La gerarchia prima di tutto: intervista a Fausto Masnada

Il senso di rispetto di Fausto Masnada per i ruoli appare evidente, lapalissiano, quasi eclatante: «Siamo pagati per rispettare i compiti assegnati: uomo squadra, seconda linea, gregario, definitemi come preferite. È vero: è importante avere ambizioni personali, però bisogna essere realisti, sono in un grande team con grandi capitani ed è giusto rispettare ciò che ci viene chiesto».

Corridore sempre a disposizione per la sua squadra «e miei compagni lo sanno. Al termine del Lombardia sono uscite fuori polemiche inesistenti: Alaphilippe e gli altri ragazzi della Quick Step erano felicissimi del mio risultato e per come era maturato. A me non piace fare il furbo e prima di provare in prima persona avevo lavorato come mi era stato richiesto. Poi quel giorno stavo particolarmente bene anche se in partenza le gerarchie erano altre».

Inevitabile partire proprio da quel risultato maturato sul traguardo di Bergamo: 2° posto dietro Pogačar, una delle prove più convincenti della carriera del 28enne che proprio su quelle strade ha vissuto la maggior parte della sua vita, agonistica e non. «Mentirei se dicessi di non essere rimasto un po' deluso. Ma cosa ci vuoi fare: ha vinto uno dei corridori più forti del gruppo, uno che oltre ad avere la gamba ha una testa incredibile». Per Masnada, infatti, quello che caratterizza il 23enne sloveno è l'intelligenza: «Non vinci due volte un Tour se non hai anche la testa per farlo. E nel finale contro di me ha mostrato furbizia e freschezza».

Racconta, Masnada, puntuale e preciso, la preparazione e lo svolgimento dell'ultima Monumento della stagione: «Come ho detto la gerarchia in squadra era stabilita. Tre punte: Remco, Almeida e Alaphilippe e io in seconda battuta. Stavo bene ("benissimo!" gli diciamo noi); il mio compito era stare con le antenne dritte e muovermi dalla media distanza da Dossena in poi. Quando è partito Tadej sulla salita di Orezzo ho avuto il via libera da Bramati per fare la mia corsa».

D'altra parte, aggiunge Masnada, in corsa a volte le strategie prestabilite possono essere rimescolate. «Non tutti possiamo partire con il ruolo del leader, ma capita che uno dei capitani designati non si senta bene, oppure che la corsa prende una certa piega: la nostra forza in squadra è quella di essere un gruppo compatto, affiatato, ci parliamo spesso e se hai la tua opportunità come è successo con me al Lombardia allora devi essere pronto a coglierla». La pazienza come canone, la disciplina per alimentare la forza interiore.

E giù dal Passo Ganda, nella discesa del Selvino, Masnada, bergamasco doc, le sue carte se le è giocate come un abile prestigiatore, tracciando linee, prendendo rischi calcolati e riuscendo a piombare a fine discesa su Pogačar. «Quelle strade le conosco a memoria: capitava, quando mi allenavo da questa parti, di fare anche una cinquantina di volte all'anno il Selvino. Sono sceso con intelligenza, ma fondamentale doveva essere rientrare prima del tratto in pianura, altrimenti avremmo dovuto cambiare spartito».

Ma nel finale non c'è stato nulla da fare, Pogačar si è gestito in pianura, ci racconta ancora Masnada, tirando sempre con un certo margine: «E sulla Boccola ha fatto un'andatura pazzesca: ho raggiunto un wattaggio che non avrei mai creduto dopo sei ore di corsa», ma il segreto dietro quei numeri è stata anche la spinta del pubblico. Bandiere, urla, cappellini, tifosi ovunque. Davanti Pogačar seduto, potente, a scandire il ritmo, con una accenno di bocca aperta, dietro Masnada in piedi sui pedali, i denti di fuori. Si direbbe: a tutta. Forse di più. «Quanta gente che c'era a spingermi per tutto il percorso! Emozioni immense, indescrivibili. I bergamaschi sono tutti grandi appassionati di ciclismo, ma quello che ho visto in gara ha dell'incredibile. Sulla Boccola sono salito grazie al tifo del pubblico che mi ha fatto passare il mal di gambe e mi ha spinto fino in cima».

