Sempre la stessa: intervista a Marta Cavalli

La sera della Freccia Vallone, dopo la sveglia alle cinque e mezza del mattino, la gara e la vittoria, a mezzanotte Marta Cavalli non riusciva ancora a prendere sonno. In quel momento, nel letto, si è detta diverse cose che forse avrebbe voluto dirsi da tempo senza mai trovare il tempo. Una soprattutto: «Sei fortunata, Marta».
C'è molto dietro quella frase e per questo da quella frase siamo partiti. Un giorno ne parleremo anche con Brodie Chapman, ad esempio. Perché anche di Brodie parla Marta. «Avete visto quanto ha lavorato per me? Per chi vince è più facile, le energie, quando vinci, ti tornano chissà da dove, lei ha solo faticato tutto il giorno. Dove ha trovato la forza per scavalcare quelle transenne e venire ad abbracciarmi alle interviste? Per essere così felice per me, perché Brodie era più contenta di quanto lo fossi io». Marta Cavalli che in squadra vuole essere semplicemente una ragazza fra le altre perché «abbiamo solo un ruolo diverso, io concretizzo e loro mi accompagnano a quel momento. Siamo trattate tutte allo stesso modo, perché a livello personale non c'è e non deve esserci differenza».
Così è capitana, così è leader. Qualcosa che le hanno riconosciuto le compagne, forse anche per merito di quel carattere timido che la porta a restare semplice e a evitare l'inganno più grande: scaricare le colpe sugli altri. «Io ho visto come hanno lavorato le mie compagne e sono certa che non si lavora così solo per una capitana, non si lavora così solo per lo stipendio. Si lavora così per le persone in cui credi».
Pensare che prima dell'Amstel si sentiva la gamba un poco imballata, solo pochi giorni prima al Fiandre era quasi rimasta male per non essere riuscita a fare la gara che aveva pensato. Quella sera al telefono col padre aveva detto: «Pensa a chi vincerà e si prenderà quel boccale da dieci litri, come si fa a bere così tanta birra?». E lui: «Se la vinci, qualcuno la berrà, non preoccuparti». Per chi crede nei segnali, un segnale. Come quella cuffia per il freddo indossata al contrario alla partenza e le parole al suo direttore sportivo: «La giro. Pensa, magari vinco solo una gara in carriera e pure con lo sponsor al contrario. Che figura!». Anche ironica perché, poi, la timidezza è anche ironia.
In squadra l'avevano capita a tal punto che, quando ai cinquanta chilometri dal traguardo, aveva detto di non stare bene, l'avevano subito tranquillizzata: «È un fatto mentale. Stai calma e fai il tuo». Poi l'istinto, quello di partire nel tratto di cui spesso aveva parlato con il direttore sportivo, come chi non ha nulla da perdere, perché «non c'è stata programmazione, solo sensazioni». E quella radio che, a un certo punto, grida: «Mi dicono "è il tuo momento" e io vado, so che tocca a me. Questa è la squadra». Ai trecento metri aveva capito che avrebbe vinto e quei metri sono stati "un appagamento totale, una goduria".
Qualcosa di simile a queste mattinate, quando, appena sveglia, cammina per le camere con un piacere che non ha mai provato. Poi apre i social e vede tutti i messaggi che le persone le scrivono, la loro vicinanza. «C'è una distinzione da fare: c'è chi ti scrive perché ti ha visto in televisione e chi, invece, perché ti ha conosciuto e si ricorda ancora di te, ti ha sempre scritto anche se non stavi vincendo. Il secondo è un piacere particolare, una parte del senso del fare questa vita».
La vita del ciclista: «Ho imparato a non dire che è un lavoro difficile perché so che non ci sono lavori facili, ma, di certo, è un lavoro che chiede tanto. Ho il telefono sempre scarico perché sto rispondendo a tutti coloro che mi cercano. Non mi interessa essere una vincente se questo mi cambia e non mi fa più rispondere a chi mi cerca, se mi allontana dalle persone che mi hanno cresciuto. Voglio restare quella che sono». Quella che avrà già rivisto quindici volte gli ultimi metri della Freccia Vallone, rimanendo stupita da quello che ha fatto, dalla lucidità, da quel sorpasso ai danni di Annemiek van Vleuten. L'olandese l'ha cercata dopo l'arrivo: «Quando ti ho visto distante qualche metro, ho pensato che avrei potuto batterti, non ci sono riuscita. Sei stata brava». È stata brava davvero e questa volta Marta se lo dice anche da sola: «Non era facile sapere l’attimo in cui partire. La fatica non ti fa capire più nulla, tutti i rumori che hai attorno quasi ti impediscono di ragionare. In quell’istante non ho sentito più nulla. Ero sola, col mio momento».
Le è successo anche di leggere un post che suo padre le ha dedicato: «Papà ha tanti sentimenti, è un uomo molto sensibile, ma li trattiene, non li mostra davanti a tutti. Il fatto che abbia scelto di farlo ha un valore particolare per me». Dopo mesi fuori casa, poi, quelle parole hanno significato ancora di più. E Marta pensa a quando tornerà a casa, a quando lascerà la valigia da un lato e spegnerà il telefono: «In quei locali ci siamo solo noi quattro. Noi che prepariamo il pranzo o la cena, che stiamo sul divano o che usciamo a mangiare una pizza e siamo gli stessi di sempre, qualunque cosa accada».


