Il monumentale de La Vuelta 2022
In principio era Il Monumentale, per l'edizione numero 77 della Vuelta che partirà fra poche ore da Utrecht sarà “El Monumental”, concedeteci la licenza. La Vuelta, ovvero la più giovane delle tre grandi corse a tappe del calendario e che da diverso tempo chiude l'annata dei Grandi Giri; la Vuelta, quella che spesso diventa rifugio per delusi della stagione, per chi prova difficili o improbabili doppiette o triplette, oppure utile per mettere vicino chilometri per il finale di stagione e che spesso significa mondiale su strada o varie corse di un giorno. Nessuno la snobba sia chiaro, anche se forse qualcuno la usa come palestra. Di sicuro spesso è corsa incerta e allo stesso tempo spettacolare, scoppiettante.
La Vuelta 2022, però, significa anche – a scriverlo viene il magone – l'ultimo ballo per Nibali e Valverde che dal 2023 non saranno più in gruppo, e per chi è cresciuto e ora sta invecchiando con loro fa un certo effetto. Entrambi alla vigilia della corsa hanno usato parole simili: «Aiutare la squadra, vincere una tappa, ma soprattutto divertirsi».
IL RIBALTONE
Il Giro d'Italia e poi il Tour de France di quest'anno hanno visto i pronostici ribaltati: sulle strade italiane, con partenza dall'Ungheria, il favorito era Carapaz che arrivò a tre chilometri dalla vittoria finale - eravamo sul Fedaia. Ha vinto Hindley e più di qualcuno, chi scrive questo pezzo compreso, è rimasto sorpreso. Al Tour c'era un solo favorito d'obbligo, inutile girarci attorno, ma fa già parte della storia la sua crisi sul Granon, gli errori tattici sul Galibier, la condotta della Jumbo-Visma che lo mise nel sacco, e così Vingegaard ha superato Pogačar e ha portato in Danimarca - da dove si partiva - il successo finale.
Anche alla Vuelta il favorito d'obbligo potrà essere superato e battuto da qualcun altro? Si, potrebbe andare così... non fosse che in Spagna, come vedremo, non ci sarà un favorito d'obbligo.
Ci sarà Roglič, però, sciolte le riserve all'ultimo momento, che proverà a raggiungere Heras, recordman di vittorie, a quota 4 successi finali. Avrà recuperato la condizione dopo l'infortunio al Tour? Vedremo, non crediamo abbia ritardato nel confermare la sua presenza in Spagna (in Olanda, per essere precisi) per fare pre tattica, al Tour si è fatto male davvero e lo stato di forma sarà un'incognita. Potrebbe mancargli il ritmo gara, potrebbe partire forte e poi finire piano o viceversa, quel che è certo è che la sua stagione è stata a inseguire il miglior colpo di pedale - al netto dei successi alla Parigi-Nizza e al Delfinato, frutto della sua classe e di un grande lavoro di squadra, più che di una brillantezza di condizione. Insomma, tra tanti punti di domanda sopra la testa di quasi tutti i favoriti al via, il più grosso campeggia sulla testa dello sloveno.
A proposito di sloveni, non ci sarà Pogačar che qui ha corso nel 2020 il suo primo Grande Giro conquistando il suo primo grande podio; a proposito di Tour: non ci sarà Vingegaard e non ci sarà Bernal nonostante si vociferasse diversamente qualche settimana fa.
E allora dunque andiamo a vedere quali saranno i nomi dei principali pretendenti alla maglia rossa finale (La Roja) in una corsa che, come successo al Giro (partito dall'Ungheria) e al Tour (partito dalla Danimarca), vedrà il via fuori dai propri confini: per la precisione da Utrecht, Olanda, che a suo modo fa registrare un primato importante: è il primo paese al mondo a ospitare la partenza di tutti e tre i Grandi Giri, accadde con il Tour nel 2015 e con il Giro nel 2017.
I SETTE NOMI DA SEGUIRE PER LA ROJA
Stavolta la mettiamo giù diversamente, perché analizzando la lista di partenti appare difficile trovare un corridore favorito rispetto agli altri. Oltretutto siamo a fine stagione e, tra energie residue e motivazioni differenti rispetto ad altri momenti della stagione, le corse viaggiano sempre su una linea di incertezza: molti uomini cambieranno casacca da qui a pochi mesi, altri arrivano da problemi di natura fisica varia, altri da alti e bassi, altri ancora li aspetti e poi non arrivano e poi ci sono anche quelli che già hanno messo le mani avanti sulle proprie condizioni e non sai mai se fidarti delle loro parole.
Ecco dunque i favoriti o presunti tali, rigorosamente in ordine alfabetico.
ALMEIDA JOÃO
Il portoghese, dopo il ritiro al Giro quando era in piena lotta per il podio, arriva in Spagna - pardon in Olanda - con i galloni del capitano della sua squadra. Conosciamo tutti le caratteristiche del lusitano, corridore mai domo se ce n'è uno, da capire quanto il percorso spagnolo sia disegnato per la sua resistenza senza un domani in salita, la sua capacità a cronometro, il suo spunto veloce. Si farà fatica e tanta nelle tre settimane di una Vuelta dal disegno un po' così, ma il podio per lui, all'esordio nel Grand Tour spagnolo, è un obiettivo. Da capire quanto il Covid preso al Giro abbia inciso sulla sua preparazione: alla vigilia una frase che non dà troppe speranze ai suoi tifosi: «Non so cosa aspettarmi da questa Vuelta, le gambe non girano come vorrei».
CARAPAZ RICHARD
Lui che sul podio in Spagna (e anche in Francia) c'è già stato, era il 2020, Vuelta novembrina e Carapaz finì per mettere in grosse difficoltà Roglič; lui che ha vinto un Giro e che quest'anno senza mai brillare eccessivamente - pur vestendo la maglia rosa fino al traguardo della penultima tappa – ha rischiato di rivincerne un altro; lui che sarà alle ultime pedalate in maglia INEOS prima di accasarsi altrove (pare in EF ma ancora non arriva la conferma ufficiale), a cosa potrà ambire? In condizioni normali diremmo: “come minimo alla vittoria finale”, ma il Carapaz 2022 lascia diversi dubbi, anche se la sua squadra in mezzo ai tanti galli al via lo ha investito ufficialmente del ruolo di capitano.
HINDLEY JAI
Cerca una clamorosa doppietta Giro-Vuelta prima di tuffarsi nel 2023 alla grande sfida del Tour. Ha una squadra forte, fortissima, la più completa in corsa con la quale potrà difendersi da subito nella cronosquadre di apertura, e lui ha dimostrato di essere uno degli scalatori più continui del gruppo cosa che non guasta in una Vuelta particolarmente ricca di difficoltà altimetriche. Le spalle poi sono alleggerite dopo la maglia rosa vestita a Verona e quando la strada sale il rapporto peso potenza risulta sempre fondamentale. Staccarlo sulle pendenze più dure? Un'impresa per tutti. Dite che forse sotto sotto un favorito assoluto lo abbiamo trovato?
MAS ENRIC
Si porta addosso un macigno composto da una nazione intera che, in attesa dei due prodigi Juan Ayuso e Carlos Rodriguez, sogna di rivincere la Vuelta a otto anni dall'ultimo successo (Contador nel 2014); un macigno composto dalle difficoltà della Movistar che rischia il posto nel World Tour se non dovesse cambiare marcia nelle tre settimane in terra spagnola; un macigno che è la convivenza con Valverde all'ultima Vuelta della sua carriera: e se dovesse chiedere spazio L'Embatido? Un macigno che si è creato lui, corridore che in salita non ha nulla e nessuno da temere, ma a cui spesso sembra mancare qualcosa, non tanto dal punto di vista fisico, quanto mentale. Sarà la Vuelta della sua svolta?
O'CONNOR BEN
Occhio all'australiano che, dopo il ritiro dal Tour, un po' come accadrà per Roglič, deve consumare quelle energie che parevano pronte da sfogare in terra francese. Un avvio in Francia che peggio non si poteva dopo la caduta nelle prime tappe, ma O'Connor ha provato, ha stretto i denti, poi ha pensato sarebbe stato meglio farsi da parte. Ma ehi! C'è un altro Grande Giro da correre e la Vuelta zeppa di montagne potrebbe sorridergli. Vediamo che tipo di corsa ci sarà, lui che predilige un andamento senza padroni che potrebbe permettergli di cogliere la palla al volo e provare a vincere dando spettacolo e attaccando, anche da lontano. L'obiettivo minimo resta comunque almeno una tappa di montagna, il podio, ha detto alla vigilia, «Un sogno».
ROGLIČ PRIMOŽ
In un mondo fatto di numeri e bit lo sloveno partirebbe favorito assoluto; in un mondo fatto solo di carta e penna il suo nome lo scriveremmo a caratteri cubitali al primo posto, ma in un mondo nel quale la sua presenza è stata in dubbio fino all'ultimo, Primoz Roglič non partirà come favorito a caccia della quarta consecutiva e anzi, lo ammettiamo, è stato inserito in questa lista più per il fatto di essere il tre volte campione uscente che per reali sensazioni a proposito della sua forma. Oltretutto una Vuelta così impegnativa - sulla carta è perfetta per lui - rischia di metterlo subito in difficoltà al ritorno in Spagna, per la precisione nei Paesi Baschi, quando si arriverà dopo il primo giorno di riposo. I maligni, di cui è pieno il mondo, dicono sia stato inserito per dovere di sponsor, vista la partenza dall'Olanda, patria Jumbo. Altri, sempre con la lingua tagliente sostengono che si sia preparato a puntino per questa corsa... a qualcuno ricorda il Contador del 2014 che arrivò dopo il ritiro al Tour e poi vinse. Noi non ci sbilanciamo e ci infiliamo in mezzo alle due correnti di pensiero. Il cronometro alla fine ci darà tutte le risposte che cerchiamo.