Una stagione chiusa bene, in crescendo (prima del Lombardia, Masnada volava, letteralmente, anche alla Milano-Torino), ma che lo vede soddisfatto a metà per via dei problemi fisici avuti al Giro, chiuso in anticipo per una tendinite dopo essere partito da Torino con l'influenza, e per una frattura rimediata alla Settimana Ciclistica Italiana in Sardegna che gli ha fatto saltare la Vuelta.
Ma nel 2021 ha potuto approfondire le conoscenze su due compagni di squadra per i quali ha lavorato in più fasi, in modo egregio. «Differenze fra Almeida e Evenepoel? Intanto le similitudini: hanno un talento incredibile e sono così giovani che ancora devono imparare a correre da capitani. Almeida è tranquillo, quasi pacato. Trasmette serenità in corsa. Evenepoel ha una forza devastante in tutti sensi: nervoso, istintivo, a volte non si riesce a farlo ragionare. Testardo, emana cattiveria agonistica e quando corri per lui ti senti ancora più motivato e concentrato perché trasmette professionalità e ti motiva con la sua stessa grinta».

Chiediamo a Masnada quale futuro, quali margini, quali obiettivi per lui. Al solito è laconico, essenziale; vola basso, ma più che dimesso appare concreto e ambizioso: «Anno dopo anno sto crescendo: mi pongo obiettivi nuovi che servono per stimolarmi, diventare ancora più forte e tirare fuori il meglio da me stesso. E questi miglioramenti sono la benzina che mi motiva ad andare avanti. È vero: ho fatto 2° al Lombardia e voglio continuare a migliorare, ma niente voli pindarici, preferisco commentare dopo una corsa che fare dei pronostici prima».
Gli piacerebbe fare il Giro nel 2022, anche se i programmi non sono stati stabiliti, la corsa alla quale si sente più legato e che sente più adatta. «Però, se mi dovesse essere chiesto di fare il capitano al Giro, mi farò trovare pronto».


Mad World

Chissà cosa avrà voluto dire quella ragazza che, all'ora del primo caffè, in un bar, poco distante da Como, ha fermato il barista mentre cercava una canzone. "È questa" ha detto ed è partita "Mad World" dei Tears for Fears. Ci abbiamo pensato mentre andavamo alla partenza de "Il Lombardia".
Davide Orrico è di Como, ci dice che è la sua prima volta, che non può fermarsi molto perché tutti lo chiamano. Per nome, tra l'altro. Una restituzione di identità, qualcosa che esula dal ciclista e riporta alla persona. Perché qui tutti lo conoscono così. Non ci dice che proverà ad attaccare, ma le tattiche non si rivelano mai a nessuno. "Si farà strada, vedrete" avverte qualcuno accanto a noi. Orrico si è fatto strada e di strada ne ha fatta: prima in fuga, poi di nuovo ad attaccare ai quaranta dal traguardo dopo essere stato ripreso. Vedi dal volto, vedi dalla sudorazione, dalle spalle che è alla corda ma non molla. E aveva ragione quella ragazza, la canzone è proprio quella, quella che ad un certo punto dice: "È qualcosa di strano, di divertente: i sogni di cui sto morendo sono i migliori che abbia mai avuto". Questa frase ritorna ogni volta in cui un uomo all'attacco si sposta a bordo strada, si fa sfilare. Muoiono sogni, i migliori che ci siano per un ciclista, ogni volta che finisce una fuga.

