Van Aert-Gravel
Wout van Aert ha avuto un'idea e si sa come sono le sue idee. Fanno parlare, anche perché già solo il fatto che ci sia stato il pensiero fa intuire la realizzazione. E si sa come Wout van Aert realizza le proprie idee: in grande, senza risparmiarsi, senza tenere quel poco di fiato per un'ultima pedalata che, chissà, potrebbe servire. Vogliamo dire "esagerando"? Diciamo esagerando. Del resto, sembra che anche Gianni Brera trasmettesse questa idea ai colleghi: meglio esagerare, talvolta, meglio non risparmiarsi, perché nell'esagerazione può trovarsi la bellezza. Non sempre, ma ogni tanto può servire. In fondo, il dosato, il misurato, il contato perfettamente, in certe circostanze, ha poco a che vedere con l'essere ciclisti, mestiere in cui c’è ragione, c’è grande attenzione al dettaglio, ma ancor più istinto. Nulla con l'essere Wout. Nulla con l’essere van Aert.
L'idea è il gravel. Sembra gli sia venuta vedendo in televisione il Mondiale gravel di questo autunno e un poco lo immaginiamo davanti al televisore. Sembra gli sia piaciuto, più che altro pare gli sia piaciuto, gli piaccia, il gravel. Così dopo quel pomeriggio deve essersi detto: "Perché no?". Ovvero perché non provare anche questo che al fuoriclasse belga appare, prima di tutto, come un bellissimo viaggio. Anche questo è interessante perché è interessante raccontare il ciclismo in questo modo, risalendo alle origini del pedalare, anche se corso da atleti che si contendono titoli e maglie iridate. Detto in altre parole: sulle fondamenta si può costruire come meglio si crede, ma senza fondamenta non vi è costruzione. E le fondamenta qui sono le radici dell'andare in bicicletta. Ancor più interessante, forse, è l'altra motivazione che van Aert apporta per questa scelta.
In un ciclismo in cui le pressioni sono tante, in cui si parla sempre più dell'aspetto psicologico e della tutela di questo aspetto, Wout van Aert, pensando al gravel, pensa a una possibilità in cui le pressioni siano meno, in cui lo stress sia minore rispetto agli altri traguardi annuali. Vogliamo usare la parola "divertimento"? Perché no? Così, proprio ieri, sui profili social di Wout van Aert è apparsa una storia di lui intento a sperimentare il gravel. Un lunedì, su una strada sterrata, in mezzo ai boschi, col cielo cupo di dicembre e il freddo dell'inverno.
L'abbiamo visto vincere sul Ventoux, in pianura, a cronometro, in attacchi folli troppo lontano dal traguardo, quegli attacchi che calamitano l'attenzione anche nei più caldi pomeriggi di luglio, lo vediamo abitualmente nel fango e anche lì vince e meraviglia ogni volta. Il prossimo Mondiale gravel sarà in Italia, poi in Belgio, probabilmente lui sarà presente e del risultato non diciamo nulla. Questo è il dato di fatto, poi c'è il gravel come scelta di bicicletta e di viaggio. Come scelta per un fine settimana o un inizio settimana fra la terra, la ghiaia. A prescindere dal Mondiale che verrà, Wout van Aert ha pensato a questo modo di andare in bicicletta, queste sono le fondamenta, le radici di cui parlavamo, quelle che restano oltre qualunque gara, questa è stata la sua idea, il suo viaggio, il suo modo per un altro pizzico di esagerazione. Quella che fa bene, quella che fa bellezza.
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L'iride Gravel
È stata una lunga fuga quella di Gianni Vermeersch e Daniel Oss. Loro due, segnati da quei cognomi onomatopeici, quasi a simulare il rumore delle ruote nella terra, se ne sono andati dopo appena quaranta chilometri, durante la prima edizione del Campionato del Mondo Gravel, e nessuno li ha più rivisti, almeno fino al traguardo. Eppure andare via così presto è spesso un azzardo, una follia, un gioco ad alto rischio: a Vermeersch e Oss, ieri pomeriggio, non interessava. Qualcosa di simile al rock 'n roll il loro gesto e il gravel somiglia al rock perché unisce sonorità, possibilità, strada e terra, idee e desideri.
Il gruppo naufraga: quattro minuti, cinque minuti, ad un certo punto anche sette minuti. La nazionale italiana e quella belga sono perfette, Mathieu van der Poel, che pur tutti aspettavano, si trova imbrigliato, in una trappola, in una tela, non può far nulla se non affidarsi al gruppo che questa volta, diversamente da tante altre volte, nulla può fare, nulla riesce a fare. Ad un certo punto, davanti, Vermeersch si accorge che Oss perde qualche metro, poco, ma è un segnale, un segnale che l'avversario, appena coglie, cerca di portare all'esasperazione. Accelera Vermeersch, belga con un nome che più italiano non si può, qualcosa di caratteristico perché non è il primo.
Oss cede, prima qualche metro, poi sempre più. Le mura di Cittadella non sono poi così distanti. È pomeriggio ma si avverte l'arrivo della sera: i tramonti qui sono una lunga attesa, mentre i raggi di luce sfumano sulle pietre, sui mattoni, sui loro colori e, proprio qui, il gravel fa ciò che meglio gli riesce. Creare qualcosa di nuovo, di inaspettato. Gianni Vermeersch vince, diventa il primo Campione del Mondo Gravel: è felice, come non esserlo, forse ancora di più perché questa è una possibilità che avrebbe potuto non esserci anche per lui che si trova a proprio agio nel terreno in cui corre una bicicletta gravel. Gianni Vermeersch ha rischiato di non poterlo proprio dire: «Sono Campione del Mondo Gravel». Da ieri può dirlo.
Racconta molto di Vermeersch quell'oro e racconta altrettanto di Daniel Oss il suo argento. In assoluto l'argento è meno pregiato dell'oro, ma il valore non è il prezzo, il costo, il listino. Il valore è ciò che l'essere umano riconosce, assegna, percepisce. Così per Oss è una giornata speciale, un momento importante, un sogno, mentre sceso di sella va verso le premiazioni e batte il cinque al pubblico che lo chiama. Una giornata speciale è anche per chi ha scelto di stare a guardare, di cercare il luogo giusto per vedere spuntare da una curva i ciclisti o per sentire le loro ruote quasi traballare sul pavè del centro di Cittadella. Una festa, un'altra.
Terzo arriva Mathieu van der Poel, a seguire Greg Van Avermaet e, fra gli azzurri, Alessandro De Marchi e Davide Ballerini. Anche De Marchi è rock o, se preferite, gravel. Per come si butta in ciò che fa, per il fatto che solo sabato fosse in fuga sulle strade del "Lombardia" e poi di corsa in Veneto. Settimo sul traguardo.
Essere gravel è questa cosa qui. Essere gravel è divertirsi e far divertire, è il buon umore della fatica, della sfida che è anche prova, novità. Essere gravel è rock, è un centro storico e una birra, è la prima volta delle cose importanti.
