di tanti altri, ma vi parliamo di Andrea Pasqualon. Lui che ci ha sempre creduto, più di chiunque altro. Qualche tempo fa diceva: “Se fossi un direttore sportivo scommetterei su di me”. Difficile restare così sicuri quando le cose non vanno. Lui ci è riuscito. Pasqualon lo ha fatto con il ciclismo e quando, nel 2017, è tornato a vincere, dopo due anni di digiuno, piangeva come un bambino. Lì ha capito che fermarsi sarebbe stato un errore.
E via, avanti così perché qui le storie si somigliano tutte e hanno a che vedere con la fame, la voglia di riscatto. Hanno a che vedere con ciò che provi quando rischiano di strapparti via ciò in cui credevi mentre stavi crescendo.

Valerio Piva, direttore sportivo della squadra, spiega che in Wanty si fa così perché non c'è altra possibilità, perché non c'è un uomo di classifica. Noi vorremmo dire che il mondo non si divide fra chi può far classifica e chi no. Il mondo, forse, si divide tra chi ha già lasciato perdere e chi non smette di provarci. Loro non hanno smesso ed alla fine ci sono riusciti.

Foto: Luigi Sestili


Aza e Filippo

La storia che vi raccontiamo oggi parte dalle vie del mercato di Torino, accanto all'Arsenale della Pace. Lì dove c'erano le armi, ora c'è un punto di ritrovo per madri sole, carcerati, stranieri, per tutti coloro che hanno bisogno di cura o di lavoro. In una piazzuola c'è un albero col tronco tinto dei colori del tramonto. Noi chiediamo il perché ad Aza, una ragazza eritrea che passa di lì. «Mia madre- ci spiega- mi raccontò che in un villaggio, da noi, si dipingevano le cose dei colori che le nutrivano, che le facevano star bene, e questo era un atto di cura. Non so, magari è successa la stessa cosa qui».
Qualche passo assieme, parlando, poi Aza fissa la bicicletta di un ciclista in ricognizione e noi le chiediamo se le piacciano le biciclette. Lei ci racconta della sua di quando era bambina: «Aveva un cesto davanti, anche qui si usa e le donne ci mettono la borsa. Il mio cestino era di vimini ed i vimini li avevo intrecciati io. Alcuni erano completamente sfilacciati e si lasciavano andare». Eppure spiega di non aver mai pensato di cambiarla e, se oggi non l'ha più, è solo perché gliel'hanno rubata.

La bicicletta di Aza non aveva nulla a che vedere con quella di Filippo Ganna, di questo siamo certi. Aza non conosce neppure Ganna e certamente neanche Ganna la conoscerà. Eppure, quando abbiamo sentito parlare la prima maglia rosa di questo Giro d'Italia, ci è tornata in mente proprio lei.
Ci è venuta in mente quando Ganna ha ricordato le polemiche dei giorni scorsi. «Ho sentito molte parole negli ultimi tempi. Ho preso tanti schiaffi negli ultimi tempi ed è giusto così. Qualche volta cedi, è normale. Sei un uomo e gli uomini si stancano, si fermano. Se non cedi mai, qualcosa non va». E poi ha aggiunto: «Certo che, quando leggi o senti certe cose, ci pensi e quando ci pensi ti blocchi, ti chiedi perché si dicano quelle cose».

Ci è venuta in mente quando Ganna ha raccontato della sua squadra di quest'anno e dell'anno scorso. «L'anno scorso ci siamo uniti quando è successo l'incidente a Geraint Thomas. Eravamo in ginocchio in quel momento e dovevamo trovare un modo per ripartire. Se non fosse accaduto, sarebbe stata la fine. Siamo stati bravi a capirlo, siamo stati coraggiosi a ricominciare». E, sorridendo: «Nei momenti difficili accadono cose bellissime. Ora sono contento di questa maglia, ma venti tappe sono tante e magari verrà il momento in cui i miei capitani faticheranno e dovremo supportarci ed anche sopportarci perché quando le cose vanno male si è tutti più nervosi. Bisogna accettarlo ed imparare a fare il proprio dovere divertendosi, anche quando è più difficile».