Vincenzo Nibali potrebbe dire lo stesso, lui che, quando ha provato ad allungare, ha ricordato l'ultimo attacco al Giro di Sicilia ma anche tutte le altre volte. Anche una Sanremo di anni fa, perché poi le salite sono mare verticale e pace se lì eravamo in primavera e qui il foliage scricchiola sotto le scarpe. Si è staccato poco dopo, non era giornata. Ma gli esseri umani hanno un preciso dovere: coltivare sogni, ma badare alla realtà. Nibali lo fa, proseguendo con dignità. Come fa Pinot che, alla partenza, mentre tutti applaudono Alaphilippe, il nuovo Campione del Mondo, gli si avvicina e gli dà una pacca sulla spalla. Fa strano: chi sta realizzando tutto ciò che poteva sperare e chi ha dovuto fare i conti con vetri rotti da rimettere assieme.
Tadej Pogačar nell'armadio di casa dei genitori ha un disegno di un ciclista che attacca una salita. Potrebbe essere lui mentre attacca dopo lo scatto di Nibali. Forse il modo migliore di coltivare un sogno in una famiglia di umili condizioni: appenderlo a un armadio per ricordarsene. All'interno dell'armadio perché la tua realtà devi comunque viverla e la sua non era quella di un ragazzo che potesse permettersi troppi grilli per la testa.

Fausto Masnada sogna come quell'artigiano che per la strada che porta a Bergamo espone oggetti di legno. Modella con umiltà ciò che vuole, con decisione, mettendosi a disposizione ed essendo a disposizione. Quando arriva a Colle Aperto con Pogačar, a noi viene in mente Charlie che a vedere "Il Lombardia" si è appostato in pianura perché la sua carrozzina non gli permette di scalare vette, anche se brevi e ci dice di salire a Colle Aperto "perché lassù oggi non senti nemmeno il tuo respiro dalla folla che c’è". Era vero, aveva ragione Charlie, che probabilmente non ci leggerà ma, se capitasse, vorremmo solo dirgli che il suo consiglio è stato prezioso e che lo ringraziamo perché da nomadi del ciclismo non sapremmo quasi nulla dei luoghi in cui capitiamo senza persone come lui.

Pogačar e Masnada hanno vissuto le stesse sensazioni, chi da una parte e chi dall'altra del sogno. Pogačar, che oggi conquista la sua seconda monumento dopo la Liegi, forse fermerà la radio su un'altra canzone. Masnada quella ragazza potrebbe capirla senza starci troppo a pensare perché ha perso proprio mentre immaginava una delle cose più belle che potesse mai desiderare.
Poi c'è chi non era pronto per i propri sogni, Roglič, e chi non ha scelto il momento giusto per farsi strada, Alaphilippe su tutti, che, in fondo, di quella pacca sulla spalla di Pinot aveva bisogno, come tutti coloro che stanno andando da qualche parte. Per viaggio, per sogno o per lavoro. Perché, tra tutti i sogni realizzati e quelli schiacciati dalla realtà, è proprio un mondo matto.


E a chiudere (o quasi)... Il Lombardia

Se c'è una (grande) corsa di un giorno che si addice in maniera perfetta ai corridori da Grandi Giri quella è “Il Lombardia”, Giro di Lombardia come si chiamava un tempo. "Classica delle foglie morte" per via della stagione, banalmente, del foliage che caratterizza la sede stradale, persino - un tempo - "Mondiale d'autunno'' fino a quando proprio la rassegna iridata non ha iniziato a spostarsi più avanti, più in là, nel calendario.

Se c'è una corsa che per certi versi ha assunto meno prestigio rispetto alle altre “Monumento”, questa è, ahinoi, il Giro di Lombardia: nonostante si riveli poi sempre corsa dura, selettiva, spettacolare, temuta, amata, cerchiata in rosso, nel tempo è stata un po' snobbata (non è il caso di quest'anno); arriva a fine stagione (oggi per la prima volta pure una settimana dopo la Parigi-Roubaix) quando il gruppo ha fiato corto, gambe dimezzate, e poi quei cambi di percorso, che per qualcuno sono il tratto caratteristico, in verità fanno un po' perdere la bussola.
Se c'è una corsa che quest'anno avrà il tremendo compito di svegliarci dal sogno di una stagione ciclistica meravigliosa, segnando la fine (o quasi, perché per fortuna non è proprio finita finita, ancora qualcosina da gustarci ci sarà) del 2021, sarà il Giro di Lombardia.