«Gravel, non vedo l'ora!»
Nathan Haas quando parla di ciclismo parla di amore e di libertà, sceglie Lachlan Morton come esempio da seguire e lascia il ciclismo su strada per lanciarsi a capofitto in una nuova avventura. «Per esprimere te stesso al massimo del tuo potenziale - scrive sulle pagine di Cyclingnews - quello che fai deve essere abbinato ad amore e passione». E quello che stava facendo evidentemente non funzionava più come prima. «Non fraintendetemi - racconta sempre il corridore australiano che nelle ultime due stagioni ha vestito i colori della Cofidis - per il ciclismo su strada proverò sempre amore e passione. Lo guarderò tutte le volte che potrò».
Ma è arrivato il momento di «prendere in mano il proprio destino e ricreare il proprio futuro». E dopo aver avuto il Covid Haas ha fatto via via più fatica a rimettersi in strada nel vero senso della parola mentre «una scintilla si accendeva negli occhi non appena sentivo parlare di gravel».
Natan Haas qualche mese fa alla Nova Eroica in Toscana si innamora di nuovo come si era innamorato del suo mestiere da stradista perché «il gravel è qualunque cosa tu voglia che sia, puoi letteralmente guidare la tua bici ovunque». Gli dà quel senso di libertà che dieci anni di professionismo - e un passato anche in mountain bike - non gli hanno tolto, sia chiaro, ma semplicemente lui non riusciva a gustarsi più quei momenti come una volta. È cambiato lui come cambiano i tempi, come una ruota gira veloce, come si cresce, come si effettua una parabola, come si invecchia, si imbocca un tunnel, come ci si appassisce o si matura.
Come quando ripensa alla prima volta e i ricordi rimandano al primo ritiro con la Garmin, la squadra con cui fece l'esordio nel World Tour; quando Jonathan Vaughters, team manager, fece vedere a tutti Moneyball, film sul baseball con Brad Pitt e Jonah Hill, perché sarebbe servito a capire alcuni concetti sul mondo dello sport, serviva, secondo Haas più che altro a far capire come Vaughters intendeva il ciclismo, e, chiaramente era necessario a cementificare il gruppo.
Haas, per raccontare il suo "arrivederci amici" alla strada, parte proprio da quell'episodio e da una citazione del film: "Ci viene detto a un certo punto che non possiamo più giocare al gioco dei bambini, ma non sappiamo quando accadrà" ed eccolo quel momento arrivare. «Volete sapere perché il ciclismo è un gioco per ragazzi?» racconta l'australiano che si dice soddisfatto al massimo della sua carriera e che forse un piccolo rimpianto ce l'ha, quel 4° posto alla Amstel Gold Race del 2017, ma non vuole soffermarsi troppo sugli episodi perché quello che è lo deve a quello che ha imparato come corridore.
Beh non divaghiamo troppo. «Tutto è già stato pianificato: è determinismo puro. Sembra di stare a scuola. Hai le vacanze programmate, mangi quello che ti viene detto che devi mangiare, ti devi vestire così, devi guidare questa bici, ti devi allenare come diciamo noi e devi correre dove diciamo noi». È vero questo ti aiuta a diventare un corridore, ma limita la tua libertà ed è da qui che Nathan Haas riparte.
Si lascia alle spalle le parole che gli disse sua madre quel giorno all'Amstel "Beh qualcuno deve pur perdere", si lascia alle spalle le emozioni di quando correva e si sentiva un privilegiato.
E aspetta che nasca di nuovo una scintilla. Pensa a Boswell, Stetina, Ten Dam e Howes che si divertono da matti nelle competizioni gravel e perché non dovrebbe farlo anche lui? Haas inizia a uscire con la bici da ciclocross e torna a odorare sensazioni di come quando correva in mountain bike.
Poi partecipa ad alcune gare gravel (prima in Spagna, poi la Nova Eroica in Toscana, poi la Serenissima Gravel in Veneto) e inizia di nuovo a sentire un friccico - il senso di ragno direbbe qualcuno. «E sapete cosa significava? Che la mia carriera non era finita. Essere nervoso voleva dire di nuovo provare qualcosa», perché Haas ci tiene a sottolineare che «non è che la mia carriera finisce, semplicemente cambio disciplina»
Haas getta il suo futuro nella nuova avventura che per lui vuol dire cambiare radicalmente quello che faceva quando "giocava al gioco dei ragazzi" «Ora il determinismo incontra il libero arbitrio. Sceglierò le gare che voglio, utilizzerò le bici e i componenti che desidero, mi sentirò come fossi un pioniere e la cosa in questo momento della mia vita mi diverte e mi stimola. Prendete Morton: lui ha cambiato il modo di intendere il ciclismo. Il suo è uno stile, è vero. E c'è chi dice lo fa perché è anticonformista o perché ha una mentalità estrosa, io penso che sia più semplice: lo fa perché gli piace andare in bicicletta».
Non è più il bambino che gioca al gioco dei bambini, Haas, nemmeno il ragazzo privilegiato con tutto il suo futuro già determinato, si sente maturo ma senza rimpianti, più di ogni altra cosa vuole andare in bici e crede solo di essere in una nuova fase della sua esistenza. E così quando ci pensa esclama: «Gravel, non vedo l'ora!».
Jeroboam 300 - Gravel Challenge
LENT MA SEGUENT
Partiamo dal nome. Jeroboam è la bottiglia di spumante da 3 litri. 300 centilitri che in una metafora ciclistica è "facile" tramutare in 300 chilometri. È "facile" a parole, perché basta chiudere un secondo gli occhi, concentrarsi sul vero significato di una cosa e trasformarlo a proprio piacimento.
È meno facile per chi questa idea l'ha curata, tracciata, organizzata e resa vera. L'organizzazione ha preso un termine dell'enologia e l'ha reso pedalabile.
Pedalabile... beh, insomma, non sempre.
Ma i ragazzi in maglia azzurra dello staff sono sinceri sin dall'inizio. Il briefing per la 300 è diverso da quella della 150, principalmente per l'intro lapidaria e inconfutabile. Only three words: «È davvero impegnativa».
Di solito si parte con un forza, un daje, un alè, un mola mia, un dai che ce la fate. Ma così è meglio, perché è un attimo prenderla troppo alla leggera. Alzo il buff a filo del labbro superiore e rispondo dentro di me: "Lent ma seguent".
PECCATI
Anche per questa intro, alla partenza alle 7:30 di sabato mattina mi vien subito da pensare a Geroboamo. Da lui viene il nome. Dal primo re d'Israele, che abbandonò la retta via del Cristianesimo, per venerare il vitello d'oro. Geroboamo il re dei peccati.
E di peccati noi 54 alla partenza del percorso lungo probabilmente ne abbiamo molti da espiare. E infatti la prima parte del percorso è costellata di imprevisti.
Pronti, via, siamo nel gruppo e inizia subito a piovere. Anche lo sterrato è puntuale ed è dietro la prima curva.