YATES SIMON
L'autore di questo articolo non lo nasconde, ma ha un certo debole per Simon Yates. Corridore che alterna un'esasperante concretezza nelle giornate buone a momenti di buio anche quando meno te lo aspetti e che fanno venire il panico e i nervi. Vincente e perdente nell'arco di pochi giorni: da qui il fascino che emana. Dopo le due vittorie di tappa al Giro – e il ritiro – Yates è rientrato di recente infiammando le strade spagnole dominando Villafranca de Ordizia e Castilla y Leon: ci pare un buon biglietto da visita per colui che resta l'ultimo vincitore di questa corsa prima dell'era Roglič. Anche a lui il percorso gli si addice perfettamente a patto di salvarsi nella crono di 30 km con arrivo ad Alicante, tappa numero 10, a patto di mantenere fede alle sue parole: «Vado alla Vuelta per vincere».
OUTSIDER
Diverse – tantissime - le alternative presenti al via, tra quei corridori che potrebbero rappresentare uno spauracchio per l'alta classifica – pure per podio o vittoria - o puntare a un piazzamento nei 10 o magari, vista la situazione che si potrebbe venire a creare, semplicemente essere protagonisti quando la strada sale e si fa selezione.
Ecco un nome su tutti, colui che almeno per questa Vuelta rappresenta l'outsider per antonomasia: Remco Evenepoel. Si testerà nel suo secondo Grande Giro della carriera per capire cosa potrà diventare, ma intanto ce lo godiamo come vincitore di corse di un giorno di un certo peso con il suo marchio di fabbrica: via in progressione su salite non troppo lunghe sviluppando una potenza alla quale è difficile resistere. Cosa potrà fare in questa Vuelta in classifica non lo sappiamo, ma qualche tappa è alla sua portata. La squadra gli affiancherà Fausto Masnada che potrebbe dare più garanzie per la classifica e il giovane Ilan Van Wilder, coetaneo e rivale tra gli junior di Evenepoel e per certe caratteristiche una sorta di versione meno potente – ma con tanto talento lo stesso – proprio del fenomenale belga.
In casa DSM molto interessante la presenza di Thymen Arensman che dopo aver lavorato per Bardet – poi costretto al ritiro – al Giro, per la prima volta nella sua giovanissima carriera proverà a sobbarcarsi l'impegno di essere uomo di classifica in una corsa così dura, lui che ha già detto: «Ho imparato tanto da Bardet, ora è il momento di mettere a frutto i suoi insegnamenti», lui che lo ricordiamo chiudere il Tour de l'Avenir del 2018 alle spalle di Pogačar e davanti a Mäder, Vlasov, Champoussin e Almeida, tutti corridori più grandi di lui di età. A fine stagione lascerà la squadra olandese per volare verso la INEOS. In DSM fa il suo esordio in un Grand Tour anche Henri Vandenabeele, classe 2000 e due volte sul podio al Giro d'Italia Under 23, per lui il compito di fare esperienza, così come per il giovanissimo Marco Brenner, tedesco classe 2002 (secondo più giovane al via) ex ragazzo prodigio e passato direttamente professionista dalla categoria juniores a quella dei professionisti lo scorso anno.
C'è un terzetto anche per l'Astana e che terzetto: Vincenzo Nibali, Miguel Ángel López, Andrej Lutsenko. Sarà l'ultima grande corsa a tappe per Nibali, sarà l'ennesima volta in cui aspettiamo Lopez al riscatto, sarà un palcoscenico importante per il regolare Lutsenko il quale, dopo aver ottenuto due top ten al Tour nelle ultime due stagioni, sulle strade spagnole potrebbe più semplicemente andare a caccia di tappe. Con loro da seguire anche David de la Cruz corridore che in passato più di una volta ha avuto importanti velleità di classifica proprio alla Vuelta chiusa per ben tre volte al 7° posto finale (2016, 2020 e 2021).
Vi sentite ispirati nel provare a scommettere – simbolicamente si capisce – su un nome di seconda fascia? Ecco Juan Pedro López, per tutti Juanpe. Lo abbiamo imparato a conoscere e ad apprezzare al Giro d'Italia, diversi giorni in maglia rosa e 10° posto finale, ma già 13° in classifica alla Vuelta nel 2021. Difficile possa andare a disturbare chi lotterà per la Roja finale, ma il suo storico ci racconta di un corridore regolare, ma in costante crescita sin dagli Under 23.
Jesus Herrada sarà l'uomo deputato a portare punti in casa Cofidis (non dimentichiamo l'importanza della Vuelta per alcune squadre in lotta per non uscire dal World Tour e la Cofidis è tra quelle) provando a tenere duro in classifica e magari a vincere una tappa o la maglia a pois, di fianco a lui fa l'esordio in un GT il talentuoso scalatore francese Thomas Champion, c'è Rémy Rochas – altro uomo forte in salita- , e infine Rubén Fernández, uno che ha un Tour de l'Avenir nel palmarès – era il 2013 e conquistò la corsa francese davanti ad Adam Yates e Konrad – ma zero vittorie da professionista.
L'AG2R-Citroën si presenta al via con una squadra molto più competitiva dei connazionali, dietro O'Connor infatti ecco il ritrovato Bob Jungels e Clément Champoussin entrambi con la possibilità di difendersi in salita, in classifica e vincere una tappa. Occhio anche al finlandese Jaakko Hänninen che dopo alcune difficoltà nell'approccio con il mondo dei professionisti ultimamente sta facendo intravedere tutte le sue qualità. E la salita è il suo pane.
Sempre per rimanere in Francia la Groupama-FDJ dopo aver raccolto parecchio tra Giro (le tappe e la Ciclamino con Démare) e Tour (il piazzamento a ridosso del podio di Gaudu) punta alla Vuelta con Thibaut Pinot - perlopiù a caccia di tappe - e Rudy Molard che nel 2018 alla ottenne il 14° posto finale vestendo per 4 giorni la maglia di leader – quell'anno Pinot vinse due frazioni di montagna. Con loro lo svizzero Sebastian Reichenbach, gregario e all'occorrenza uomo da primi venti posti in classifica.
Sempre dalla Francia, l'Arkéa Samsic, squadra Professional invitata di diritto, che sarebbe stata interamente raccolta attorno a Nairo Quintana. Lo scalatore colombiano, però, vincitore della corsa spagnola nel 2016 di recente ha visto cancellato il 6° posto ottenuto poche settimane fa al Tour a causa di una positività al tramadolo e nelle ultime ore ha comunicato che non prenderà il via della corsa. La squadra bretone, che ha deciso di non sostituire Quintana, a questo punto potrebbe semplicemente provare ad andare in fuga e a vincere delle tappe - Gesbert il più quotato.
Abbiamo accennato alle Professional, sono 3 quelle spagnole – è rimasta fuori un po' a sorpresa e chiaramente non senza polemiche la Caja Rural. La Kern Pharma vuole mettere in mostra i suoi ragazzi da classifica come José Felix Parra ('97, vincitore nel 2021 del Tour de l'Alsace), Roger Adrià ('98, scalatore dotato di spunto veloce) e soprattutto Raúl García Pierna (2001). Tra i giovani spagnoli uno dei più interessanti da seguire, Raúl García è il figlio di Félix Garcia Casas che in molti ricorderanno come ex corridore della Festina capace in carriera di piazzarsi in classifica in tutti e tre i Grandi Giri. Per i tre spagnoli sarà l'esordio assoluto in una grande corsa a tappe con la possibilità di mettersi in mostra e chissà credere nel salto nel World Tour il prossimo anno. Saranno affiancato in salita da Héctor Carretero arrivato dalla Movistar proprio quest'anno.
L'Euskaltel-Euskadi movimenterà tutte le tappe, tra Luis Angel Maté, Xabier Azparren, Joan Bou, ma soprattutto con i due Mikel d'esperienza, Iturria, vincitore nel 2019 della tappa conclusa a Urdax-Dantxarinea, unico successo in carriera, e Bizkarra, 17° lo scorso anno in classifica. Non sono più i tempi in cui “ la nazionale basca del ciclismo” vinceva a ripetizione tappe nei Grandi Giri, è vero, ma la loro maglia arancione si farà vedere spesso in fuga.
Infine la Burgos BH, terza e ultima compagine ProTour spagnola che avrà nell'eterno Dani Navarro il proprio capitano. Escluso all'ultimo Madrazo (positivo al Covid) che di questa squadra sarebbe stato l'atleta più rappresentativo, avrebbe tentato di vincere una tappa, quella di casa con arrivo al Pico Jano, e avrebbe lottato per la maglia a pois. Al suo posto al via un monegasco che si difende in salita, Victor Langellotti, recentemente vincitore di una tappa alla Volta a Portugal.
Tornando alle alternative da classifica di cui è zeppo il World Tour: in casa BORA-hansgrohe niente male l'eventuale riserva in campo di Hindley, ovvero Wilco Kelderman, corridore che potrebbe ambire anche a un piazzamento nei primi 5. L'olandese saprà essere affidabile ultimo uomo del compagno di squadra australiano qualora, come successo al Giro, Hindley desse maggiori garanzie per salire sul podio. Per un problema fisico invece è saltato Emanuel Buchmann. Al tedesco, 4° al Tour del 2020, da un paio di stagioni tra cadute e malanni sembra non andargliene dritta una. Il corridore è stato sostituito da Matteo Fabbro che avrà la possibilità di mettersi in mostra lavorando duramente in salita per i suoi capitani.