Da Como a Bergamo in un un percorso diverso rispetto alle ultime stagioni quando l'arrivo sfiorava il Lago e dove Ghisallo, Sormano, Civiglio, San Fermo della Battaglia intorpidivano le gambe, smembravano il gruppo e poi lanciavano, solitari o sgranati, i corridori verso la vittoria.
Sarà meno selettivo il percorso di quest'anno? Può darsi, ma mai come nelle ultime settimane il gruppo ha mostrato la verità del più banale degli principi: sono loro a fare (dura) la corsa. E oggi ci aspettiamo una grande battaglia, visti i nomi al via.
Giro di Lombardia: da Gerbi (primo vincitore e ancora oggi il suo vantaggio di 40' resta il più grande distacco tra 1° e 2° nella corsa italiana) a Fuglsang, oltre un secolo di storia e così tanti episodi.

Scegliamo, per questioni di memoria e tempo, quella dell'anno scorso, un Ferragosto con Lomabrdia segnato da una selezione e da distacchi – per l'appunto - d'altri tempi (non come quelli dei pionieri) e da quell'immagine tremenda di una bici ferma sul muretto di un ponte lungo la discesa della Colma di Sormano. Evenepoel rischiava, e poi andava giù nel tentativo di seguire la ruota di altri scatenati. Abbiamo temuto il peggio.
Da lì ripartiamo: con il giovane belga che prova ad assorbire quell'esperienza anche se si proclama un po' stanco dopo l'impresa alla Coppa Bernocchi (sulla falsariga di van der Poel che dopo l'impresa alla Tirreno sotto la pioggia accusò la fatica alla Sanremo, oppure pretattica?); con la coppia slovena che parte in prima fila, Roglič decisamente più avanti di Pogačar, ma per ripeterci: scommettereste mai contro uno così? Noi no.

Con Alaphilippe che comunque vada la maglia iridata la porterà davanti in qualsiasi fase della corsa: afferma pure lui di non avere chissà che gambe, e magari in Quick Step hanno pronto Almeida all'ultima recita travestito da lupo prima di andare a infoltire il pacchetto corse a tappe della UAE dal 2022.
Da metà settembre in poi ha collezionato 3 vittorie, 4 secondi posti (tra cui l'Emilia) e un 3° pochi giorni fa alla Milano-Torino. In generale la costanza mostrata nel 2021 è degna di rilievo. Che sia lui il più in forma tra gli uomini di Lefevere? Unico dubbio la tenuta sulla distanza se proprio vogliamo trovare un “ma”. E poi gli Yates, più Adam che Simon che che per la verità si è visto poco di recente, Woods sempre temibile su questi percorsi, l'ultima corsa di Dan Martin, poi Gaudu che ci piace sempre, come Cosnefroy. E poi Valverde che non ha mai vinto una corsa per lui, il pacchetto di mischia Bahrain (Teuns, Mohorič), e tanti altri outsider.

L'Italia si affida a diverse generazioni di corridori: c'è il vecchio, Nibali, l'esperto, Ulissi, ci sono i medi, per età ed esperienza: Moscon, Masnada, Rota e Formolo, e infine i giovani Aleotti e Bagioli, ma quest'ultimo sarà chiamato al lavoro sporco visto tutti i capitani che si porta appresso, ma chissà.

IL PERCORSO

Da Como a Bergamo quest'anno. Come detto almeno sulla carta è meno duro del pacchetto che porta il gruppo verso il Lago con le ascese in serie di Ghisallo, Sormano, Civiglio, San Fermo. 239 km con un inizio soft, Ghisallo solo simbolico (versante abbordabile) poi è vero: quando si sale si sale (Roncola, Berbenno, Dossena e Zambla Alta in successione), ma il punto clou è atteso sull'ultima salita: Passo di Ganda, il lato oscuro del Selvino con quei 4 km finali duri duri e lo scollinamento a 32 dall'arrivo: trampolino ideale.
Prima del finale lo strappo verso Bergamo Alta, suggestivo e impegnativo per lanciare chi ne avrà verso il traguardo che sarà da lì a poco. I favoriti li abbiano nominati e li mettiamo in fila come d'abitudine qui in seguito, ma occhio che come a volte accade (al Lombardia l'ultima volta fu il 2011 con la clamorosa vittoria di Zaugg) può spuntarla una sorpresa, oppure, in caso di marcamento fra i (diversi) big al via, anche un bel gruppo di seconde linee.
A noi in tal caso, così su due piedi, ci piacerebbe, partigianamente, vedere trionfare Masnada o Rota. Ragazzi di casa - in tutti i sensi - che vanno forte in questo periodo.