Alla prima pausa per cambiare già assetto e indossare il mantello da supereroi weatherproof ci accorgiamo che ho già perso una borraccia. O meglio la falsa borraccia con il GPS tracker.
Bene! Dopo soli 10 km percorsi salutiamo già il gruppo, e sotto l'acqua facciamo rientro verso Erbusco. Fortunatamente incontriamo due ragazzi che stavano tracciando anche il mio percorso. Perdo l'occasione di approfittarne e onestamente metto il mio tracker in un posto più al sicuro, nella sacca sopra il telaio, vicino al cuore pulsante della Canyon Grizl, che già sbuffa: «Simone sei il solito Zaaaai»
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MAI SOLI
La solitudine creata dalla mia ingenuità è in realtà una bolla che ci permette di scegliere il nostro passo, senza alcuna influenza esterna.
Fortunatamente la pioggia smette ed esce un sole timido. La prima vera salita a Polaveno scorre via liscia, come il suo asfalto (che rimpiangeremo) e parliamo anche con un biker locale che ci racconta di come abbia iniziato a spingere in mountain bike per un amico partito troppo presto.
«Voleva fare la Spartacus, anzi era già iscritto. Io non ero preparato per una gara del genere, una specie di Jeroboam in mountain-bike. Ma dovevo farla e l'ho finita. Non ero solo».
E da quel momento, il biker che conosciamo solo per voce e volto, non si è più fermato. Penso al buff che indosso, penso a chi mi ha portato ad essere qui anche oggi ad affrontare una sfida con noi stessi.
Non per vincerla o perderla, ma per affrontarla. Perché quello che rimane, nel bene o nel male, è sempre una piccola consapevolezza in più di poter superare ogni difficoltà. Perché in fondo non siamo mai soli. Nemmeno quando a Bovegno si prende la strada di S. Antonio e si inizia a salire. Nemmeno quando passiamo dalla Santella di S. Antonio, e ci accorgiamo che è vuota. Temiamo che il Santo sia scappato, per quello che ci aspetta. Ed avremo ragione.
LE SETTE CROCETTE
Le sogneremo spesso le sette crocette. Sono lì in cima al passo, al fresco dei loro 2041 metri, dal 1668. Non proprio queste crocette ora in ferro battuto, perché originariamente erano di legno.
Nessuno sa di preciso come mai siano lì, ma per noi sono il primo vero spartiacque della nostra Jeroboam.
Sapevamo che sarebbe stato il passo più duro da affrontare. Almeno sulla carta, ma in effetti sarà così anche sulla ghiaia.
Il muro a secco accompagna i primi tratti di mulattiera, che sfumano gradualmente in sentieri di cresta e in traversi tipici di medio-alta montagna. Non è roba da gravel, ma la Grizl, un po’ pedalata, un po’ spinta, rimane sempre fedele al mio fianco. Così come la Grail di Armin, nonostante un gracchiare costante della catena dilavata dalla pioggia di partenza.
Dalla nebbia che circonda il nostro lento avanzare, spuntano delle presenze, che rompono la monotonia della nostra fatica (e del mal di schiena): davanti a noi due geroboami che arrancano. Non siamo soli.
Poi una baita che invita a comprare il suo formaggio. Uno dei nuovi compagni di viaggio, cade in tentazione e si appesantisce di mezzo kilo di formaggella. Non lo rivedremo più.
Noi chiediamo dell'olio per la catena di Armin. E non è stato facile.
"Avete dell'olio?"
"Olio? Mmm Collio?"
"No, OLIO, olio della catena, della moto"
"Olio? Mmm mah".
"Ghè mia lè de l'ole?"
"L'ole, certo, chel nurmal della motosega o chel de mangià?"
L'olio della motosega rende la trasmissione di Armin un violino. Salutiamo il formaggiaio, con la promessa di tornarci in un giorno di sole, e proseguiamo tra gli asini e le mucche.
Come tutti i passi di montagna, anche le 7 crocette si fanno desiderare. L’atmosfera bucolica e quieta che ci circonda allevia però anche l’attesa più snervante e i polpacci che tirano tra un passo su tacchette d’acciaio e l’altro.
La vista sul monte Ario, sulle 3 Colombine, sul Campione e sul Guglielmo, è incastrata tra le nuvole basse che, come tende spesse e pesanti, non la fanno passare.
Ma poco importa, lo spettacolo è sul nostro stesso sentiero.
Assistiamo perfino allo spettacolo della vita. Una pecorella partorisce da sola, con noi come unici parenti. La incitiamo mentre dà alla luce il piccolo Geroboamo. Sì, ci ha concesso l’onore di scegliere il nome del piccolo.
E come tutti i passi di montagna, anche le 7 crocette sbucano all’ultimo secondo, dandoci perfino un piccolo scorcio del paesaggio immenso circostante. Solo per qualche minuto.
LA SERENITA’
Può sembrare un ossimoro parlare di serenità durante due giorni di pedalate su sentieri poco brevettati per le due ruote non ammortizzate.
Eppure, dalle sette crocette fischiamo in picchiata sull’asfalto freddo ma accogliente del Passo Maniva, che ci prende per mano e ci spinge fino al Bivacco Tita Secchi.
La sua struttura di legno, quasi una protesi della costa rocciosa su cui appoggia, ha in serbo per noi panini con la nutella e salame bergamasco fresco fresco di taglio.
Il primo timbro, che è in realtà una firma, ci spinge ancora più dell’asfalto del Maniva e ci proietta in pieghe continue tra i 12 tornanti acutissimi che dal Passo Baremone ci mandano “in ferie” ad Anfo.
Le rive del lago d’Idro sanno di week-end tutto salviettone, piedi a mollo e frisbee.
Ed è qui che ci riprendiamo la nostra serenità. Riusciamo a concentrarci su cosa stiamo facendo, su ogni singolo movimento, respiro e sguardo di questa avventura. La fatica c’è, ma se ne sta zitta in un angolo, almeno per un momento, e ci fa godere appieno della vita.
E poco male se dal fondo del lago d’Idro si torna a salire. E si torna a salire per quasi 1500 metri, prima lisci poi ruvidi.
Il tramonto con vista sul cavalluccio marino che è il lago d’Idro, alternato da curve in un bosco che già profuma di sera, rafforzano il senso di serenità che sta guidando il momento più brillante della nostra giornata.
E nemmeno il buio, squarciato dalle nostre amiche torce, ne la foratura della mia anteriore, ma nemmeno gli ultimi portage imprevisti di giornata ci impediscono di raggiungere il secondo check-point.
ENOUGH CYCLING
Quanto avete pedalato oggi? 13 ore, 130 km asprissimi e 4500 metri di dislivello. Beh, diciamo abbastanza, diciamo enough. Potremmo anche dire che ne abbiamo abbastanza, ma non è così.
L’accoglienza birrosa, festosa, e hawaiana (sì, hawaiana), dei mitici Enough Cycling, alla Malga Corva, sul monte Tombea, rallegra la nostra fame.