Il capitolo INEOS Grenadiers è quello tra i più complessi in assoluto. Lo squadrone britannico, qui con una squadra con diversi talenti al loro esordio in un GT, sulla carta ha in Carapaz il numero uno, ma l'ecuadoriano campione olimpico, come già detto, non sta di certo facendo la miglior stagione in carriera – al netto del 2° posto dell'ultimo Giro d'Italia - e le voci di un quasi certo divorzio a fine stagione potrebbero anche pesare sul rendimento. E allora, quali migliori garanzie potrebbero arrivare da corridori che portano il nome di Tao Geoghegan Hart, che appare ritrovato e voglioso di fare fatica dopo aver saltato sia il Giro che il Tour in questa stagione, di Carlos Rodriguez Cano, che rappresenta una delle future stella del ciclismo spagnolo per le corse a tappe – secondo alcuni anche per le corse di un giorno più dure – e Pavel Sivakov che arriva dalla vittoria al Tour de Pologne? Sulla carta tutti nomi da alta classifica. Ah e non dimentichiamo Luke Plapp, classe 2000 anche lui all'esordio in un Grande Giro e che sarà tutto da seguire per una carriera simile a quella del connazionale Rohan Dennis, corridore al quale viene naturale accostarlo. Menzione a parte merita Ben Turner, altro giovane esordiente in una corsa di tre settimane, questa primavera è stata una delle rivelazioni in assoluto del ciclismo che conta, il suo compito, qui in Spagna, sarà quello di faticare per i compagni e magari provare a togliersi qualche soddisfazione personale. Entrambi i ruoli sembra svolgerli benissimo, con rara compostezza, potenza e qualità.
Abbiamo parlato di seconde linee in squadre che almeno alla partenza pare abbiano già delineato un capitano ed ecco che in tal senso va a inserirsi Brandon McNulty che, dopo il Tour, è chiamato a fare gli straordinari per l'UAE. L'americano avrà il compito di restare di fianco il più possibile ad Almeida e di dare il proprio importante supporto nella cronosquadre di apertura. Con lui, l'altra stella emergente del ciclismo spagnolo, Juan Ayuso, il quale pareva fino a qualche settimana fa lanciato verso il Tour de l'Avenir e invece farà il suo esordio da subito in un Grande Giro e a 20 anni ancora da compiere sarà il più giovane corridore al via. C'è tanta attesa attorno al suo nome per capire, stavolta letteralmente, cosa potrà diventare da grande. Ha le qualità per emergere come corridore da corse a tappe di tre settimane, è veloce, scaltro, resistente in salita, è sfacciato il giusto, e il compito dei tecnici sarà quello di riuscire a farlo convivere con colleghi sulla carta più pronti di lui. Infine, oltre a Jan Polanc, tuttofare per la salita, presente il nostro amato cavallo pazzo Marc Soler che dopo il ritiro al Tour si rimette in bici per provare se non altro a vincere una tappa e a dare il suo contributo nelle tappe più impegnative.
La Jumbo-Visma oltre a Roglič, porta Sepp Kuss e Sam Oomen, garanzie per la salita (così come Chris Harper), ma anche, nel caso vadano male le cose con lo sloveno, pure per un posto nei primi 10,15 della classifica generale, mentre in casa Movistar sarà Alejandro Valverde ad affiancare Mas. L'Embatido, che si ritirerà a fine stagione, vorrà lasciare il segno a modo suo, che significa come minimo provare a tenere duro in classifica e vincere qualche tappa. Il giovane belga Maxim Van Gils sarà, insieme al connazionale Steff Cras, l'uomo da classifica della Lotto Soudal: entrambi dovranno cercare di racimolare punti pesanti per il discorso permanenza nel WT. Al momento la squadra belga sarebbe retrocessa.
Problema condiviso con la Israel Premier Tech che vive una situazione di classifica ancora più complessa e che qui in Spagna si affiderà al norvegese Carl Fredrik Hagen, nome da filosofo, ma tanta incostanza di risultati, e soprattutto a Michael Woods, lui sì invece una garanzia quando la strada si impenna. Il canadese stringerà i denti per provare anche a fare classifica. Al via della Vuelta anche un certo Chris Froome il quale però ha già messo le mani avanti su una forma non al meglio a causa del Covid preso al Tour.
La Intermarché Wanty Gobert, una delle squadre rivelazioni di questo ultimo biennio ciclistico, piazza un terzetto mica male: Domenico Pozzovivo che insegue l'ennesima top ten in una Grande Giro, Louis Meintjes che studia esattamente dallo scalatore lucano, e Jan Hirt, che saluterà la compagnia belga a fine stagione per diventare pedina Quick Step e prima di farlo vorrebbe aggiungere al successo conquistato sull'Aprica al Giro, una vittoria importante anche in Spagna. Con loro Rein Taaramäe, solido gregario in salita utile anche da infilare in qualche fuga buona.
La Alpecin-Deceuninck arriva alla Vuelta con poche ambizioni di classifica, però occhio a Jay Vine, già in evidenza alla Vuelta 2021 e che in salita ha numeri molto interessanti, e a un ritrovato – di recente - Robert Stannard, grande talento tra gli Under 23 in attesa di esplosione. A inizio stagione avevamo detto che il passaggio dal Team Bike Exchange ci pareva la scelta migliore per imporsi a grandissimi livelli, ma attendiamo ancora di vedere suffragate le nostre idee. Visto che citiamo Stannard, nominiamo anche Lucas Hamilton, una sorta di gemello. Lui invece è rimasto con il gruppo Orica GreenEdge che lo ha lanciato tra i professionisti, sarà di base l'ultimo uomo in salita di Yates, ma potrebbe anche togliersi qualche soddisfazione personale.
Chiudiamo la lunga lista degli outsider citando le ultime due squadre che hanno presentato la propria formazione per la Vuelta: Bahrain Victorious e EF Education Easy Post.
La Bahrain porta Mikel Landa che si è chiamato fuori dalla lotta per la classifica (alleggerisce la pressione o sono reali sensazioni sulla sua forma?) altrimenti lo avremmo inserito come minimo tra i favoriti, e con lui due nomi pesanti per la salita ed eventualmente anche per l'alta classifica: Wout Poels e Gino Mäder. L'olandese è corridore solidissimo, capace di grandi giornate e con il passare delle tappe pure di fare classifica, lo svizzero, tra le rivelazioni del 2021, quest'anno sta vivendo una stagione molto difficile e cerca il riscatto sulle strade spagnole. Terreno per rifarsi ce n'è in abbondanza. Menzione a parte per il colombiano Santiago Buitrago, vincitore di tappa al Giro, forte in salita, potrebbe essere uno dei nomi più importanti in salita di questa corsa.
EF Education-Easy Post si presenta con il miglior terzetto possibile per la classifica: l'obiettivo è quello di non rimanere invischiati in una clamorosa retrocessione dal World Tour, ma d'altronde per loro è un'annata ampiamente insufficiente. Dunque compito di Rigoberto Urán, Esteban Chaves e Hugh Carthy quello di raccogliere il massimo possibile dalla corsa spagnola.
A CACCIA DI TAPPE: I VELOCISTI
Liquidiamo in breve il discorso velocisti: non tantissime le volate, non tantissime le ruote veloci presenti. I nomi più interessanti sono cinque: Tim Merlier (Alpecin-Deceuninck), Kaden Groves (Team Bike Exchange) e Mads Pedersen (Trek Segafredo) che partono con i favori del pronostico rispetto a Pascal Ackermann (UAE Team Emirates, con lui anche Juan Sebastian Molano), e Sam Bennett (BORA-hansgrohe).
In seconda fila ecco invece Bryan Coquard (Cofidis) sul quale continua a pesare lo zero nella casella vittorie nel World Tour, Danny van Poppel (ultimo uomo di Bennett, ma vedremo se sarà soltanto quello), Daniel Mclay (Arkéa Samsic), Mike Teunissen (Jumbo Visma) e i due spagnoli Francisco Galván (Kern Pharma) e Manuel Peñalver (Burgos-BH). Un nome che attende invece di rivelarsi al grande pubblico è quello del giovane belga Gerben Thijssen (Intermarché Wanty Gobert) che proprio in una volata della Vuelta – era il 2020 – ottenne uno dei suoi risultati migliori in carriera chiudendo al 2° posto la tappa di Aguilar de Campoo, battuto allo sprint solo da Ackermann. Thijssen pochi giorni fa ha conquistato al Giro di Polonia il successo più importante da quando corre vincendo proprio davanti ad Ackermann la volata con arrivo a Zamość.
Per quelle volate un po' più complesse presenti invece il talentuoso britannico Jake Stewart (Groupama FDJ), il neozelandese della Israel Premier Tech Paddy Bevin, l'ormai non più giovane John Degenkolb (DSM), che si dividerà presumibilmente il compito di sprintare con Nikias Arndt, e l'italiano Andrea Vendrame (AG2R) il quale però, all'esordio alla Vuelta, ha già dimostrato nei Giri d'Italia disputati di essere qualcosina di più di un corridore da arrivi di gruppo, ma potrà, se troverà la condizione strada facendo, tentare vincere andando in fuga, pure su percorsi impegnativi. Oltretutto il corridore veneto ambisce anche a un posto in maglia azzurra su un circuito adattissimo alle sue caratteristiche.