I FAVORITI DI ALVENTO

⭐⭐⭐⭐⭐ Roglič
⭐⭐⭐⭐ Pogačar, Evenepoel, A.Yates
⭐⭐⭐ Alaphilippe, Almeida, Woods, Gaudu
⭐⭐ Mollema, Champoussin, G.Martin, Higuita, Valverde, S.Yates, Rota, Masnada, Teuns, Powless
⭐ Moscon, Aleotti, Grossschartner, D.Martin, Pinot, Nibali, Bagioli, Tulett, Mohorič, Sivakov, Formolo, Hirschi, Bardet, Storer, Kron, Vingegaard, N.Quintana


Forza, c'è ancora strada

A Bergamo, alla partenza, un cartello recita “rinascerai Bergamo”. Cosa significa rinascere? È possibile? Se sì, per quante volte? Per quanto tempo? Per quante cose che ci accadono? Spesso rinascere significa dare anche solo un segnale. Vorremmo che “Il Lombardia” parlasse di questo. Parlasse di un dovere che ognuno può far proprio. Il dovere di andare avanti nonostante il dolore. Non solo perché la vita ci costringe ma perché lo vogliamo. Il dovere di farlo con rispetto, con cautela, con il ricordo a portata di mano, ma di farlo. Di più. Di farlo proprio per chi non può più e avrebbe tanto voluto. È l’unico modo che ci è concesso. Anche quando tutto è così diverso e transitarci è un pugno nello stomaco. Lo è Bergamo, lo è Como. Lo sono il Colle San Gallo, il Colle Brianza, la Colma di Sormano, il Civiglio o il San Fermo della Battaglia. E tuttavia c’è strada, c’è ancora strada, anche nei luoghi in cui il dolore è stato più cupo, più soffocante. Per questo “il Lombardia”, a Ferragosto, ci fa bene: pur fuori stagione, pur così strano, così diverso. Per questo quel mazzo di fiori ha commosso Norma Gimondi, ricordandole che papà, che solo un anno fa era ancora qui, non c’è più ma ricordandole anche tutto ciò che di lui è restato.

Queste cose volevamo già dirvele stamani poi abbiamo avuto paura, lo confessiamo. Perché le parole sono un conto, i fatti un altro. E vedere la caduta di Remco Evenepoel, lungo la discesa verso il lago di Como, è un fatto che non avremmo mai voluto vedere. Diciamo tutti di voler andare avanti nonostante il dolore ma poi, quando ce lo ritroviamo addosso, non basta più nulla, non bastano le parole. Abbiamo ripreso a scrivere solo quando le voci provenienti da qualche televisore ci hanno dato la speranza che Remco fosse sveglio, vigile, cosciente. Ora siamo più convinti che mai di volervele dire queste cose, perché poi la speranza offre questa forza. Anche la speranza è una piccola rinascita. Come quando, mentre si aspetta una notizia negativa, ne arriva una positiva e le gambe sembrano cedere. Ci si siede, non avendo la forza per camminare, ma si vorrebbe correre. È come scattare. Magari quando non hai più una goccia di energia e non sai nemmeno tu chi te lo fa fare. Nella vita, talvolta, devi farlo. Evenepoel lo farà.

Come lo hanno fatto in corsa Fuglsang, Vlasov e Bennet. A ottanta chilometri orari, anche loro in discesa, rovesciando qualche borraccia nel casco per il caldo. Ciascuno consapevole che ogni singolo metro sarebbe potuto costare tutto ma che bisognava andare, perché la strada era lì e l’unico modo di renderle onore era percorrerla. Con tutti i dubbi e le paure che solo gli umani hanno e i ciclisti, per quanto si voglia dire, sono umani. Solo umani. Per fortuna, diciamo noi. Perché diversamente non avrebbe alcun senso e faremmo altro. Poi le energie sono tornate, a Fuglsang come a noi. Così ha lasciato lì Bennet proprio quando sembrava dovesse accadere il contrario. Probabilmente fingeva. O forse no. Forse non ne aveva davvero più e ha ripescato le pedalate da chissà dove. Perché c’era ancora strada. Perché c’è ancora strada.