Ed in fondo è tanto difficile da mettere in pratica ma è così logico, così naturale. Come per la madre di Aza dipingere un albero per prendersene cura, come per Aza quel cestino di vimini sfondato. Siamo noi a complicare tutto, anche questo dice Ganna. Aza non lo dice, ma dal suo sguardo si intuisce. Per questo Aza e Filippo Ganna si somigliano. Perché sanno che molte cose sono semplici e vanno vissute così, in modo genuino, leggero. Per se stessi prima di tutto.

Foto: Luigi Sestili


In una fotografia: intervista a Chiara Redaschi

Quando Chiara Redaschi parla del suo lavoro, la fotografia, il primo concetto che spiega è relativo all'improvvisazione. «Noi raccontiamo una storia attraverso un'immagine. La particolarità delle storie è il fatto che, sino a quando non ti passano davanti, non puoi conoscerle. Non puoi sapere cosa racconterai quel giorno, perché non puoi sapere cosa accadrà. Se è il tuo lavoro, tuttavia, sai che qualcosa dovrai raccontare. Al mattino te lo chiedi: “Chissà come andrà oggi”. La paura che possa non andare come vorresti diventa una tua compagna». Lei, con quel timore, ha imparato a convivere sin da giovanissima, quando si occupava di fotografia di strada nell'ambito della moda. «Ricordo che mi mettevo in un posto, ci ripensavo e mi spostavo. Ripetutamente. In strada ti guida solo l'istinto. Se, per caso, rivedendo le foto non mi piacevano, iniziavo a dirmi che forse non ero capace, che avevo sbagliato. Continuavo a ripensarci. Volevo solo essere lì a fotografare, solo che quella stretta allo stomaco mi faceva venir voglia di tornare a casa. Mi succede ancora oggi. Accade così con le cose che desideri, sbaglio?».

In fondo, spiega Chiara, è normale. «Ognuno di noi ritiene importantissimo ciò che fa ed è giusto così, perché è uno stimolo a migliorare, a fare bene. Però serve anche la reale consapevolezza della grandezza delle cose. Non stiamo salvando vite, stiamo raccontando storie. Può capitare di non essere al massimo, di voler buttare tutto all'aria. Certe giornate non ingranano, non puoi farci nulla. Devi darti quel permesso e perdonarti». Per Redaschi, la fotografia ha cambiato forma e sostanza nel tempo, perché il tempo ha cambiato i motivi per cui fotografare. «Ho iniziato a fotografare perché lavoravo in un ufficio di comunicazione ed era una competenza necessaria. Non ne ero entusiasta all'inizio. Dovevo farlo e lo facevo. La sera, invece, andavo con amici a vedere le gare di scatto fisso al Parco Lambro. Era in pieno inverno e faceva un freddo assurdo. Comprarmi una macchina fotografica è stato un modo per impegnare quelle serate e sentire meno freddo». Nessuno lo direbbe, ma è quello il momento in cui per Chiara Redaschi cambia tutto. «Ho scoperto che in realtà fotografare mi piaceva e mi veniva abbastanza naturale. Il mio è stato un percorso veloce. Nel giro di un anno sono arrivata a fotografare nel professionismo e poco dopo a seguire una tappa del Giro d'Italia in moto. Senza aver mai studiato fotografia, imparando sul campo».