FUGHE, CRONOMAN E CLASSICOMANI
Ma non solo velocisti; c'è una lista di nomi da seguire con attenzione per altri tipi di arrivi: nelle prime giornate occhio a questi corridori che andremo a nominare anche in prospettiva classifica (parziale) grazie a tracciati che solleticano la loro fantasia. Sono tre che spiccano sopra gli altri, con background e caratteristiche differenti, ma tutti e tre con ambizioni importanti: Sergio Higuita, BORA-hansgrohe, è il primo. Il campione nazionale colombiano, scattista veloce, ma forte anche in salita, oltre a provare a far classifica e a rimanere il più possibile vicino a Hindley, avrà – crediamo – anche la necessaria libertà per provare a vincere qualche tappa.
Julian Alaphilippe: inutile presentarlo, diciamo solo che arriva da una vigilia un po' tormentata. Oltre ai problemi che si porta avanti da inizio stagione – prima la caduta alle Strade Bianche poi quella alla Liegi che gli ha fatto saltare persino il Tour – ci si è messo anche Lefevere. Il sulfureo team manager della Quick Step pochi giorni prima del via ha dichiarato: «Lo scorso ha corso il Tour de France in preparazione al Mondiale, spero non si ripeta la stessa situazione [alla Vuelta]. Puoi farlo una volta, ma io non lo pago certo per vincere la maglia iridata con la Francia». La coppia Alaphilippe – Evenepoel promette comunque di dare spettacolo, con l'ingrediente Lefevere a dare pepe a tutto ciò che gira intorno al loro mondo.
Il terzo invece è un esordiente in una grande corsa a tappe: Ethan Hayter, INEOS - Grenadier, veloce, resistente, forte a cronometro, si difende anche in salite non troppo lunghe e pendenti, insomma un giovane coltellino svizzero britannico. Ha detto di puntare forte sulla prova contro il tempo di Alicante – ma il suo apporto sarà fondamentale anche nella crono di apertura. Dopo le due volate olandesi i percorsi vallonati in terra basca del quarto e quinto giorno di gara sembrano tagliati su misura per lui che potrebbe anche ambire a vestire una maglia rossa parziale.
Interessante in quanto veloce e capace di entrare in fuga il sudafricano della Israel Premier Tech, Daryl Impey, mentre sempre per le fughe da seguire il francese Quentin Pacher, in grande forma a inizio stagione, e il suo compagno di squadra in Groupama-FDJ Bruno Armirail. A proposito di fughe: la Bahrain ha due pedine come Luis Leon Sanchez e Fred Wright che in un Tour molto sottotono per la loro squadra, sono stati tra i più positivi andando vicinissimi al successo di tappa più di una volta, ma occhi puntati in casa Bahrain soprattutto sul già citato Buitrago, vincitore di una tappa in salita al Giro, è fra gli scalatori più attesi a questa corsa. A proposito di scalatori: Kenny Elissonde (Trek Segafredo) e Nans Peters (AG2R), entrambi francesi, proveranno a lasciare il segno in salita. Per il primo sarebbe un ripetersi alla Vuelta: un successo in carriera conquistato nel WT e fu proprio qui nell'ormai lontano 2013, per il secondo sarebbe il tentativo di iscriversi al club dei vincitori di tappa in tutti i Grandi Giri, dopo i successi al Giro (2019) e al Tour (2020).
C'è il fugaiolo per antonomasia Thomas De Gendt che disputerà il suo 23° Grande Giro, in squadra con lui l'australiano Harry Sweeny che dopo l'ottimo impatto con i professionisti lo scorso anno, quest'anno ha faticato oltremodo. Entrambi andranno a caccia di fughe con la speranza come detto in precedenza, di raccogliere punti per la Lotto Soudal.
Restando in Belgio, Xandro Meurisse e Gianni Vermeersch (Alpecin Deceuninck) sono altri due corridori che amano infiammare le tappe, uno in salita, l'altro nelle frazioni miste, infine Mark Padun, scelto all'ultimo dall'EF Education Easy Post al posto di Eiking, insegue il successo di tappa in fuga in salita, come il suo compagno di squadra, l'ecuadoriano Jonathan Caicedo.
Nominiamo anche quei corridori che, oltre a essere funzionali alla squadra, in pianura, in fuga e nella crono d'apertura, potrebbe provare a dire la loro, magari vincendo, l'unica crono individuale presente in Spagna. Parliamo di Remy Cavagna (Quick Step) e Rohan Dennis (Jumbo Visma)
ITALIANI
Detto di Vendrame a caccia di tappe, di Nibali e Pozzovivo , sempre loro, anche al Giro i migliori nostri compatrioti in classifica, dall'alto della loro classe e della loro età, di Fabbro gregario BORA, e di Masnada che sarà diviso tra una possibile voglia di puntare a un buon risultato nella generale – quella che avrebbe potuto fare al Giro senza problemi di salute che gli hanno sbarrato la strada in quasi tutto il 2022 – al dovere farsi in quattro per Evenepoel e Alaphilippe – ecco chi sono gli altri italiani a completare l'elenco dei 14 al via.
Il più atteso per certi versi è Antonio Tiberi (Trek Segafredo), all'esordio in un Grande Giro, gli misureremo le pulsazioni in classifica generale, ma senza troppe pretese. In corsa, di fianco a lui, uno dei più esperti corridori italiani e su cui probabilmente potrà contare più o meno sempre: Dario Cataldo.
Da Samuele Battistella (Astana), invece, tre anni più grande del passista scalatore laziale, ci aspettiamo qualcosa in più, ma non solo noi, è lui il primo che vorrà trovare la giornata buona per vincere una tappa. La concorrenza è forte, ma ha le qualità giuste per imporsi.
Davide Villella, per le fughe in montagna e magari provare a vincere di nuovo come qualche anno fa la maglia dei GPM, e Davide Cimolai, per le volate, saranno gli italiani in quota Cofidis, divisi tra ambizioni personali e di squadra, ma visto il roster dovrebbero avere sufficiente carta bianca. Discorso diverso invece per Edoardo Affini (Jumbo Visma), fondamentale in pianura per i capitani, il primo giorno nella cronosquadre e persino per le volate di Teunissen, e per Edoardo Zambanini, altro giovane - è un classe 2001- all'esordio in un Grande Giro. Il corridore veneto ha avuto un buonissimo impatto con i professionisti, si mette a disposizione, va forte un po' ovunque (tiene in salita, ha spunto veloce) e sarà molto utile alla causa. Di sicuro lavorerà per i capitani, ma speriamo che questo non diventi il suo mestiere anche in futuro perché le qualità per emergere ci sono. Obiettivo minimo a questa Vuelta? Arrivare fino a Madrid sarebbe già un bel punto di partenza.
Infine citiamo uno dei più giovani della pattuglia italiana, Filippo Conca (classe 1998, Lotto Soudal), in attesa ancora di capire cosa potrà diventare da grande si farà in quattro per la squadra, ma lo aspettiamo anche in fuga, e uno in assoluto dei più esperti del gruppo, quell'Alessandro De Marchi (Israel Premier Tech) sul quale scommetteremo un centesimo su qualche tentativo ben riuscito di portare una fuga all'arrivo come già successo proprio sulle strade spagnole.
IL PERCORSO
Il percorso in poche parole: partenza da Utrecht, il 19 agosto, e arrivo a Madrid, con passerella, l'11 settembre. Nessuna tappa sopra i 200km (!), nove arrivi in salita – tanti, troppi, assurdi, un continuo susseguirsi di unipuerto, ma è la Vuelta han detto, e tocca seguirla così – due cronometro (una a squadre ad aprire, l'altra dopo il secondo giorno di riposo, di 30km), tra le quattro e le sei volate, due in Olanda il secondo e terzo giorno, l'ultima a Madrid. Una terza settimana con poco sapore, mentre in generale si supereranno i 2000 metri solo sulla Sierra Nevada, sull'Alto hoya de la Mora (2492metri).
I FAVORITI DI ALVENTO
MAGLIA ROSSA
⭐⭐⭐⭐⭐ -
⭐⭐⭐⭐ Hindley, Roglic, S.Yates
⭐⭐⭐ Almeida, Carapaz, Mas E., O'Connor
⭐⭐Evenepoel, Arensman, Landa, Geoghegan Hart, Sivakov, Kelderman, Valverde, Carthy
⭐ Rodriguez, Lopez MA, Lopez J., Woods, Meintjes, Pozzovivo, Poels, Mäder, Buitrago, Uran, Chaves, Masnada, van Wilder
MAGLIA VERDE
⭐⭐⭐⭐⭐ Hayter
⭐⭐⭐⭐ Merlier, Yates S.
⭐⭐⭐ Hindley, Evenepoel, Alaphilippe
⭐⭐ Groves, Valverde, Higuita
⭐ Roglic, Carapaz, van Poppel, Stewart, Vendrame, Thijssen, Wright
MAGLIA A POIS
⭐⭐⭐⭐⭐ Buitrago
⭐⭐⭐⭐ Hindley, Hirt, Pinot
⭐⭐⭐Kuss, Madrazo, Je. Herrada
⭐⭐ Roglic, Valverde, Mas E., Lopez J
⭐ Champoussin, Peters, Caicedo, Chaves, Villella, Hanninen, Reichenbach
MAGLIA BIANCA
⭐⭐⭐⭐⭐ Almeida
⭐⭐⭐⭐ Arensman
⭐⭐⭐ Evenepoel
⭐⭐ van Wilder, Lopez J., Rodriguez
⭐ Champoussin, McNulty, Buitrago, Tiberi
Foto in evidenza: ASO/PHOTOGOMEZ
Di Vincenzo Nibali o dell'estate e di un viaggio
L'estate piena, settembre dietro l'angolo, l'autunno che attende: l'ultima estate, l'ultimo autunno da corridore perché quelli come Nibali hanno qualcosa di antico a cui ben si abbina la parola corridore, come avrebbero detto i nostri nonni. Pensare che fra un anno, a Messina, Nibali potrà dire "un'estate fa" e parlare di quando ancora era corridore potrebbe mettergli malinconia; quella sensazione che si prova quando qualcosa finisce, quando i viaggi finiscono, che non è, poi, tristezza perché una parte di bellezza c'è anche nella malinconia. Il punto è che, in questa estate che è ancora, Vincenzo Nibali quel viaggio lo sta vivendo senza pensare alla fine o, per quanto, pensandoci in maniera diversa.