Sono quasi tutti qua. Del gruppo che abbiamo abbandonato molto presto mancano alcuni coraggiosi, e mancano certamente il Re e il principe del week-end. Geoffrey Langat e Sofiane Sehili, involati già oltre le sponde del lago di Garda. La regina è Nancy Akinyi, anche lei già riflessa dalle acque calme di Salò.
Noi siamo arrivati un po' tardi alla tettoia rallegrata dalla musica degli Enough. Ci siamo persi salsicce e salamelle cucinati da un Mattia De Marchi in borghese. Sì, tutti nomi di un certo calibro. Noi, per giustificare la nostra presenza tra loro, ci agganciamo umilmente al nostro mantra "Lent ma Seguent".
E ripieghiamo su un piatto di pasta alla Malga Corva.
E per restare fedeli al nostro mantra, dopo un bel cambio rigenerante, ripartiamo.
Inizia ad essere notte profonda, anzi mattina presto. E allora scegliamo Jimi Hendrix per alternarsi ai bramiti dei cervi e per graffiare il buio e il nostro sonno, mentre camminaliamo (un po' camminiamo e un po' pedaliamo), per altri 5 km e 600 metri di dislivello.
La discesa sterrata fino al Lago di Garda è un massaggio shiatsu infinito, e uno slalom tra i rospi giganti immobili in mezzo alla strada che non ci degnano di uno sguardo.
Il primo paese che incontriamo è Piovere. Il nome, e i lampi all’orizzonte ci inducono a proseguire, anzi pure a spingere un po'. Finalmente si può, e il Lago di Garda di notte, senza fari e clacson scivola via che è un piacere. Toscolano Maderno, Gardone Val Trompia e infine Salò.
I sussurri nella testa ci consigliano di riposare un attimo. E così l’entrata di uno studio ortopedico diventa la cuccia per noi e per le fedeli Canyon. Per ben 40 minuti. Suona la sveglia e ci svegliamo. Stanchi sì, ma comunque meno di quando suona in un banalissimo lunedì.
2 ORE DI BUIO
Vero, la notte è durata molto di più. 11 ore abbondanti. Ma due sono state le ore di buio totale, che sono piombate su di noi alla ripartenza da Salò.
Quando si dice: Testa bassa e pedalare. Per due ore per me è stato letteralmente così. Due ore spesso sono tutto quello che hai per pedalare, per allenarti durante la settimana. Qui, nel bel mezzo di questo viaggio in continuo, le due ore sono state un momento di buio lunghissimo.
Non solo metaforicamente ma anche letteralmente.
Accartocciato sulla bicicletta, guardavo il fanalino rosso di Armin, nel buio bagnato di un diluvio anche lui lungo due ore.
Quella lucina intermittente rossa è stata la mia guida e l'unico punto di contatto che avessi con la realtà. Non facevo che copiare meccanicamente le sue traiettorie senza aver le forze per fare altro. Se Armin fosse finito in un fosso, l'avrei fatto anche io. Ma Armin è un drago, non mollava, e non sbagliava una linea, reduce dalle sue passate scorribande di downhill.
Il mio stomaco aveva deciso in autonomia che era il momento di mollare, di tornare a casa al calduccio e per convincermi mi ha tolto tutte le energie, mi ha vietato di mangiare o di bere, e bruciava come un dannato. Ma non ce l'ha fatta.
Io ho smesso di guardare il contachilometri (e quando succede non è un buon segno) se non ogni tanto per vedere l'ora.
Dalle 5 alle 7 mi ripetevo sempre e solo le stesse 6 cose, in un loop che non finiva più:
1) Dai che arrivano le 7.
2) Dai che viene giorno.
3) Dai che smette di piovere
4) Dai che bevi un tè caldo al limone.
5) Dai che si svegliano tutti e vi fanno il tifo controllando il live-tracking.
6) Lent ma seguent
Dicono che il pensiero possa piegare l'universo, alterare la casualità delle cose e farle tendere verso di noi. Non so se sia vero. Forse è solo coincidenza, oppure è il papi che è andato a bussare dal grande capo.
So solo che sono arrivate le 7. È venuto giorno, ha smesso di piovere, ho bevuto un tè caldo al limone (e ho pure fatto un mini sonnellino sul divano comodissimo del bar. "Armin svegliami quando hai finito le tue brioche"), si sono svegliati tutti e hanno cominciato ad incitarci, vedendoci ormai ai meno 100 km, con 6000 metri di dislivello messi in tasca.
IL VOLO DELL'AIRONE
Vero, l'airone per gli sportivi bresciani è Andrea Caracciolo. Ma l'Airone per tutti i ciclisti è Fausto Coppi. E cosa c'entra Fausto Coppi con voi due che arrancate dopo 190 km? Ecco, 190, come i chilometri dell'incredibile fuga di Fausto Coppi al Giro del 1949, nella Pinerolo-Cuneo. E proprio il Campionissimo ci balza in mente nel momento della rinascita e del ritorno della speranza.
Lì, nel bellissimo parco dell'Airone, a Bedizzole, tra i joggers della domenica, famiglie allegre sorprese del sole nonostante le previsioni pessimistiche della vigilia (che sia colpa del wet bias?), rinasciamo.
Il terreno è finalmente gravel, quella ghiaia che sfrigola al passaggio dei nostri pneumatici, opponendo quella giusta resistenza che rende tutto un po’ frizzantino, ma senza sbalzarci come yo-yo sulla sella.
Il parco lascia spazio a pratoni di erba incolta e fradicia, pattugliati dalle squadre di cacciatori Bresciani con i loro cani da riporto.
Pensiamo che possiamo farcela. Il traguardo è ancora distante e ci sono ancora ben tre salite distinte da affrontare, ma il ritmo è finalmente quello giusto. Pensiamo allora che solo una fucilata mal piazzata possa porre la parola fine. Acceleriamo. Anzi, ora sì, voliamo. Come l'airone.
FANGO E MARMO
Quando si iniziano a vedere le cave di marmo di Nuvolera, pensiamo già al fango che potrebbe accoglierci sulle rampe solitamente cavalcate dai camion pesanti.
Entriamo nella cava, e la strada si colora subito di marrancione (sì, marrancione), ci illude con qualche tratto pianeggiante e poi si inerpica dritto per dritto.
Il fango c'è, e accarezza i sassi bianchi reduci dal taglio del marmo. Il fotografo ci attende, ma nota che sorridere in quella posizione da orango-tango è impossibile. E allora fa partire il drone sulle nostre teste, donandoci un attimo di sollievo con quella brezza al calcare.
Il terzo e ultimo check-point è all'insegna dell'ottimismo. "Ormai ci siete". mancano solo 500 metri di dislivello (parliamone). I ragazzi di 3T mi guardano mentre scolo una bottiglia di coca e non osano sottolinearlo (grazie). Lo faranno solo all'arrivo, ormai certi che qualsiasi problema avessi, ormai era superato.
Superato grazie ad Armin, che inizia a gridare al vento ogni volta che i chilometri all'arrivo diminuiscono di 5.
