Mark Cavendish vuole sempre vincere

Per un velocista mancare l'appuntamento con la vittoria è come per un cantante trovarsi senza voce all'improvviso davanti a migliaia di persone, ed è per questo che Mark Cavendish appena può si schiarisce l'ugola e parla di successi. Perlopiù successi futuri. Perché è forte la paura della sconfitta quanto è meschino il mestiere del velocista.
La sua stagione è terminata male, decisamente peggio di com'era iniziata: alla Sei Giorni di Gent ha assaggiato il duro parquet - non che fosse la prima volta - e ha chiuso la kermesse vincendo un viaggio in ospedale; silenzio assordante per qualche istante, cheto frastuono, poi, con le frasi del suo team manager, Lefevere, che se le avesse dette qualcun altro le avremmo prese quasi come parole dolci e di conforto, ma uscite dalla bocca dal funereo team manager un po' mettevano i brividi, immaginandoci un sorrisino maligno a corredo e una sorta di risata diabolica da telefilm: «Ci sono prima altre priorità, l'ospedale non è di certo il miglior posto dove firmare un contratto. Mi piacerebbe che ci incontrassimo una volta che si sarà ripreso. Tanto ha promesso di non scappare». Lefevere: ma dove vuoi che vada Cavendish? Va bene che è veloce, ma il Belgio gli ha lasciato un timbro sullo scontrino con su scritto frattura di due costole e pneumotorace.
Negli anni Cavendish ha accumulato vittorie e sfighe, un premio alla costanza in tal senso, medaglie ai mondiali, medaglie ai Giochi Olimpici, Sanremo, tappe davvero ovunque e diagnosi sbagliate che poi era un brutto virus che non lo faceva più andare avanti; la depressione e poi quattro stagioni con due successi: 1 nel 2017, 1 nel 2018, nessuna nel 2019 e nel 2020 quando arrivarono le lacrime e l'annuncio di un ritiro imminente. Non otteneva alcun risultato, non riusciva a vincere: indispensabile per uno come lui. Incredibile che qualcuno potesse ancora credere in Cavendish. Stupefacente che lui potesse credere di averne ancora.
E la Quick Step (e il funereo) ci ha creduto e Cavendish pur di correre ha offerto di pagarsi parte del suo stipendio. E così quel "ma dove vuoi che vada" all'improvviso ce lo siamo ritrovati noi in bocca, inutile negarlo.
Poi quel giro di Turchia a smentirci: 4 vittorie (come poi saranno 4 al Tour) segnano la svolta decisiva, anche se Cavendish ci tiene a specificare di essersi accorto di stare di nuovo bene, al livello che conosceva anni prima, nella prima tappa, quella chiusa al quarto posto. Da lì la sua ballata è un crescendo che a livello mediatico ha il suo picco massimo al Tour de France, in particolare a Fourges: Cavendish tornerà alla vittoria nella corsa più importante del mondo dopo quasi 5 anni e quel ricordo lo accompagna e riesce in parte a seppellirne le amarezze. «Se chiudo gli occhi - racconta in una recente intervista - vedo il grande striscione rosso "Vittel" sul traguardo di Fourges. Si avvicina e nessuno mi sorpassa. Una sensazione incredibile».
«Immagina - sostiene poi ostinato Cavendish, alla ricerca di se stesso e della velocità perduta -, c'è un sentiero con un muro alla fine. Sto andando a tutta velocità, sperando che si apra una porta. Mi dico: quella porta o si apre, o sbatto la testa».
E quella porta è rimasta aperta da Fourges fino poche ore fa quando è arrivato l'annuncio del rinnovo (visto, caro Lefevere, che Cavendish non è scappato? anzi, ti aspettava); e a noi che vinca o perda interessa poco. A lui importa, anzi è vitale, come per ogni velocista che non perderebbe nemmeno in una volata contro un bambino.