Vuelta a Burgos. Quinto nella prima tappa, all'attacco ieri, in un finale mosso con tutta l'intenzione di chi questo viaggio vuole goderselo. Proprio ieri qualcuno ci ha detto: «Certo che vedere scattare lo Squalo...», una frase sospesa che, però, non lascia dubbi. C'è una sorta di ritorno alle origini in Nibali: le proprie e quelle del ciclismo.
Le proprie ovvero quelle di un ragazzo che scattava sulle strade siciliane e faceva a gara con altri ragazzi come lui. Che, tempo dopo, nelle prime gare si affidava alle "vibrazioni" e agiva di conseguenza, talvolta sbagliando. Le origini di Nibali che sono, con tutte le differenze del caso, le origini di qualsiasi ragazzo che inizia a correre in bicicletta e che sono, forse, le origini stesse del ciclismo.
Anche Nibali, il campione che tanto ha vinto, sa che, quando si inizia a pedalare, si ha il sogno di vincere, indubbiamente, ma il ciclismo lo si sceglie per sensazioni genuine che appartengono a tutti e che tutti possono capire: una discesa veloce, il brivido in una curva, la vetta di una salita, gli amici che non tengono più la tua ruota. Vincenzo Nibali in questo non fa differenza: ha sempre fatto tutto questo, solo più in grande: al Giro, al Tour, alla Vuelta, alla Milano-Sanremo o a "Il Lombardia".
Un campione non scorda mai tutto questo anche se per le persone è colui che ha vinto due volte il Giro d'Italia e il Tour de France. Non lo scorda mai e quando tutto si fa più lieve torna a godersi questo viaggio. Anche ora, mentre le sagome dei ciclisti sull'asfalto si accorciano, come il tempo che manca. E quando scatta, chi lo vede, pensa sempre: «Certo che vedere Nibali scattare...»
Nibali, borracce e ragazzini, in una calda giornata siciliana
I ragazzi dietro le transenne che urlano "borracce! borracce!", più che chiederle sembra che stiano trattando i prezzi al mercato, per il modo, la cadenza da venditori smaliziati, per quell'insistenza che è l'insistenza ingenua e tipica che si ha quando si è giovani.
Scene di un ordinario Giro d'Italia che se le racconti sembrerebbe di sfociare nella finzione. Come i due bambini senza casco che in zona pedonale sfrecciano su uno scooter che dal rumore pare elaborato.
Stanno inseguendo Lennard Kämna - ci stiamo ancora chiedendo cosa ci facesse la maglia azzurra in via Loggia dei Mercanti a fine tappa. Kämna si gira e gli passa una borraccia come di solito l'ammiraglia la passa al corridore.
Messina è questa. Calore e passione. Tifo sfrenato per Vincenzo Nibali che dopo la tappa si commuove annunciando il ritiro a fine stagione: «È arrivato il momento di restituire alla mia famiglia tutte le ore che ho dedicato al ciclismo». Ha scelto la sua Messina per dirlo, oltre che gran corridore, mossa da narratore navigato.
Quella Messina dove sua sorella stamattina nella cartoleria di famiglia sorrideva, timida, riservata, e ci raccontava quasi con un filo di voce: «È una cosa bellissima quella che ci fa vivere Vincenzo, ma – sorride - è anche un po' stressante». Sulla parete dietro la cassa una foto con Antonio e Vincenzo, e poi la maglia gialla incorniciata. C'è anche Manuel, il nipote di Vincenzo, sta seguendo l'inizio della tappa sul computer nel retro del negozio.
La Messina di Nibali è quella di Salvatore "il re degli arancini", un fiume in piena che ci racconta di quando il corridore siciliano girava in bici fin dentro la sua rosticceria: «Faceva avanti e dietro e non se ne andava finché non gli davamo un arancino».
La Messina dei tifosi è quella di altri due ragazzini, hanno la tuta e lo zaino del Team Nibali e fanno foto a ogni ammiraglia che passa accompagnando tutto con un “olè!”.
Messina oggi non è stata né di Cavendish né di Ewan, ma di Démare, che si sfilava in salita con intelligenza, soffriva come può soffrire un velocista in salita, ma lo faceva per non perdere un filo di energia. Rientrava mettendo subito i suoi a tirare e poi battendo tutti sul rettilineo controvento di via Garibaldi.
Messina è quella del signore che ci racconta di suoi figlio che ha corso in una squadra toscana per qualche anno: «Ma costava troppo, le trasferte, la bici... sapete quanto l'ho pagata la sua Colnago? Cinque milioni di lire, e quando ha voluto mollare gliel'ho tagliata in due».
Ciclismo, passione, e un po' di follia: siamo in Sicilia, non potremmo che definirla trinacria. A fine giornata il sole batte ancora forte sulle nostre teste e sullo sfondo si vede la Calabria, da dove domani la carovana riprenderà il suo viaggio.
E a chiudere (o quasi)... Il Lombardia
Se c'è una (grande) corsa di un giorno che si addice in maniera perfetta ai corridori da Grandi Giri quella è “Il Lombardia”, Giro di Lombardia come si chiamava un tempo. "Classica delle foglie morte" per via della stagione, banalmente, del foliage che caratterizza la sede stradale, persino - un tempo - "Mondiale d'autunno'' fino a quando proprio la rassegna iridata non ha iniziato a spostarsi più avanti, più in là, nel calendario.
Se c'è una corsa che per certi versi ha assunto meno prestigio rispetto alle altre “Monumento”, questa è, ahinoi, il Giro di Lombardia: nonostante si riveli poi sempre corsa dura, selettiva, spettacolare, temuta, amata, cerchiata in rosso, nel tempo è stata un po' snobbata (non è il caso di quest'anno); arriva a fine stagione (oggi per la prima volta pure una settimana dopo la Parigi-Roubaix) quando il gruppo ha fiato corto, gambe dimezzate, e poi quei cambi di percorso, che per qualcuno sono il tratto caratteristico, in verità fanno un po' perdere la bussola.
Se c'è una corsa che quest'anno avrà il tremendo compito di svegliarci dal sogno di una stagione ciclistica meravigliosa, segnando la fine (o quasi, perché per fortuna non è proprio finita finita, ancora qualcosina da gustarci ci sarà) del 2021, sarà il Giro di Lombardia.
Da Como a Bergamo in un un percorso diverso rispetto alle ultime stagioni quando l'arrivo sfiorava il Lago e dove Ghisallo, Sormano, Civiglio, San Fermo della Battaglia intorpidivano le gambe, smembravano il gruppo e poi lanciavano, solitari o sgranati, i corridori verso la vittoria.
Sarà meno selettivo il percorso di quest'anno? Può darsi, ma mai come nelle ultime settimane il gruppo ha mostrato la verità del più banale degli principi: sono loro a fare (dura) la corsa. E oggi ci aspettiamo una grande battaglia, visti i nomi al via.
Giro di Lombardia: da Gerbi (primo vincitore e ancora oggi il suo vantaggio di 40' resta il più grande distacco tra 1° e 2° nella corsa italiana) a Fuglsang, oltre un secolo di storia e così tanti episodi.
Scegliamo, per questioni di memoria e tempo, quella dell'anno scorso, un Ferragosto con Lomabrdia segnato da una selezione e da distacchi – per l'appunto - d'altri tempi (non come quelli dei pionieri) e da quell'immagine tremenda di una bici ferma sul muretto di un ponte lungo la discesa della Colma di Sormano. Evenepoel rischiava, e poi andava giù nel tentativo di seguire la ruota di altri scatenati. Abbiamo temuto il peggio.
Da lì ripartiamo: con il giovane belga che prova ad assorbire quell'esperienza anche se si proclama un po' stanco dopo l'impresa alla Coppa Bernocchi (sulla falsariga di van der Poel che dopo l'impresa alla Tirreno sotto la pioggia accusò la fatica alla Sanremo, oppure pretattica?); con la coppia slovena che parte in prima fila, Roglič decisamente più avanti di Pogačar, ma per ripeterci: scommettereste mai contro uno così? Noi no.
Con Alaphilippe che comunque vada la maglia iridata la porterà davanti in qualsiasi fase della corsa: afferma pure lui di non avere chissà che gambe, e magari in Quick Step hanno pronto Almeida all'ultima recita travestito da lupo prima di andare a infoltire il pacchetto corse a tappe della UAE dal 2022.
Da metà settembre in poi ha collezionato 3 vittorie, 4 secondi posti (tra cui l'Emilia) e un 3° pochi giorni fa alla Milano-Torino. In generale la costanza mostrata nel 2021 è degna di rilievo. Che sia lui il più in forma tra gli uomini di Lefevere? Unico dubbio la tenuta sulla distanza se proprio vogliamo trovare un “ma”. E poi gli Yates, più Adam che Simon che che per la verità si è visto poco di recente, Woods sempre temibile su questi percorsi, l'ultima corsa di Dan Martin, poi Gaudu che ci piace sempre, come Cosnefroy. E poi Valverde che non ha mai vinto una corsa per lui, il pacchetto di mischia Bahrain (Teuns, Mohorič), e tanti altri outsider.