Forza sapiente sul Mur de Huy

Una decina di giorni fa all'Amstel Gold Race, Marta Cavalli decideva di cogliere alla lettera il significato di "prendere l'attimo giusto" trasformandolo in una vittoria. Oggi, sulla strade della Freccia Vallone, più precisamente sul Mur de Huy, la storia si è ripetuta in una forma leggermente diversa, ma con un risultato simile.
Tatticamente perfetta, Marta Cavalli ha scrutato i movimenti delle altre, banalmente ha battezzato l'unica ruota che sapeva sarebbe andata via, o che almeno ci avrebbe provato, quella di Annemiek van Vleuten.
A qualche centina di metri dall'arrivo, nel tratto più duro, l'olandese faceva la differenza o almeno così pareva a un occhio disattento, mentre l'italiana, il suo un occhio attento, all'apparenza calma e con un filo di gas, si adagiava quatta quatta alla sua ruota. Quando la strana spianava e partiva la decisiva volata a due, Marta Cavalli sprigionava quella che in questo momento è la miglior gamma a due ruote. In fatto di testa e gambe.
Ci vuole testa, appunto, ma ci vogliono le gambe: oggi Marta Cavalli mette insieme un binomio che - ciclisticamente parlando - quando la strada sale rasenta la perfezione.
Non svegliateci da questo momento. Quello in cui il ciclismo femminile italiano sta dominando il ciclismo femminile mondiale.


Riscrivere l'attimo

Mancavano, secondo il GPS, esattamente 1750 metri al traguardo quando Marta Cavalli ha deciso di riscrivere il significato dell'attimo. Passo indietro: che cos'è l'attimo? Si dice sia la durata tra lo scatto del verde al semaforo e il tizio dietro spazientito che suona il clacson.
Per Marta Cavalli, superato il Cauberg a ruota di sei compagne di viaggio sgranate dopo il forcing di Annemiek van Vleuten, l'attimo era quello da cogliere mentre il suo direttore sportivo dall'ammiraglia la esortava a spingere: «Vai Marta, è arrivato il momento! Parti ora: o tutto o niente!»

È scattato il semaforo verde, le altre si sono guardate, l'acido lattico poteva essere per un attimo dimenticato. È partita mentre van Vleuten, Lippert, Vollering, Niewiadoma, Garcia e Moolman-Pasio rimanevano sbigottite a guardare, vittime del tempismo altrui, dei giochi di squadra, del marcamento, delle rivalità. Di quel profondo solco che viene scavato tra tempo e spazio in una gara di ciclismo, quando al traguardo manca poco, pochissimo, ma la tua testa elabora così tanti dati da non riuscire più ad avere il senso della misura.
È partita, Marta Cavalli, e ha riscritto il significato dell'attimo. Aveva solo quel modo per vincere: resistere in una corsa matta, frenetica, restare agganciata sull'ultimo Cauberg e poi lanciarsi da dietro, approfittando del rallentamento, come se nel frattempo avesse tenuto il segno con un dito nel libro che parla dell'arte del perfetto finisseur.
Ha vinto così Marta Cavalli, l'Amstel Gold Race, riscrivendo l'attimo, da perfetta finissuer, ricordando dopo il traguardo quando l'anno scorso aveva sofferto il freddo: «Per questo ho pensato quest'anno di coprirmi meglio e restare più calda». Sorride, e racconta semplicemente così, e facendo come ogni ciclista della domenica sogna di fare dopo un bel giro in bici. Abbracciare un gigantesco bicchiere di birra e farsi un bel sorso. Sul palco.


La nebbia si è dissolta: intervista a Marta Cavalli

Qualcosa attorno a Marta Cavalli è cambiato, ma prima di tutto è cambiata Marta Cavalli. «Non molto tempo fa, ho sentito papà e mamma dire: “Guarda Marta, come è cresciuta!”. Loro mi hanno sempre appoggiato in quello che volevo fare, ora però c’è qualcosa di diverso. Ora mi hanno lasciata libera, mi guardano da lontano e sono fieri del mio lavoro perché “Marta è grande e si gestisce da sola, sceglie da sola”. La chiave è stata il mio passaggio alla Fdj – Nouvelle Aquitaine – Futuroscope: è come se, dal mio arrivo qui, avessero capito che ce l’ho fatta».