A Brescia, la salita asfaltata fino a "Brescia Alta" sembra una carezza. La salita sul Monte Picastello un po’ meno. Molto meno. La strada delle trincee è quella tipica salita che "era meglio l'avessero messa all'inizio". Ma ormai nulla può scalfirci. Se fai 300 km, quando ne mancano 30, la testa è già all'arrivo. E nemmeno quando scopriamo che la nostra traccia non porta a Erbusco, ma a 7 chilometri di distanza, non ci scoraggiamo.
Afferriamo la strada provinciale, che è come sedersi su un divano morbidissimo dopo una giornata seduta su una panca di legno, e sorridiamo alla bellissima accoglienza del villaggio di arrivo.
«Vi aspetta la vostra birra». È quello che volevamo sentirci dire. «Ma prima foto di rito e firma sul pannello».
Non sono molte le firme che ci hanno anticipato. Circa una decina. Segno che "Lent ma Seguent" era il passo giusto anche oggi. Oggi e ieri, dato che siamo partiti alle 8 di sabato e siamo arrivati alle 14 di domenica.
Come si dice? «La notte leoni... la mattina... pure! Altrimenti la Jeroboam 300 non la finisci». Ora lo sappiamo per certo.
UCI e Gravel, ne parliamo con Enough
L'annuncio UCI, riguardante la creazione di una nuova serie gravel e di un campionato mondiale apposito, ha aperto un interessante dibattito nell'ambiente. Abbiamo scambiato qualche impressione con Federico Damiani, una delle anime del team Enough, che in Italia è velocemente diventato un riferimento nel settore: «Sono tematiche complesse in cui la lucidità di analisi è fondamentale. Prima di farsi un'idea specifica di ciò che potrebbe accadere, bisognerebbe conoscere in maniera accurata quello che l'UCI vorrà fare e a oggi questo non lo sa nessuno. La speranza è che venga salvaguardato il clima di condivisione e festa che, soprattutto qui in Europa, è alla base del mondo gravel. Nessuno, anche ai vertici, però ha detto che questo non avverrà». Damiani pone l'accento su un tema importante: si parla spesso di spirito e disciplina gravel, ma il termine gravel racchiude un insieme di cose talmente diverse da non potersi semplificare così. «È una disciplina così vasta da non essere una disciplina: credo che se questo avverrà, sarà sul modello americano, gare più veloci su fondo sterrato. In Europa, invece, abbiamo gare più lunghe e basate anche molto sulla fruizione del paesaggio, che si avvicinano di più al mondo ultracycling. Basta fare un confronto fra Unbound Gravel e Badlands».
Le gare lunghe, specifica Damiani, sono, in fondo, un modo diverso di viaggiare: «Di solito nel viaggio scegli tu dove andare, come e quando, riservandoti anche di rimandare. In queste gare invece è il mondo a “capitarti” addosso e tu lo vivi in quel momento».
Un indizio che propende per il modello americano è il fatto che, a quanto pare, sarà prevista una vera e propria Gravel Fondo Series per le qualificazioni agli eventi più importanti. «Qui i punti sono due. Il primo è capire in che relazione saranno questi eventi con il calendario gravel che conosciamo. Di certo, se i nomi maggiormente rappresentativi non dovessero partecipare a queste gare, il potenziale Campione del Mondo in carica sarà parzialmente delegittimato. Il secondo, invece, concerne il fatto che chi partecipa a questi eventi anche per il paesaggio e i luoghi che vede, e sono moltissimi, farà più fatica a dedicare un intero fine settimana a una gara che in realtà da questo punto di vista non offre nulla». A questo proposito gli fa eco Mattia De Marchi, recente vincitore di Badlands: «Dovremo essere noi bravi a raccontare alle persone che, qualunque sia la decisione presa, nella visione della bicicletta e del ciclismo non cambierà nulla: già adesso ci sono persone che hanno una maggiore propensione agonistica e altre che invece vogliono solo godersi il momento».
Già, perché tanto De Marchi quanto Damiani sono concordi sul dire che nessuna scelta UCI potrà mai cambiare ciò che il gravel significa per ciascuno. «Crediamo sia sbagliato togliere l'aspetto di festa e scambio dalle gare gravel, però non bisogna nemmeno demonizzare la parte di agonismo che c'è. Quella c'è in tutte le circostanze della vita, non si può fingere di non vederla». Mattia De Marchi continua: «Mantenere le relazioni è molto semplice: basterebbe dormire tutti nello stesso villaggio e preservare i momenti di convivialità. Evitare che ad un certo punto ci sia un fuggi fuggi ognuno nella propria camera di albergo perché “si deve gareggiare”. Se lo si farà, questa scelta potrà anche avere buoni effetti». Il vincitore di Badlands si riferisce alla possibilità che più professionisti si avvicinino a questo mondo, soprattutto coloro che soffrono l'eccessiva competitività, le rinunce e le pressioni. «Saranno pochi, magari, ma di certo qualcuno ci sarà e questo sarà il modo per raccontare un ciclismo diverso, per far capire che può esserci». Del resto, come Federico Damiani spiega bene: «Il mondo gravel non è più un mondo di nicchia e ovviamente crescendo ha iniziato a suscitare interessi commerciali. Peter Stetina ha detto che si sarebbe dovuti per forza arrivare a questo punto. Non so se “per forza”, ma che ci si sarebbe arrivati era prevedibile».
Di fronte a ciò che accade, allora, la domanda migliore che ci si possa fare è come leggerlo per trasformarlo in una opportunità. «Se si avvicinassero sempre più media? Se anche la televisione provasse a raccontare una gara in Kenya, ad esempio? Forse non in diretta, ma in leggera differita. Un sacco di persone seguono i nostri tracciati sulle mappe interattive - continua De Marchi - proviamo a pensare a cosa potrebbe voler dire seguire le immagini televisive. Non tanto per la cronaca, per raccontare il prima e il dopo. Per raccontare gli ultimi ancora più dei primi: è in loro che le persone si immedesimano».
Il mondo cambia e Federico Damiani fa notare che ciò che avviene ora nel gravel è già avvenuto nella mountain bike senza tutte queste discussioni: «Non mi risulta che ci siano persone che si domandano se sia corretto oppure no disputare una gara di cross country. Il punto è sempre il come. Penso alle regole: è del tutto ovvio che delle regole servano, ovunque non solo nel gravel. Ad oggi si rispettano anche tante regole non scritte, per esempio in alcuni eventi, fermarsi tutti assieme ai ristori e poi ripartire. Se ci saranno tante regole scritte, dubito che qualcuno rispetterà quelle non scritte. Anche perché il livello cresce sempre».
Detto che in ogni scelta è lecito seguire anche una logica commerciale, l'importante è che non ci si limiti esclusivamente a quella. «Si può parlare con i brand, ma è necessario parlare anche con gli atleti o gli organizzatori degli eventi e questo, purtroppo, al momento non è stato fatto. Speriamo che l’UCI lo faccia presto» si augurano Federico e Mattia.