L'Italia si affida a diverse generazioni di corridori: c'è il vecchio, Nibali, l'esperto, Ulissi, ci sono i medi, per età ed esperienza: Moscon, Masnada, Rota e Formolo, e infine i giovani Aleotti e Bagioli, ma quest'ultimo sarà chiamato al lavoro sporco visto tutti i capitani che si porta appresso, ma chissà.
IL PERCORSO
Da Como a Bergamo quest'anno. Come detto almeno sulla carta è meno duro del pacchetto che porta il gruppo verso il Lago con le ascese in serie di Ghisallo, Sormano, Civiglio, San Fermo. 239 km con un inizio soft, Ghisallo solo simbolico (versante abbordabile) poi è vero: quando si sale si sale (Roncola, Berbenno, Dossena e Zambla Alta in successione), ma il punto clou è atteso sull'ultima salita: Passo di Ganda, il lato oscuro del Selvino con quei 4 km finali duri duri e lo scollinamento a 32 dall'arrivo: trampolino ideale.
Prima del finale lo strappo verso Bergamo Alta, suggestivo e impegnativo per lanciare chi ne avrà verso il traguardo che sarà da lì a poco. I favoriti li abbiano nominati e li mettiamo in fila come d'abitudine qui in seguito, ma occhio che come a volte accade (al Lombardia l'ultima volta fu il 2011 con la clamorosa vittoria di Zaugg) può spuntarla una sorpresa, oppure, in caso di marcamento fra i (diversi) big al via, anche un bel gruppo di seconde linee.
A noi in tal caso, così su due piedi, ci piacerebbe, partigianamente, vedere trionfare Masnada o Rota. Ragazzi di casa - in tutti i sensi - che vanno forte in questo periodo.
I FAVORITI DI ALVENTO
⭐⭐⭐⭐⭐ Roglič
⭐⭐⭐⭐ Pogačar, Evenepoel, A.Yates
⭐⭐⭐ Alaphilippe, Almeida, Woods, Gaudu
⭐⭐ Mollema, Champoussin, G.Martin, Higuita, Valverde, S.Yates, Rota, Masnada, Teuns, Powless
⭐ Moscon, Aleotti, Grossschartner, D.Martin, Pinot, Nibali, Bagioli, Tulett, Mohorič, Sivakov, Formolo, Hirschi, Bardet, Storer, Kron, Vingegaard, N.Quintana
Ma un Giro d'Italia, quando lo vinceremo di nuovo?
Per ovvi motivi il 2020 è stato un anno differente dal solito, ma per quanto riguarda il valore del ciclismo italiano nei Grandi Giri, è proseguita la costante tendenza degli ultimi anni che oscilla verso il basso. Dato che la narrazione ciclistica dalle nostre parti ruota perlopiù attorno ai risultati nelle grandi corse a tappe, abbiamo deciso di prendere in esame il movimento italiano nella sua massima espressione agonistica proprio in virtù di quello che è stato ottenuto nelle gare di tre settimane.
È vero: le grandi classiche o i mondiali, le vittorie nei traguardi parziali o nelle volate, hanno fascino e importanza, ma la tradizione vuole che ci si scaldi principalmente per le imprese in maglia gialla di Nibali, per gli scatti in salita di Pantani o Chiappucci, per la maglia rosa di Gianni Bugno, senza nulla togliere ai buoni risultati raccolti negli anni nelle altre corse. E non è solo una questione di tradizione, è anche il termometro dell’espressione di una scuola, quella del ciclismo italiano, che fino a qualche anno fa esprimeva diversi corridori di valore assoluto e che ora per vari motivi si è vista superare da altre nazioni.
Giro d’Italia: cartina tornasole del movimento
Nella Corsa Rosa della passata stagione è arrivato il peggior risultato di sempre per i corridori italiani in classifica generale con il settimo posto di Nibali – tra i primi dieci anche Masnada, nono. Oltretutto è stata una corsa decimata prima dalle assenze e poi, strada facendo, dai ritiri di alcuni possibili protagonisti.
Mai, prima di allora, il migliore italiano in classifica si era trovato così in basso. E non va dimenticato come il risultato peggiore, prima di quello arrivato nel 2020, fosse stato il quinto posto di Pozzovivo nel 2018: due risultati intervallati dal podio del solito Nibali nel 2019, unico italiano nei dieci in quell’edizione: alle sue spalle il migliore azzurro fu Formolo, quindicesimo. Se ci spostiamo ancora di due anni: nel 2016 vinse Nibali, ma il migliore dietro il siciliano fu Visconti, tredicesimo, risultato acquisito principalmente grazie alle fughe.
Usando la “corsa di casa” come cartina tornasole del ciclismo italiano, non possiamo derubricare il cammino dell’ultima stagione come un’annata difficile o un incidente di percorso; si tratta più di una tendenza in voga ormai da tempo e con le sue eccezioni, vedi il 2017. Quell’anno, oltre al podio di Nibali, terzo, interessanti furono il sesto di Pozzovivo e il decimo di Formolo, in un’edizione di buon livello, in quanto a concorrenza internazionale, di sicuro tra le migliori degli ultimi vent’anni di Corsa Rosa.
Nelle altre occasioni in cui il ciclismo italiano non metteva nessun suo rappresentante sul podio si era riuscito a piazzarlo a ridosso: quarto Scarponi nel 2012, stessi risultati per Chiappucci nel 1995 e Giupponi nel 1988. Andò peggio, come nel 2018, nel 1987: quinto Giupponi, ma subito alle sue spalle Giovannetti, sesto.
E per trovare un risultato simile bisogna scavare negli annali e scorrere indietro fino al 1972: ancora nessun italiano sul podio, né ai piedi. Il migliore? Panizza, quinto, nel Giro dominato da Merckx. Quella però fu la prima volta in assoluto senza italiani sul podio dopo ben cinquantaquattro edizioni. Per l’epoca non fu che un’eccezione. Il biennio ’87-’88, invece, resta la prima e unica volta di due Giri consecutivi senza un rappresentante del ciclismo italiano tra i primi tre – l’impressione è che, se potessimo osservare il futuro prossimo nella sfera di cristallo, un destino simile si potrebbe prefigurare per il biennio 2020-2021, salvo exploit al momento difficilmente prevedibili.
Nei due Giri del 1987 e del 1988, nonostante le indubbie qualità di Giupponi, che dopo i due quarti posti sarà secondo nel 1989, si viveva un momento di transizione. Si era pressoché chiusa l’epoca di Moser e Saronni (un po’ prima quella di Battaglin e di uno dei più grandi incompiuti del nostro ciclismo, Baronchelli) e si stava per aprire quella di Bugno, Chiappucci e Pantani – senza dimenticare Gotti che vinse due Giri in chiusura di secolo – per poi arrivare velocemente negli anni duemila ai successi nella Corsa Rosa di Garzelli, Cunego, Simoni, Di Luca, Savoldelli e Basso.
Proprio oggi, come a fine anni ’80, stiamo invece vivendo un cambio generazionale, anche se il mondo ciclistico è decisamente mutato e non solo dal punto di vista tecnologico. Muta la sua geografia e il peso specifico del movimento italiano, e oggi appare più difficile trovare da subito la svolta come avvenne negli anni ’90, dove, senza addentrarci in altri – spinosi – argomenti, l’Italia del pedale conobbe alcune delle vittorie più memorabili della propria storia.
Anni duemila: un contesto particolare
Nelle edizioni degli anni duemila del Giro, gli italiani vincevano, dominavano, ma i loro avversari non rappresentavano certo l’élite del ciclismo internazionale – per usare un eufemismo. Spesso gli sconfitti erano passisti dal profilo non di primissimo piano per una corsa a tappe, vedi Honchar, Hamilton o Gutierrez, oppure erano giovani speranze come nel caso di Popovych o Andy Schleck. I vincitori italiani di quelle edizioni erano corridori di grande spessore, non lo mettiamo in dubbio, ma inseriti in un contesto sempre più tourcentrico e dove il Giro veniva perlopiù relegato a gara di secondo piano – rispetto al Tour – e il meglio del ciclismo dei Grandi Giri si dava appuntamento fisso oltralpe un mesetto più tardi. E difatti i corridori italiani facevano incetta di podi e vittorie “tra le mura amiche” salvo poi essere un piatto poco più sostanzioso di un contorno – all’infuori di Basso – in Francia.
E in Francia Savoldelli vinse una tappa (nel 2005) e corse persino come gregario di Armstrong, ottenendo un venticinquesimo posto come risultato migliore, mentre Simoni rimbalzò tutte le volte che provò a testarsi al Tour, salvo conquistare un prestigioso successo di tappa nel 2003. Il suo miglior risultato in classifica fu il diciassettesimo posto l’anno successivo.
Garzelli non fece mai meglio di un quattordicesimo posto nel 2001, invece Cunego mostrò nella Grande Boucle solo sprazzi del suo enorme talento: undicesimo nel 2006 quando conquistò la maglia bianca al termine di una lotta serrata con il carneade tedesco Fothen, mentre nel 2011 arrivò sesto al termine di una corsa di grande livello e che all’epoca veniva persino criticata e sottovalutata e che oggi, visti i risultati dei suoi eredi, si arriva a rimpiangere.