Marta Cavalli è orgogliosa, perché, come ci racconta, questo è il momento in cui i figli sono più felici. E pensare che questo cambiamento di squadra è nato per caso, da una battuta, perché Cavalli non è mai stata una ragazza dai cambi repentini, dall’istinto feroce, quando Marta doveva scegliere c’era sempre la voce della coscienza che le diceva di aspettare, che ci sarebbe stato tempo, che negli undici anni in Valcar era cresciuta molto e non c’era motivo di rivoluzionare tutto. «Io vivo a Cremona e qui la nebbia è di casa. Mi piace dire che è come se ad un tratto fossi uscita da un banco di nebbia e mi fossi resa conto che era il momento di provare. Sai, io ero una di quelle ragazze che, per timidezza, non parlava nemmeno con le compagne, il ciclismo mi ha aiutato a sciogliere questa difficoltà perché mi ha scaraventato in alcune situazioni e lì devi cavartela da sola. Credo sia stata anche questa crescita a darmi il coraggio di lasciare la porta aperta ad altre strade. L’incredibile è che come ho accettato di mettermi in discussione, ho visto quante opportunità c’erano, quante squadre mi cercavano».

A fine estate Marta Cavalli parla con il Team manager della Fdj. «Fino a quel momento avevo trovato tante squadre che mi elencavano traguardi da raggiungere. In Fdj non mi hanno parlato solo di un obiettivo mi hanno indicato una strada da percorrere e da raggiungere, nel lungo termine, a fine 2022. La differenza è profonda: nelle squadre in cui si parla solo di gare da vincere o di piazzamenti da conseguire, tu sei trattata come una regina sino a che le cose vanno bene, come sbagli, come perdi qualche colpo, corrono a fartelo presente, a dirti che loro ti pagano per fare risultati e non c’è tempo, quei risultati devi farli subito. Tu sei già in crisi perché non stai bene, discorsi di questo tipo ti gettano nell’ansia e nello sconforto. Dove, invece, c’è un percorso, c’è serenità, perché non sei sottoposta a un continuo banco di prova: sai che devi lavorare duro, ma c’è tutto il tempo per farlo. Le persone intorno a te non cambiano atteggiamento nei tuoi confronti se sbagli, perché vogliono accompagnarti e l’errore è parte del processo di crescita».

Per crescere e sopportare gli errori bisogna affrontarli nel modo corretto, a questo servono le tante riunioni con i direttori sportivi del team: «Ci hanno subito detto che a loro non interessa di chi è l’errore. L’importante non è chi sbaglia, l’importante è l’atteggiamento da cambiare. Così, nelle riunioni, non si fa nemmeno un nome. Si parla di scelte, di strategie, anche di errori, ma non di persone da mettere alla berlina perché protagoniste di quegli errori».

Ogni tanto, durante queste riunioni, l’attenzione delle ragazze è disturbata da Cecilie Uttrup Ludwig. «Cecilie chiacchiera continuamente, è l’opposto della studentessa modello. La riprendono e lei scoppia a ridere, poi ridiamo tutte e la riunione si ferma. È esattamente come la vedete, con tutte le sue facce buffe. Ogni tanto sbaglio qualche verbo in inglese e mi guarda stranita, ma mi fa morire dal ridere. Può esserci vento forte, acqua, freddo, lei è felice e ci dice: “Pensate che goduria la doccia calda dopo”. Che maschera!». Marta Cavalli racconta che, forse, questo è l’atteggiamento tipico delle ragazze nordiche. «Hanno una particolare delicatezza nel vivere questo lavoro. Al termine di un allenamento, Emilia Fahlin ci ha prese da parte: “Ragazze, ora devo dirvi una cosa. Però dovete sapere che non c’è nulla di male, che non è un rimprovero, voglio parlarvi perché se parliamo va tutto meglio e siamo tutte più serene”. Capisci il tatto? Per un carattere come il mio è fondamentale».

Quando parla di queste attenzioni, Cavalli si illumina, come quando parla di sua sorella minore, Irene. «Lei è l’opposto di me e forse per questo andiamo così d’accordo. Solo fino a qualche anno fa, ero io che le riservavo le migliori attenzioni. Un mese fa, siamo state assieme a Sanremo, io uscivo al mattino per l’allenamento e lei stava in casa a sistemare tutto. Mi faceva trovare la pasta pronta, mi comprava ogni cosa di cui avessi bisogno, mi coccolava. Non è scontato. Può capitare di pensare che chi fa ciclismo pedali solo, di non rendersi conto dei sacrifici che impone questo lavoro. Se lo pensano gli estranei, te ne fai una ragione, ma se lo pensa qualcuno di casa ci stai davvero male. In quei giorni, ho visto che anche la mia “piccola sorellina” è diventata grande e ha capito tutto quello che le raccontavo quando mamma mi chiedeva di farle fare merenda e di proteggerla. Irene è il mio orgoglio».