Il giudizio è, quindi, sospeso almeno fino a quando non ne sapremo di più.
Badlands, come un film
Alla partenza di Badlands, Bruno Ferraro nota Lachlan Morton. L’organizzatore, la sera prima, gli ha detto che Morton pensa di concludere la gara in due giorni, a Bruno pare impossibile così gli si avvicina e gli domanda quanto tempo crede di impiegarci, con una semplicità disarmante Morton risponde: «Non so, ci metterò il tempo che ci vorrà». La scena si svolge a Granada, in Spagna. Sono le otto di mattina: «Granada è una città accogliente, ci sono tanti negozi di biciclette e questo è importante. Ho avuto modo di fare un controllo della mia bici prima della partenza: sempre meglio in occasione di gare con questi chilometraggi. La partenza a quell’ora di mattina è ideale, molte volte si parte in piena notte. C’erano persone da tutti i Paesi del mondo, molte che avevo già conosciuto e davvero un bel clima».
In realtà questa atmosfera si disperderà nel giro di breve tempo. «Come si parte, tutto sembra così lontano. Soli quindici chilometri e inizi a pedalare in mezzo alle colline sperdute della Spagna. Siamo a Nord della città di Granada, in luoghi turistici. La particolarità di questa parte del tracciato sta nella luce: una luce bassa che cade sulla polvere e irradia riflessi dorati. Era il tipico paesaggio da Strade Bianche ed eravamo ancora in tanti e abbastanza raggruppati». Al chilometro settanta si transita da Guadix e si inizia a percepire l’aria del Deserto di Gorafe. Ferraro si ferma in un bar per fare scorta di acqua e cibo. «In questo locale c’è Rosalia, un’anziana signora molto attenta ai bisogni di tutti i suoi clienti. Mi ha fatto tenerezza perché, nonostante l’età, era indaffaratissima a fare su e giù dal magazzino per recuperare tutte le nostre vivande. Ad un certo punto, ho detto ad un ragazzo spagnolo: “Secondo me ti conviene dirle che fra poco arriveranno altre cento, centocinquanta persone, almeno è pronta e non deve fare tutto così di corsa”».
Al deserto di Gorafe si arriva nel tardo pomeriggio. «Mi ero documentato sulla zona e sapevo che da pochi anni è un luogo rinomato per il trekking. In sostanza si tratta di un deserto composto da formazioni geologiche scavate da vecchi corsi d’acqua, una specie di altopiano con diverse gole. Si pedala in mezzo al canyon, accanto alla gola del fiume: il percorso è ad anello e il luogo di partenza è lo stesso dell’arrivo. Quando ho terminato questa parte del percorso, il sole stava calando, era appena sotto l’orizzonte».
Da quella luce flebile, tra l’ocra e l’arancione puntinata di sassi dalle sfumature calde, si esce su una strada principale. «Ovviamente al termine del deserto avevamo bisogno di rifocillarci. La scena è stata simpatica perché l’unico bar della zona, dopo tanti chilometri nel nulla, era frequentato da molti vecchietti, intenti a fumare pipe, sigari e sigarette. Noi arrivavamo sfatti, pieni di polvere e sudore, con l’unico pensiero di portare via un sacchetto con del cibo. Ci guardavano tutti molto incuriositi».
Adesso non c’è più luce, il buio invade le strade e Bruno, per recuperare energie ed evitare crisi lungo il tragitto, cerca di dormire qualche ora. «Erano le dieci, massimo dieci e mezza. Mi sono sdraiato su una panchina, accanto a una fermata dell’autobus, fuori dalla città e ho provato a dormire. Non ci riuscivo, probabilmente non ero neppure stanco. Dopo un’ora mi sono alzato e sono ripartito. Era da poco passata la mezzanotte». La strada è in salita, si scala il Calar Alto, 2.168 metri di dislivello. «Ho retto abbastanza bene la prima notte, nonostante il freddo. Il momento più difficile è sempre intorno alle quattro, le cinque, del mattino».
Il giorno successivo è quello del secondo deserto, quello di Tabernas. Tutto cambia rispetto a Gorafe: il paesaggio vira su colori scuri, le pietre tendono al grigio, talvolta appaiono nere come la pece. Si intravedono le classiche sterpaglie di paglia giallognola dei luoghi aridi. «Questa è la zona dove sono stati girati i film western più famosi, anche quelli di Sergio Leone. Ci sono dei saloon allestiti con arredi dell’epoca e vecchie rovine di case. C’è una ferrovia abbandonata: non appena la vedi, pensi a dei banditi che assaltano una diligenza». L’unica ombra che si può trovare è quella che le rocce riflettono a terra: è l’una del pomeriggio e Ferraro si siede per qualche istante accanto a quelle rocce. Riprende fiato. La bicicletta è davvero difficile da spingere. In un locale, poco più in là, foto e ricordi di Terence Hill e di tutti gli attori di quei film: «Pensa, quel bar esisterà da quarant’anni. Chissà quante storie potrebbe raccontare il gestore».
Si entra a Cabo de Gata Natural Park: qui è la natura a trionfare con piante e coltivazioni. C’è anche una vecchia miniera abbandonata, un paesaggio molto suggestivo. «Poi il mare, proprio al tramonto. Difficile anche da descrivere quel momento. Vivi delle situazioni davvero difficili, per esempio quando la bicicletta non scorre nella sabbia e ti chiedi chi te lo abbia fatto fare. Ma quando vedi il mare, la spiaggia con i ragazzi, che scherzano fra loro con una bottiglietta di birra in mano, capisci che hai fatto bene a partire. Hai già nelle gambe quattrocentro chilometri, e ne mancano più di trecento, ma sei contento».
Si prosegue fino ad Almeria, pedalando su una strada che costeggia un parco naturale: lì lo attende un hotel con reception sempre aperta. Ferraro lo ha prenotato tempo prima e ha fatto bene: arriverà alle due e mezza di notte. «Sono entrato in camera, ho pulito i pantaloncini, sistemato le mie cose, cenato con due empanadas di pollo e mi sono fatto una doccia. Mi sono coricato dopo le tre, puntando la sveglia per le sette. L’alba arriva abbastanza tardi ed iniziare a pedalare con le prime luci è l’ideale. Quella notte ho dormito, talmente bene da non sentire la sveglia. Oggi posso dirlo: quella mezz’ora in più di sonno mi ha fatto davvero bene».
Quando riparte, Bruno sa, o ameno spera, che quello sia l’ultimo giorno di gara. Forse il giorno più duro: c’è da scalare il Passo Veleta, nel parco nazionale della Sierra Nevada. La cima si trova a 3.212 metri di altezza. L’aria, sopra i 2.500 metri inizia a rarefarsi e Bruno ha dei piccoli svenimenti. Deve scendere di sella e proseguire a piedi, ma c’è un ostacolo in più: è scesa la notte.