Infine, per restare ai vincitori del Giro d’Italia degli anni 2000: Di Luca partecipò a due Tour e si ritirò entrambe le volte, ma per caratteristiche l’abruzzese, discorso doping a parte, non era del tutto adatto alle corse a tappe e si reinventò uomo da tre settimane solo in un secondo momento.
E arrivarono così la bellezza di undici successi consecutivi al Giro, dal ’97 di Gotti al 2007 di Di Luca, fino al 2008 quando sulle strade italiane si presentò, per vincere, uno dei più forti corridori in assoluto della storia recente: Alberto Contador, che si ripeté poi nel 2011 – successo poi revocato – e nel 2015. Mentre resta emblematico e spartiacque dei Giri d’Italia successivi, quello del 2012. Ci fu un podio tutto straniero ma occupato per due terzi da corridori che mai più avrebbero ottenuto un risultato simile e né lo avevano sfiorato prima: Hesjedal (primo) e De Gendt (terzo). Spartiacque perché fu un Giro di non eccelso livello dal punto di vista della partecipazione, però, a differenza di quello che succedeva qualche anno prima, l’Italia non riuscì a vincere, né a piazzare un corridore sul podio nonostante la presenza dei maggiori esponenti del nostro ciclismo delle corse a tappe di quegli anni: Scarponi, Basso, Cunego e Pozzovivo – pur se tutti e quattro in momenti differenti della loro parabola. Tutti i migliori italiani presenti tranne Nibali, che da par suo ottenne il suo primo podio al Tour. Si affacciarono a quel Giro 2012 corridori all’epoca più o meno giovani e che potevano rappresentare nell’immaginario il futuro per le corse a tappe: Brambilla che chiuse tredicesimo e Caruso ventiquattresimo. Cambieranno, però, gli obiettivi, i risultati e i ruoli in carriera e nessuno di loro sarà mai capace di lottare non solo per la maglia rosa, ma nemmeno per un posto vicino, trasformandosi in corridori con altre caratteristiche e prospettive.
Nel decennio appena trascorso (2011-2020) un solo corridore ha conquistato a tutti gli effetti la maglia rosa finale, Nibali, vincitore nel 2013 e nel 2016. E a rendere ulteriormente pesante lo storico degli italiani ecco che solo altri due atleti negli ultimi anni sono riusciti a salire sul podio oltre al siciliano: Scarponi nel 2011 – tempo dopo gli fu attribuito il successo di quel Giro per la squalifica di Contador – e Aru nel 2014 e nel 2015.
Ed è pesante proprio il confronto tra i primi due decenni degli anni 2000. Tra il 2001 e il 2010 il ciclismo italiano ha portato a casa otto Giri su dieci, lasciando per strada solo quelli del 2008 e del 2009 con 19 podi, ottenuti da 12 corridori diversi, su 30 disponibili. Dal 2011 al 2020 invece tre successi se vogliamo considerare anche quello assegnato a tavolino a Scarponi e 8 podi, ottenuti da 3 corridori, su 30. È vero che in questi anni è aumentata la concorrenza straniera, ma allo stesso tempo è diminuita la potenza di fuoco di quella italiana. Ed è emblematico in questo il Giro del 2020, dove, a un parterre non esagerato per la lotta al podio, l’Italia non è riuscita a opporre alcuna controparte.
Tour e Vuelta
Se volessimo invece in breve considerare anche le altre due corse a tappe, si parla, anche a livello storico, di cifre assolutamente differenti, come se trattassimo un altro tipo di esercizio: dal ’65 a oggi sono tre le vittorie finali al Tour con Gimondi, Pantani e Nibali, e sedici podi con lo stesso Gimondi, Balmamion, Motta, Bugno, Chiappucci, e ancora Pantani, Basso e Nibali, mentre alla Vuelta i successi sono sei in tutta la storia, con quelli ottenuti negli anni 2010 da Nibali e Aru. E proprio per questo motivo, per chiarire meglio le difficoltà, occorre principalmente parlare della corsa di casa, quella che più di ogni altra riscalda il sentimento popolare italiano.
Carta d’identità e faticoso cambio generazionale
Fatti un po’ di numeri facciamo i nomi. Intanto identifichiamo subito nell’età avanzata dei protagonisti uno dei problemi che affronteremo anche in questo 2021 e poi successivamente nel 2022, salvo l’improvvisa esplosione di qualche interessante talento – che per inciso c’è. Nibali compirà 37 anni a novembre, Pozzovivo 39, eppure sono loro due i corridori che hanno ottenuto i migliori risultati nelle ultime stagioni. Pozzovivo, oltretutto, con una serie di infortuni anche abbastanza gravi che ne hanno condizionato il rendimento.
Gli altri corridori che andremo a nominare, per motivi diversi, non danno garanzie per un successo finale, per un podio o qualcosa di molto vicino ad esso. Eppure sono quelli che nell’ultima stagione hanno ottenuto i risultati migliori alle spalle del siciliano della Trek-Segafredo. Sono tutti professionisti di caratura importante, non c’è dubbio, ma pare difficile immaginarli a raccogliere l’eredità del corridore messinese.
E i perché vanno ricercati non solo nell’elevata competizione che anno dopo anno si sta facendo sempre più serrata e che coinvolge elementi di diverse nazioni, ma anche nel ruolo che i corridori italiani ricoprono all’interno dei propri team, e che a lungo andare ne condizionano la possibilità di potersi esprimere per la vittoria, modificandone le prospettive.
È il caso di Damiano Caruso, corridore di talento, ma da sempre votato alla causa altrui. Diciamocelo francamente: un conto è essere abituati a lottare per un successo o per un podio, oppure crescere per gradi con l’obiettivo di svettare poi nelle parti alte della classifica; un altro discorso è passare una carriera compiendo grandi sforzi in aiuto ai propri capitani e poi, nel momento della disputa decisiva, sfilarsi andando del proprio passo al traguardo. L’abitudine al successo, facendo il gregario, manca.
Il siciliano, classe ’87, ha fatto le sue scelte di carriera, più che opportune, ovvero mettere le sue grandi qualità a disposizione dei propri capitani e nonostante tutto ha raccolto risultati di prestigio. L’ultimo in ordine di tempo è forse il più interessante: 10° al Tour de France 2020, sebbene esemplare nel suo lavoro in appoggio al capitano Landa. Nonostante la sua affidabilità, tuttavia è difficile immaginarcelo capitano da un giorno all’altro e pretendente al podio da qui alle prossime stagioni. Certo manca la controprova, ma cosa sarebbe potuto diventare Caruso se si fosse messo in proprio? Non lo sapremo mai.
C’è poi Fausto Masnada: il secondo migliore italiano in un Grande Giro nel 2020. È un classe ’93, ha una carriera davanti, e il Giro di pochi mesi fa è stata la sua prima vera prova con ambizioni di media classifica. Se a grinta Masnada non è secondo nessuno, il bergamasco pare voglia ripercorrere le orme di Caruso. «Mi rivedo molto in Damiano Caruso» racconta lui stesso ai microfoni di Giada Gambino su Bici.pro «Credo sarà proprio questo il mio ruolo nei prossimi anni».
Masnada è un attaccante nato, come Caruso si difende bene in salita, ma non ai livelli dei migliori in assoluto; come Caruso vince poco – anche se al momento ha raccolto qualcosa in più. Come Caruso ha ottenuto una bella top ten nel 2020 pur avendo sgobbato come un forsennato per aiutare il suo capitano al Giro. Anche per lui, almeno sulla carta, si prospetta un 2021 nel quale lo vedremo ancora lavorare per il capitano designato. Gli potrebbe venire incontro la condizione di quest’ultimo, ovvero Evenepoel. Qualora il belga non dovesse dare grandi garanzie di forma dopo l’incidente del Lombardia 2020, e Almeida fosse confermato verso il Tour, magari al corridore italiano della Deceuninck-Quick Step potrebbero toccare davvero i galloni del capitano. Attendiamo curiosi.
A conferma della tesi esposta poco sopra prendiamo in esame la parabola di Nibali: il siciliano dopo anni di apprendistato in maglia Liquigas – attenzione: apprendistato non gregariato – sulle orme di Ivan Basso, è cresciuto progredendo stagione dopo stagione andando a conquistare poi i successi che tutti conosciamo. Certo, quando parliamo di Nibali, parliamo di un grande talento, ma quello da solo, se non coltivato, non basta. Il passaggio da talento a campione passa da tanti piccoli fattori che condizionano la carriera di un corridore. Per lui questi fattori sono stati, oltre alla classe, anche la fortuna di trovarsi al posto giusto nel momento giusto e la bravura di essersi messo in proprio giocandosi le sue chance. E ha funzionato alla grande.
Il caso di Pozzovivo poi, in proporzione al talento, non è così diverso. Il lucano, passato tardi nel World Tour, dopo una lunga militanza con le squadre dei Reverberi, ha (quasi sempre) potuto giocarsi le sue carte e così facendo, dal 2007 al 2020, esclusi i ritiri, solo una volta è uscito dai primi 20 della classifica di una grande corsa a tappe, ottenendo risultati di prestigio e con una certa continuità: sei top ten, tra cui due quinti e due sesti posti tra Giro e Vuelta. E difatti nel decennio appena alle nostre spalle è di sicuro stato il corridore più costante dopo Nibali, anche se gli è sempre mancato l’acuto necessario o quel podio che ne avrebbe coronato la carriera.