Forza.

Foto: Il Lombardia, Facebook


Diavolo di un Gerbi (e di un Evenepoel)

Che bellezza i vent'anni. Immaginatevi ad averli durante un Giro di Lombardia e magari vincerlo come Giovanni Gerbi, il diavolo rosso. O semplicemente poterlo correre, come Remco Evenepoel, lo spauracchio dei nostri tempi. Vent'anni: e chi mai potrà ridarceli.

C'è un filo che accomuna i vent'anni di Evenepoel e quelli di Gerbi e che potrebbe essere annodato. Su quel filo scorre il primo Lombardia della storia: lo vinse proprio Gerbi. La corsa nacque per chiudere la stagione e fino a un tempo nemmeno troppo lontano era definita “la classicissima”. La prima edizione si disputò nel 1905 e sarebbe dovuta essere la resa dei conti tra i clan di Cuniolo e Albini per una lite scoppiata dopo una serie di vittorie dell'uno sull'altro: era un 12 novembre e la corsa si svolse in mezzo al freddo al fango. Alla fine la vinse Gerbi, abile a metterci lo zampino, diavolo non per caso.

E visto che si ricorre a stratagemmi cabalistici: sarà il primo Giro di Lombardia (ahinoi chiamato ora Il Lombardia – che di accattivante non sembra avere nulla) per Evenepoel, a vent'anni – tanti quanti Gerbi quella volta. Un talento fiorito in primo pelo, con quella forza straripante che per qualcuno sfocia persino in arroganza. Quando parte non ti resta che vederlo sempre più piccolo e con un distacco sempre più grande. Fossimo nel ciclismo dei pionieri ne scriveremmo la sua epopea. Fosse vissuto un secolo fa ne esalteremmo la grandezza, abbandoneremmo maldicenze e dubbi guardando solo alle sue imprese.

I due sono figli del proprio tempo: immaginatevi se oggi Remco Evenepoel sparasse a un contadino con una carabina o investisse una signora in piazza Campo del Palio ad Asti. Oppure se corresse con una bicicletta pagata trenta lire, andasse in fuga per duecento chilometri e vincesse con quaranta minuti di distacco sul secondo. Oppure immaginatevelo che si sveglia tardi dopo aver dormito in una locanda, parte insieme al suo compare con un quarto d'ora di ritardo, riprende il gruppo, stacca tutti e vince – davanti al suo compare.

Immaginatevi Remco Evenepoel fare lo scalpellino, il sarto, il garzone di bottega oppure immaginatevelo sulle strade del Tour scambiato per un suo avversario, assalito, buttato a terra e picchiato, e salvato solo grazie all'intervento di alcuni tifosi armati di pistola.

Immaginatevi Remco Evenepoel presentarsi al via con un maglione rosso; ma “chi a l’è chel diau? “ potrebbe sentirselo dire davvero oggi, se gli venisse qualche strana idea.

Immaginatevelo in corsa, proprio oggi, in mezzo a quelle strade tortuose come un accidenti, ma vuote per colpa di quel maledetto virus. Immaginatevelo all'attacco, ad accelerare la sua educazione e a strapazzare il destino degli altri.

Comunque vada sarà un bel vedere, diavolo di un Evenepoel, di Gerbi ne abbiamo soltanto letto, ora tocca a te farci divertire.

Foto: Giovanni Gerbi, Le Monsterrato


Esteban Chaves, la berraquera, Il Lombardia

A prima vista Esteban Chaves sembra un pulcino bagnato. Stambecco, è l'ultimo baluardo di una razza in via d'estinzione, un sopravvissuto al primo vagito, un veterano con cicatrici in tutto il corpo. Corre con un braccio malconcio e a causa di un grave incidente ha rischiato di perderne la mobilità.
Nella sua prima corsa in Europa, Esteban Chaves andò subito in fuga: pensava che la vita girasse come in Colombia, aguardiente e guacamole, e invece prese tanto di quel freddo e di quella pioggia da non capirci più niente. Il gruppo lo raggiunse vicino al traguardo e lo staccò; lui si fermò sul ciglio della strada e si misero di impegno per convincerlo a concludere la gara. Arrivò in lacrime e in stato di ipotermia. I genitori, sempre al suo fianco, insistettero a lungo per farlo salire nuovamente su una bicicletta.