Cavalli non ha dubbi sull’atleta che è e che vuole essere: «Sono una ciclista da classiche, da gare dure, con pavè e sterrato. Ora sono molto magra, molto esile, vorrei costruirmi una corporatura più possente, come Marianne Vos, Chantal Blaak e van der Breggen. Nel ciclismo di oggi è quello il fisico che ci vuole. Più in generale vorrei essere un modello per le ragazze più giovani. A me dicevano sempre: «Elisa Longo Borghini è nel posto giusto, Tu guardala e segui la sua ruota». Ecco, vorrei che, fra qualche anno, un direttore sportivo dicesse questo di me».

Foto: Thomas Maheux – per gentile concessione di Marta Cavalli


Farsi ricordare

La telefonata con Marta Cavalli era in corso da circa mezz’ora. La linea telefonica, nelle gallerie attraversate dal treno che la riportava a casa da Napoli, veniva spesso interrotta. Così le parole si inseguivano fra pause e ripetizioni. Ho atteso qualche minuto, giusto il tempo di arrivare alla prima fermata e come ho intuito che, almeno per qualche istante, la linea sarebbe stata buona le ho chiesto quello che meditavo da qualche giorno: «Marta cosa significa per te farsi ricordare? Come fai a farti ricordare?». Proprio così.

Per come la intendiamo noi, la preparazione di un’intervista è un insieme di atti estremamente delicati, in certi momenti anche invasivi. Cerchi notizie sulla vita dell’intervistato, ovunque. Passi in rassegna vecchi articoli di giornale, social, dichiarazioni rilasciate alla televisione. Vai a letto la sera con la cuffia nelle orecchie mentre risenti cronache di vecchie tappe o frammenti di dialoghi intercettati dai microfoni. Magari ti addormenti anche con quelle voci in sottofondo. Ti svegli la mattina e, al tavolo della colazione, cerchi foto, immagini, video di corsa in cui osservare ogni minimo dettaglio. Dal modo di pedalare allo sguardo. Dalla mimica dopo una vittoria alla delusione e agli occhi lucidi dopo una sconfitta. Insomma, entri nella vita di un’altra persona che, magari, non ti conosce nemmeno. Lo fai perché tu vuoi conoscerla, tu hai bisogno come il pane di conoscerla. Per l’intervista, certo. Ma non solo. Hai bisogno di conoscerla perché non c’è nulla di più brutto che spegnere il registratore dopo una chiacchierata e sentire che non ti è rimasto nulla. Sentire che in te non è cambiato nulla. Che è come se fossi stato davanti al computer o ad un muro. Tu eri con un’altra persona, tu hai raccontato e ti sei fatto raccontare, qualche modifica in te deve essere avvenuta. Devi avere sentito qualcosa, altrimenti che senso ha?

Così mi sono ricordato di quella didascalia ad una foto che Marta Cavalli aveva dedicato al ricordo. Ho pensato che sarebbe stato bizzarro chiedere ad una ciclista qualcosa di simile. Poi ho anche pensato che forse proprio per questo sarebbe stato interessante. Perché nessuno lo chiede ma, forse, in tanti se lo chiedono. Si chiedono chi sono queste ragazze una volta scese dalla sella. Ed è bello così, è giusto così. Marta ci ha pensato qualche secondo, dubbiosa, sicuramente stupita. Poi ha iniziato a parlare.

«Credo che per una ragazza con il mio carattere sia molto più difficile farsi ricordare. Lo sai, no? La società oggi tende molto a ricordarsi dei gesti appariscenti, delle battute ironiche, degli estroversi. Più volte mi sono chiesta quale sia il posto degli introversi nei ricordi. Sì, perché anche noi abbiamo un mondo dentro di cui vorremmo gli altri si ricordassero. Io vorrei essere ricordata, eccome se vorrei. So che dovrò fare molta più fatica perché non parlo molto, per i miei silenzi, perché sono timida. Ma so anche che questa fatica intendo farla tutta. Se sei come me devi dare ancora di più, devi fare ancora di più, devi essere ancora più precisa e meticolosa per essere ricordata. Ce la farai. Facendo così ci riuscirai. Vorrei che si ricordassero di Marta come di una ragazza che fa tutto quello che può al meglio, come di una professionista seria, come di una ciclista che ama il suo lavoro. Lo vorrei tanto e credo succederà».
È passato un anno, forse poco meno. Eppure, quando si parla di ricordi, a noi torna in mente quella telefonata. Ci sarà un motivo, non credete?

Foto: Bettini