Quel giorno, Chiara non lo scorderà mai. «Era il 2018, la tappa con arrivo al Lago di Iseo. Ero in moto con Francesco, un signore toscano. Guardavo il gruppo che mi passava accanto e mi sembrava quasi di poterlo toccare. In alcuni momenti ridevo, in altri piangevo. Credo lì sia racchiusa la mia indole: sono un'insicura estremamente testarda. Quando mi succede qualcosa di bello, non voglio crederci. Ma non c'è un minuto in cui non lotti con tutta me stessa per quell'istante. Non sento la fatica, non sento lo sforzo». Ed è questa sua insicurezza che la porta a ricercare i motivi per cui ha scelto questa strada. «Quando fai qualcosa, devi chiederti il motivo ed io mi sono chiesta più volte perché abbia deciso di proseguire questa strada. La risposta è semplice: mi piace vedere le persone che si emozionano, mi fa stare bene. La fotografia è un modo come un altro per far sentire qualcosa e ciò che senti non ha nulla a che vedere con la tecnica. Ha a che vedere con ciò che hai vissuto tu e con ciò che ha vissuto chi ti guarda. Una foto tecnicamente perfetta è bella, ma ti lascia qualcosa? Si fa ricordare? A me piace chi si fa ricordare».

Il prezzo da pagare è l'attesa. «Attendere per cinque minuti l'arrivo del gruppo o della fuga, è un tempo infinito. Tu sei lì, ti guardi attorno e cerchi di costruire ciò che vorrai vedere dall'obiettivo della macchina. La verità è che spesso ciò che hai immaginato non si concretizza, anche perché i tuoi occhi sono una cosa, quella lente di vetro un'altra. Coglie ogni piccola sfumatura e basta poco per rovinare tutto. In una foto entra un piccolo pezzo di mondo e saper scegliere cosa mostrare e come farlo è essenziale». Già, perché poi non sai mai dove si poserà l'attenzione delle persone. «Può accadere che di uno scatto ti lasci qualcosa un singolo particolare. Va bene così ed è importante che quel particolare ci sia. Certe volte è qualcosa che tu non avevi nemmeno visto, qualcosa a cui non avevi fatto caso. Il nostro vissuto ci influenza ed è per questo che della realtà cogliamo aspetti diversi. Questo è il bello della fotografia. La foto è la stessa, ma ciascuno vede una cosa diversa. Ciò che vedi coincide in parte con ciò che sei ed in parte con ciò che vivi. La fotografia ci permette di lasciar uscire queste cose, spesso nascoste in noi».

Proprio questa molteplicità nella fotografia permette di scoprire ed appassionarsi ad ambienti che non avevamo mai considerato. «Tempo fa, mia madre mi ringraziò perché avevo scelto di fotografare il ciclismo. Non capii subito. Per lei era un modo per dirmi che grazie a quelle fotografie aveva scoperto qualcosa che prima ignorava. È mia madre e probabilmente avrebbe apprezzato qualunque cosa facessi. Però mi piace pensare che quelle parole fossero sincere e che ciò che facciamo abbia davvero questo potere». Per questo, racconta Chiara, vale la pena di correre qualche rischio.

«Anche con questo impari a fare i conti col tempo. Preferisco non avere alcuna foto, piuttosto che avere una fotografia uguale a quella di tutti gli altri. Penso che la possibilità di essere nella bolgia che tendenzialmente si crea dopo il traguardo vada sfruttata al meglio. Per me sfruttarla al meglio significa mostrare ciò che gli altri non possono vedere. Essere i loro occhi». Quella bolgia che, in tempi di Covid, si fatica anche ad immaginare. «Quando mi sono ritrovata sul Poggio, a Sanremo, da sola, nel silenzio, ho provato una malinconia, una forma di angoscia. Avevo trovato l'angolo giusto e la luce perfetta, ma mancava tutto il resto. Le persone che troviamo ai bordi della strada sono una parte essenziale di questo lavoro, senza di loro anche fotografare diventa difficile. Il ciclismo è sempre stata la mia festa preferita e non avrei mai pensato che si potesse arrivare a questa situazione. Dobbiamo adeguarci ed avere pazienza, le cose torneranno come prima». C'è qualcosa che si può fare nel frattempo, con o senza macchina fotografica, e Chiara Redaschi lo sa bene. «Alla fine noi poniamo attenzione a determinati aspetti piuttosto che ad altri per una questioni di abitudine. Questo è il momento per aggrapparci a ciò che ci resta e tenerlo stretto. Per comprendere ciò che non avevamo mai compreso».