Il padre racconta che per stargli vicino durante la sua carriera ha praticamente lasciato perdere quello che aveva creato – un'azienda che produceva mobili in legno - «per Esteban ho messo da parte le mie ambizioni». E a cosa servono i desideri di un padre se non sfociano negli occhi felici di un figlio?
Più volte, Jairo, questo il nome del padre, ha spinto affinché Esteban, valido ma meno talentuoso di molti suoi coetanei, potesse correre fuori dalla Colombia.
Forse meno talentuoso non è la parola più giusta: Chaves di qualità ne ha sempre avute, ma faticava ad esprimerle, un pulcino bagnato, si è detto, un anatroccolo a volte brutto, quasi sgraziato che col tempo si è trasformato in un colibrì.

E allora finalmente eccolo arrivare in Europa, a poco più di vent'anni conquista il Tour de l'Avenir, ma poi...
Si racconta spesso di come la sfortuna si accanisca con insistenza nei confronti di poeti, geni, artisti, ribelli... e piccoli scalatori. Al Laigueglia del 2013 Chaves va a terra, perde i sensi, si sbriciola un braccio, si fracassa quel corpicino così abile ad andare in salita da renderlo una mina vagante in ogni corsa a cui prendeva il via. Lo ricoverano d'urgenza e finisce per smarrirsi. Raccontano di come chiamasse suo padre diverse volte al giorno raccontandogli l'episodio della caduta quasi come in uno stato catatonico.

Poi la lunga riabilitazione, l'aiuto della famiglia, persino qualche bugia raccontata dai medici sul suo stato di salute. Una qualsiasi persona non avrebbe mai potuto tornare a fare una vita normale dopo quello che gli era successo, figuriamoci a correre in bicicletta.
Il ragazzo di Bogotà, invece, spinto e spronato dagli insegnamenti di una famiglia sempre al suo fianco, prende fiato, risorge piano piano, torna a far funzionare quell'arto nonostante i dubbi, nonostante avessero usato i nervi del piede per ricostruirgli il braccio.

In Colombia la chiamano berraquera e ha diversi significati. In questo caso è quel particolare modo di essere che tradurremmo con ostinato, tenace. E che cos'è un ciclista colombiano se non un duro?
Chaves, così piccolo che potresti infilarlo in una bottiglia, risale in bici con l'aiuto del padre, stavolta non è l'ipotermia, ma la paura di non riuscire a realizzare il suo sogno, andare avanti ripagando la fiducia che la famiglia poneva in lui. Tre anni dopo, è il 2016, sfiora il successo al Giro - solo Nibali, a proposito di tenacia, lo superò – e finisce sul podio della Vuelta.
Al Giro di Lombardia di quella stagione non parte come favorito, ma chilometro dopo chilometro riassapora quelle sensazioni vincenti che hanno reso quel minuscolo cuor di leone uno spauracchio in salita. Resiste agli attacchi dei migliori fino a quando è lui, sul traguardo di Bergamo, il migliore. Non ce ne voglia Diego Rosa, secondo per un'incollatura, se quel giorno abbiamo esultato con Chaves: primo colombiano della storia a vincere una Monumento. Non ce ne voglia nemmeno Rigoberto Urán, idolo di una generazione di corridori del suo paese, che deve, per l'ennesima volta, rimandare l'appuntamento con il-successo-che-ti-cambia-la-vita.
C'è una frase che riassume bene quello che è Esteban Chaves, le parole sono di Alex Edmonson, suo compagno di squadra: «Mai visto uno più in gamba di lui: anche quando pensi che si stia per spezzare, lui resta tutto intero. Non ho parole per descriverlo».

Nemmeno noi, anche se ci abbiamo provato. Lui ci riesce meglio, saltellando in bicicletta.

Foto: Aivlis