Caro Mark, il futuro è importante

«Vorrei incontrare il me stesso del passato per dargli un consiglio. Gli suggerirei di vivere con maggiore serenità. Di prendere la vita ed anche il ciclismo con leggerezza. Non è poi così importante essere il migliore del mondo, puoi anche vincere qualche corsa in meno. Puoi, nessuno te lo impedisce. Sei tu a impedirtelo. Cerca di essere la versione migliore di te stesso. Solo quello». Lo ha detto Mark Cavendish, solo qualche anno fa, quando tante cose erano già accadute ed il futuro non era più quel tempo a cui correre incontro ad ogni costo. Anzi, il futuro, quel futuro lì, faceva paura. Anche ieri Mark Cavendish ha avuto paura del futuro, quando, dopo una giornata all'attacco, giunto al traguardo della Gand-Wevelgem con oltre sei minuti di ritardo dal vincitore Mads Pedersen, ha dichiarato piangendo: «Potrei aver corso l'ultima gara della mia carriera». E chi avrebbe mai immaginato qualcosa di simile da Mark Cavendish? Mark Cavendish abbiamo imparato a conoscerlo in altro modo, con quel fare a tratti "arrogante", ma chi vince può permetterselo perché Cav è stato davvero il migliore velocista al mondo per alcuni anni, con quella sicurezza inscalfibile che anche di fronte alle sconfitte gli consentiva di affermare di non aver sbagliato niente e che, in fondo, gli avversari erano stati fortunati, con quelle esultanze scenografiche condite da parole al vetriolo indirizzate a chiunque avesse dubitato del suo talento o delle sue capacità. Sì, Mark Cavendish è cambiato e non ne ha fatto mistero. Si è messo a disposizione degli altri, suscitando l'ilarità degli sciocchi o degli offesi: «Non mi interessa nulla di tutta quella merda che riversate sulle pagine dei vostri giornali o sui social. So bene cosa significhi fare il gregario, cosa credete? Quando Wiggins ha vinto il Tour, tiravo in salita. Ma di cosa parlate?».

Alcuni offesi, specie quelli che hanno un potere, un potere di penna in questo caso, sono come i virus, direbbe Cavendish che con l'Epstein-Barr ha combattuto e combatte, o come il futuro, diciamo noi. Non ti sfiorano nemmeno fino a quando sei all'apice ma appena crolli ti mordono con tutti i denti che hanno. Cavendish da uomo imbattibile, in un batter d'occhio, si è ritrovato uomo solo: «Nessuno mi credeva, nemmeno gli amici. Pensavano tutti fossi scomparso perché non volevo più correre, perché non volevo più combattere. La gente voleva il vecchio Cavendish, voleva che il ragazzo di oggi sfidasse il virus e lo controllasse per restituire il ragazzo di ieri. La realtà è che combattere con un virus è molto difficile. Non puoi prevederlo, ti può annientare. Se nemmeno chi hai accanto ti crede, come puoi pensare di farcela?». Cavendish è cambiato quando ha dovuto affrontare la sofferenza e l'incomprensione. Quando guardando avanti non ha più visto vittorie e successi ma ansietà e paure. Puoi evitare di guardare, ma sai che stai andando in quella direzione e negli occhi hai l'orrore: inizi a non riconoscerti più, inizi a sentirti debole, e non solo di volate si parla, inizi a riconoscere che hai bisogno di tutti. Che da solo proprio non vai: «Ammiro molto mia moglie. Se i nostri bambini sono cresciuti come stanno crescendo lo devo a lei, è una mamma eccezionale. Bada a loro, non facendogli mancare nulla e poi bada anche a me. Ho più di trent'anni, è vero, ma sono ancora un bambino».

Anche questo non lo avremmo mai detto perché Cavendish sembrava così distante da tutto quello a cui ora è così vicino. Ora ha imparato a ricredersi, per esempio, e ad ammetterlo: «Quando sono arrivato in Bahrain e ho incontrato Roger Hammond, il direttore sportivo, ho subito pensato che da lui non avrei avuto mai niente da imparare. Non riuscivo a capire cosa avrebbe potuto insegnarmi. Evidentemente non avevo capito nulla: da Roger Hammond ho imparato tanto come da Rod Ellingworth. Il loro "esserci" mi ha salvato molte volte». Mark Cavendish, in realtà, ha imparato anche tante altre cose che sicuramente lo hanno reso un uomo e un padre migliore. Un padre di cui i figli possano dirsi fieri. Un padre che sa che, talvolta, nella vita è necessario mollare la presa se non si vuole essere travolti. C'è ancora una gara a cui Cavendish risulta iscritto, la Scheldeprijs di mercoledì. Chissà se la correrà. In molti se lo augurano. Qualcuno, ieri sera, ci ha detto: «Se smette anche Cav, avranno smesso quasi tutti gli atleti di quando ero bambina. Fa tristezza». Sì, certe volte crescere e guardare avanti fa tristezza ma abbiamo il dovere di farlo, riscoprendo una semplice verità, sepolta in mezzo a qualche chiacchiera della società. Il futuro non è solo roba per sognatori, per poeti e navigatori. Il futuro non è solo lo scenario prediletto delle avventure dei bambini, non è qualcosa di minore da lasciare alle storie e alle favole. Loro lo hanno già capito, ora dovremmo capirlo anche noi. Il futuro è importante.

Foto: Marco Trovati/Pentaphoto