«Ho corso tutto il giorno con l’idea di arrivare al passo prima di sera, non ci sono riuscito. Allora ho cercato di raggiungere un ragazzo che conoscevo e che era davanti a me di poco: salire insieme mi avrebbe aiutato molto, almeno a livello morale. L’avevo praticamente raggiunto, ero lì. Lui invece ha scelto di fermarsi a dormire in hotel prima della scalata: un brutto colpo per me. Dovevo scegliere: proseguire da solo o ripartire il mattino successivo. Ho deciso di proseguire ed ho fatto bene. Proprio in quel frangente ho recuperato posizioni e sono riuscito a concludere quinto».
La scalata inizia alle nove di sera, in cima si arriva alle tre di mattina. La discesa tutto d’un fiato, ancora una salita e la successiva discesa e poi l’arrivo a Granada. Il sorgere del sole sorprende gli atleti con una vista da cartolina sulla città. È finita. «Ti senti strano quando torni in una grande città dopo un’avventura del genere. La bicicletta ricomincia a scorrere su strade di asfalto, vedi negozi di alimentari, di abiti, mezzi di trasporto e ricominci a sentire i rumori della città. Ci metti del tempo a capire. Questo accade anche quando torni a casa. Hai conosciuto un mondo, visto squarci sempre differenti, che sono ti entrati in testa e ora ti mancano. Devi ritrovare gli stimoli per salire in sella e fare ‘il solito giro’, devi inventarteli se necessario. Il ricordo però resta. Sembra un film».
Foto: Bruno Ferraro
Terra! Un giro gravel nelle Langhe
Chi cerca davvero, non sa che cosa cerca. Non so proprio che cosa aspettarmi, mentre accompagno fuori la SuperX. In autunno ci sono scorci di malinconia che, di solito, mi piace stare semplicemente ad osservare. È la mia stagione preferita. In questo ottobre 2020, però, c’è qualcosa di diverso: con due bambini piccoli, la paura di un contagio e l’esperienza alienante dello smart working ad oltranza, il nostro lockdown non è mai finito e l’autunno ci ha sorpresi già stanchi, storditi. Refrattari. Ci chiediamo spesso se siamo realmente noi questi qua.
Fuori di casa fiuto l’aria: freddo, ricordi di gioventù, di nebbia e pallone, odore di campagna umida e corse campestri, di sudore e terra sembrano scendere verso di me direttamente dalle colline intorno, immerse nella foschia. Sudore e terra. Ci sono idee che, se provi a spiegartele, perdono tutto il loro senso. Bisogna accoglierle e crederci. È una fede. Parto così, senza sapere ma con in cuore la speranza che funzioni anche stavolta: la bicicletta è per me da sempre una risposta, anche quando la domanda non è chiara.
La ciclabile che corre lungo il Tanaro è perfetta per cominciare: regolare, quasi piatta, un fondo ben compatto. Pedalo agile e ascolto il fiume alla mia destra, ne sento l’energia. Ho imparato dagli albesi a convivere con questa forza misteriosa, a rispettarla, a non dimenticarmi mai che c’è.
Dopo un breve strappo su asfalto, a Roddi prendo il sentiero che cavalca la collina e in un istante realizzo che sto facendo la cosa giusta. Ancora non so che cos’è: so solo che ho voglia di sentire quegli odori, affondare le mani – o le ruote? – in qualcosa di concreto, uscirne più simile alla natura che attraverso.
Con vari saliscendi supero il nuovo, grande ospedale. A La Morra risalgo la stretta via che porta al belvedere; la luce d’ottobre mi investe sulla piazza ed esalta i colori delle colline: verde, giallo, rosso, marrone, colori caldi in un mattino che sa già d’inverno.
Per scendere le alternative si sprecano, sia su asfalto che su sterrati di vario tipo. Ma stavolta non voglio sforzarmi di capire ciò che ho in mente. Non scelgo la destinazione, è la destinazione che mi sceglie e io ne vengo inevitabilmente attratto, come risucchiato. Metafisica della bicicletta o assoluta libertà?
Mentre penso a quanto sarebbe bello applicare questo metodo di non-scelta nella vita, giungo nei pressi della cappella delle Brunate: è una piccola chiesetta – mai consacrata – con le pareti esterne dipinte di tanti colori diversi; opera di Sol LeWitt e David Tremlett, gode di una certa notorietà sui social come sfondo per le foto. Ma non è un giro da selfie questo, per me.
A Barolo, mentre finalmente l’aria si fa tiepida, inizio a capire. Sfilo tra i vigneti in fermento, brulicanti di uomini e donne come formiche operose. Qualcuno canta una canzone che non conosco; è una canzone allegra in una lingua che non capisco, eppure mi sembra di cogliere il sentimento che le fa da sfondo: ho voglia anch’io di cantare. La vendemmia è al suo apice, l’atmosfera è quella di un Natale, gioia e mistero si uniscono mentre abbandono l’asfalto, scendo e spingo la bici su per una capezzagna.
Mio fratello Michael e la sua compagna Francesca, quando li raggiungo, mi confermano coi loro sorrisi che sono nel posto giusto. L’espressione stanchi ma felici me la porto dietro dai temi delle elementari, ma è così che descriverei i loro volti. Invidio la loro abbronzatura e quei segni che hanno addosso – qualche graffio sulle braccia, le mani screpolate. Penso agli ultimi mesi: chiuso in casa davanti ad un computer, a lavorare molto e sentirmi, comunque, sempre incompleto.
Non che qui sia tutto rose e fiori – e viti. Mi informano che stamattina c’erano sette gradi, quando io ero ancora nel mio letto e che si andrà avanti finché si vedrà qualcosa. Mi fermo un po’ con loro, così, per dire che c’ero anch’io quando nasceva questo Barolo. Già, qui nasce il più nobile tra i vini nobili: eppure, in giro vedo ciò che si vede in qualsiasi vigna, ovvero erba e borse con il pranzo, giacche appese qua e là e facce stanche che spuntano tra i filari.
Può sembrare strano, ma molta della fortuna di questo territorio nasce proprio da qui.
Mi raccontano che negli anni ’60, quando il nonno di Francesca ha iniziato l’attività, in pochi avrebbero scommesso una lira su di lui e sulla sua idea. Quella terra valeva poco, allora. Fortuna, sì, ma soprattutto impegno e coraggio. Una fuga dal solito gruppetto che non ci crede e tu, che in un momento di grazia hai detto il tuo sì migliore e te ne sei andato per la tua strada. Oggi, Cascina Rocca è una bella realtà che propone ottimi vini (non solo Barolo), un posto comodo dove fermarsi per qualche giorno di escursioni nelle Langhe e un’atmosfera che è davvero famigliare, perché anche la Terra del Barolo, vista da vicino, è pur sempre terra.
Mi congedo con mezzo grappolo d’uva in mano e con qualche indicazione per non dover tornare sui miei passi. Piccolo avvertimento: da queste parti nessuno ha mai inseguito o perseguito i ciclisti che si avventurano tra i filari, come ho fatto io stesso; valgono ovviamente le regole del buon senso e del rispetto. Quindi, avuto il permesso, mi butto in picchiata sul versante opposto a quello di salita, giù per una capezzagna, con i filari che sfilano a destra e a sinistra, come un pubblico silenzioso e ordinato, con mani verdi che salutano, mosse dal vento.
La statale scorre veloce e insipida sotto gli pneumatici da trentacinque millimetri; tra poco potrei essere a casa, arrivato, ma questo giro non ha ancora finito con me. Al bivio prendo a destra e salgo al castello di Grinzane Cavour. Breve sosta panoramica e si riparte, in salita, verso Diano d’Alba. D’altronde, secondo me, il profilo migliore del castello è quest’altro, quello che si vede dalla strada di Diano, quando è incorniciato tra le montagne e il cimitero, tra la terra verde e marrone e la strada grigia e il cielo e le nuvole. A girare da queste parti capita anche questo, che un normale giro di “allenamento” somigli ad un giro turistico e che, per forza di cose, si debbano ignorare luoghi affascinanti, soffermarsi poco o nulla di fronte a scenari che meriterebbero più d’un pomeriggio. Forse è banale, ma anche così la bicicletta è metafora della vita.
E proprio come nella vita, capisco questa cosa eppure continuo, corro, testa e pancia giù, su per la salita di Diano. Alle mie spalle so che fanno capolino il Monte Rosa ed il Cervino, ma non mi volto, non addolcisco questa fatica che voglio proprio così, dura, brutta, arrogante come pensare di stabilire un nuovo KOM sulla salita di Diano con una bici da ciclocross che pesa dieci chili.
In discesa l’aria rimane tiepida, ogni curva a sinistra permette di scorgere Alba, là sotto, a destra, adagiata nella sua conca. Arrivarci dopo le Langhe mi fa sempre pensare ad una nave persa nel mare in burrasca, che finalmente avvista terra. Anche la città, che ho sempre un po’ snobbato, dopo il lockdown la guardo con occhi diversi, come una compagna che ha visto le mie stesse cose, che nel silenzio ha accolto le mie paure, che mi conosce da sempre ma ora un po’ di più.
Pedalando verso il centro mi fermo in coda nei pressi di una rotonda, un vigile regola il traffico e io devo aspettare il mio turno. Penso alla prima coda fuori dal supermercato, alla guardia che chiamava i numeri per entrare, alla pioggia leggera che mi bagnava e io che apposta non aprivo l’ombrello. “So di chiuso”, dicevo sempre a mia moglie, in quel periodo. Mi annuso. Ho deciso che sudore e terra saranno la mia cura e ho bisogno di continuare. Mi viene in mente che non sono mai stato al Bricco delle Capre, così torno sullo sterrato della collina albese e in poco tempo scendo a San Rocco Seno d’Elvio, quindi risalgo verso Treiso sfilando accanto alle Rocche dei Sette Fratelli, suggestive formazioni marnose che paiono creste di montagne in miniatura. Una voragine paurosa ed affascinante.
Alternando una dorsale di Langa a tratturi polverosi arrivo a casa di Roberto. “In montagna ci si lega per la vita e per la morte”, diceva Walter Bonatti. Io e Roberto ci siamo legati molte volte per la vita e vorrei che fosse così anche questa volta, sebbene con una corda invisibile.
Il Monviso ci osserva col suo solito cappello di nuvole, mentre sediamo sul terrazzo, io con un panino in una mano e una Coca Cola nell’altra.
Il vino preferito da Roberto è il Barbaresco, ma non si apre un Barbaresco con un panino in mano a metà di un giro in bici, alle due di pomeriggio.
Roberto mi parla del suo motto: “vino autentico”. Niente di speciale, no? «Eh, no» mi dice. «È importante. In un mondo sempre più dominato da assemblaggi, che tentano di soddisfare il cliente in ogni modo, io credo che il vino debba restare vero con sé stesso, parlarti del proprio vitigno, della propria indole. Come dire: questo sono io: se ti piaccio, bene. Il vino è esperienza». Un giorno Roberto avrà una sua cantina e questa sarà la sua filosofia.
Mi accompagna per un po’ lungo la strada con la sua Columbus azzurra in acciaio, presa da poco; ci salutiamo ad un bivio, al termine della discesa, con la promessa di un giro insieme. So che non succederà. Oggi è come un sogno, un giro che non esiste, un momento vero ma sospeso, rimasto appeso da qualche parte nel tempo.
La strada per Neive è un balcone su una Langa elegante e raffinata; anche qui è chiaro che, senza lavoro, non ci sarebbe nulla. Lo vedo nei trattori che incrocio, nelle loro tracce di terra che entrano ed escono dalla striscia d’asfalto, da e verso pendii scoscesi e pericolosi. Auto lussuose con targhe di ogni provenienza mi sorpassano e, quando sono abbastanza lontane, torno a sentire il mormorio frenetico, tormentato della vendemmia: motori che sbuffano, voci, a volte canti, altre volte bestemmie.
Ne parlo con Giorgio Negro, sulla terrazza panoramica della sua Cantina Negro Giuseppe. Qui è un po’ come essere a teatro, solo che gli spettatori stanno sul palco ed ammirano la platea: una platea verde con corridoi precisi e ordinati, silenziosa eppure calorosa, di una bellezza sofisticata e rustica al tempo stesso.
Siamo al centro di questo anfiteatro verde con un rosé in mano, Giorgio mi spiega come suo papà, Negro Giuseppe appunto, avesse giusto questo pezzo di terra, comprato con il lavoro in fabbrica. Mi chiedo se dopo anni in fabbrica avrei voglia di comprare della terra da lavorare, e non piuttosto una casa con piscina. Intuisco quest’idea che la fatica alla fine ripaghi sempre, che non va mai persa o sprecata; la volontà di lottare momento per momento, con fiducia. Dopo tutta la giornata spesa in giro, con i polpacci sporchi di terra e polvere e il sudore che opacizza la barra in carbonio nero della mia bici, finalmente mi sento al mio posto. Dopo tutto il fermento respirato su e giù per le colline, la calma di Giorgio e di questo angolo di Langa, insieme alla luce che cambia nel pomeriggio di ottobre, fanno bene all’anima.
Rimonto in sella, la SuperX è bellissima nella sua veste nera con schizzi di fango e con il suo cerone di Langa.
Rimane Barbaresco, con la sua torre e i suoi turisti, che osservo solo da lontano: ci vorrà un po’, per me, per accettare di nuovo la folla, la calca. Ma dopo oggi, grazie alla bici (e agli amici) so che questo non significa essere solo.
Torno a casa cercando le tracce dell’Ecomaratona, sul sentiero dei partigiani lungo il Tanaro e poi su per la collina di Altavilla. Scollino, riecco Alba, resto per un attimo ad osservarla: mi sembra più vera, onesta, come un vino autentico.
La sera, la terra è stata lavata via dal carbonio della mia bici e dai miei muscoli stanchi. Ma sull’asfalto delle vie rimarrà fino alla prossima pioggia.
Foto: Alessandro Foglia