Non solo uomini-squadra
Non può mancare Davide Formolo in questo elenco. Il classe ’92 della provincia di Verona dopo essersi testato diverse stagioni come uomo di classifica ha capito che il suo meglio lo potrebbe dare nelle corse di un giorno impegnative – un campionato italiano vinto e un podio alla Liegi e alla Strade Bianche non mentono, così come le cavalcate trionfali in una tappa del Giro del Delfinato 2020 e in una della Volta a Catalunya 2019.
Jonathan Vaughters nel 2015, a inizio stagione si sbilanciò: «Davide Formolo vincerà sicuramente un Giro d’Italia» disse alla Gazzetta dello Sport. E quelle aspettative sono diventate un po’ la croce della narrazione attorno al corridore. Quell’anno Formolo vinse una tappa al suo esordio al Giro con quello che, secondo noi, è il suo vero marchio di fabbrica, la fuga da lontano su percorsi misti. Ha grinta, tempismo, tiene bene in salita e quando lanciato all’attacco sa far valere un motore di livello: tutte caratteristiche ideali per trasformarsi definitivamente in un corridore capace di togliersi quelle due tre grosse soddisfazioni a stagione, piuttosto che navigare a vista per un ottavo, decimo posto nella classifica generale di un Grande Giro. Fino a oggi a Formolo, che ha tuttavia ottenuto alcuni piazzamenti in classifica tra Giro e Vuelta, ma senza acuti, è sempre mancato quel salto di qualità in una corsa a tappe di tre settimane, a causa magari di una giornata storta dove perdeva tempo in classifica, oppure a prestazioni a cronometro non in linea con i più forti. Tutto questo con buon pace della profezia di Vaughters.
Su Fabio Aru, invece, superfluo spendere più parole di quelle che si leggono in giro ed è doveroso quindi ampliare il discorso che lo riguarda a tutta la sua generazione di corridori. Quelli nati tra il 1989 e il 1991 – con l’eccezione di Roglič e in attesa di capire Quintana – che sembrano stati spazzati via dal nuovo che avanza. Aru, come Pinot, Bardet, Barguil, Chaves, mettiamoci dentro il Dumoulin delle ultime stagioni, Landa, corridori con un ottimo palmarès, ma che per un motivo o per l’altro si guarderanno indietro un giorno con l’impressione di essere stati quasi degli incompiuti. Certo è che il sardo tra 2014 e 2017 fu capace di risultati di enorme prestigio: vince la Vuelta 2015, due podi al Giro (2° nel 2015 e 3° nel 2014), un 5° posto sempre alla Vuelta (2014), un 5° posto al Tour (2017), con tanto di vittoria di tappa e maglia gialla indossata, mentre nel 2016 sempre in Francia, saltò per aria il penultimo giorno di corsa mentre si trovava sesto in classifica a poco più di un minuto e mezzo dal podio di Quintana. Sembra passata un’epoca per noi, figuriamoci per lui che ancora annaspa alla ricerca di un se stesso in bicicletta che forse mai più ritornerà.
Giulio Ciccone è il più giovane tra i corridori sin qui nominati (è un dicembre ’94): chi scrive stravede per l’abruzzese ma giudica il tentativo di puntare su di lui per le corse a tappe al momento azzardato. A costo di prendere una grossa cantonata: Ciccone dovrebbe confrontarsi con i migliori corridori nelle corse di un giorno impegnative – tagliatissimo per certi percorsi come il Lombardia, il trittico delle Ardenne, ma anche diverse semi classiche del calendario – e abbandonare le velleità di alta classifica.
Potrebbe prendere le misure nelle brevi corse a tappe provando fughe e vittorie parziali, e poi nei Grandi Giri essere libero di esprimere l’indole battagliera senza restare ingessato per un piazzamento da primi dieci posti, ma non da podio. Felici di essere smentiti: ma a ora non riusciamo a immaginarci Ciccone capace di lottare per una vittoria (o un podio) al Giro o alla Vuelta, figuriamoci al Tour. Eventualmente ne avremo la contro prova al Giro di quest’anno. La concorrenza è spietata, il livello nelle ultime stagioni si è alzato notevolmente e Ciccone appare un gradino sotto rispetto a corridori come Bernal, Pogačar, Roglič, Carapaz, Mas, persino paradossalmente a un Evenepoel che un Grande Giro non lo ha mai corso, ma anche ai vari López, Thomas, Sivakov, Geoghegan Hart, Landa.
Infine si potrebbe inserire in questa lista anche Mattia Cattaneo per il quale però vale un discorso differente da tutti gli altri. È l’ultimo vincitore italiano del Giro Under 23, passò subito nel World Tour in maglia Lampre ma più che le caratteristiche, le opportunità o i ruoli in squadra a frenarne l’ascesa è stata tutta una serie di problemi fisici. Dopo l’ottimo ultimo anno in maglia Androni (2019), Cattaneo si è guadagnato un contratto con la Quick Step provando, dopo un anno complicato dall’ennesimo infortunio, a fare classifica alla Vuelta. Ha chiuso al diciassettesimo posto, migliore degli italiani, sfiorando un paio di volte il successo di tappa. Difficile, però, oggi, a trent’anni già compiuti, immaginarlo in un ruolo differente dal gregario – seppur di lusso.
I motivi della crisi
Ma non si parla solo di numeri o di nomi. Detto di come influenzino negativamente i risultati i ruoli in squadra e la scarsa abitudine a lottare con l’eccellenza nelle fasi importanti, un’altra causa è che, banale a dirsi, si vive un momento storico sfavorevole. Un momento in cui, dopo Nibali, manca un campione assoluto – e sottolineiamo campione, non talento – capace di tenere testa ai migliori. Un momento in cui il movimento ciclistico italiano non è riuscito a dare alla luce uomini da grandi corse a tappe in grado di scontrarsi con tutta una generazione di corridori stranieri.
La forte concorrenza nei Grandi Giri che arriva dagli paesi stranieri è un altro fattore: non sono più le solite tre, quattro nazioni a dominare il ciclismo. E difatti, ma non è questa la sede giusta per parlarne, non è che altre nazioni “storiche” come Francia e Belgio se la passino meglio rispetto a noi, anzi. Anche se, soprattutto dal Belgio, stanno arrivando talenti che prima o poi saranno capaci di sfatare alcuni tra i tabù più lunghi della storia del ciclismo – il loro ultimo Grande Giro vinto risale al 1978. Sono tornati gli olandesi e arrivano in vetta con costanza inglesi e australiani, sloveni, colombiani ed ecuadoriani, tutte nazioni che dicono la loro nel nuovo assetto geopolitico mondiale e dove l’Italia mostra carenze a livello strutturale, con le proprie metodologie di crescita e di avvicinamento al mondo dei professionisti che evidentemente non funzionano più così bene come un tempo. Un po’ come se fossimo rimasti a guardare gli altri crescere cullandoci nella tradizione, convinti che bastasse per fare risultato.
C’è poi una questione che potremmo definire generazionale: i corridori passati negli ultimi anni nella massima categoria, lo hanno fatto dopo aver disputato poche o quasi nessuna corsa a tappe nelle serie giovanili. Questo pone un margine di svantaggio soprattutto nel confronto con i loro coetanei; si effettua il grande salto senza aver mai sviluppato né testato quelle caratteristiche fondamentali per imporsi nell’esercizio delle tre settimane: fondo, resistenza e recupero. E spesso quando ci si ritrova a lottare contro i pari età si prendono sonore sberle.
Nelle ultime stagioni, però, la tendenza si sta invertendo grazie ad alcune squadre dilettantistiche o Under 23 che stanno intensificando la loro attività all’estero in aggiunta al rilancio o alla nascita di corse a tappe nostrane. I frutti non si vedono ora, li vedremo semmai fra qualche stagione.
Davide Cassani, su Cyclingpro, spiegava a fine Giro 2020: «Io credo che, il non avere un dopo Nibali, non è un problema nato oggi, ma le conseguenze di un qualcosa che è mancato anni fa. Mi spiego: dal 2012 al 2016 in Italia, la categoria Under 23 aveva in calendario una sola corsa a tappe, il Val d’Aosta. Il Giro d’Italia giovani ed altre gare a tappe erano sparite. Cosa vuol dire? Che le nostre squadre dilettantistiche, ottimamente organizzate ma in grado solo di gareggiare in Italia, avevano a disposizione un calendario non all’altezza e questo ha abbassato il livello della categoria. Mentre nel resto del mondo i ragazzi correvano a destra e a manca facendo esperienze fondamentali alla loro crescita, noi ci siamo chiusi a correre in Italia. Ma se negli anni ’90 avevamo 7/8 corse a tappe che tenevano alto il nostro livello, in seguito sono sparite ed il nostro movimento ne ha subito le conseguenze. Credo che, anche per questo motivo, non abbiamo, per il momento, il dopo Nibali perché non siamo riusciti a preparare nel modo giusto i nostri giovani nel passaggio al professionismo. E abbiamo perso una generazione di scalatori».
Per diversi anni in Italia difatti era sparito persino il Giro dei dilettanti (con tutte le sue denominazioni e formule, Giro Bio, Giro Under 23, ecc.) fondamentale vetrina di talenti per i giovani azzurri che riuscivano così a misurarsi con i coetanei più forti. Da quando è stato riportato in auge (2017), nessun italiano ha vinto la classifica finale e solo lo scorso anno, con il terzo posto di Colleoni, un corridore di casa è riuscito nuovamente a salire sul podio dopo otto anni – l’ultimo Aru, secondo nel 2012.
Un problema di World Tour
Ci sono poi problemi legati alla mancanza di sponsor e di investimenti che hanno portato all’uscita totale dal World Tour delle squadre italiane. Non è un caso che gli ultimi vincitori di un Giro d’Italia o lo hanno fatto in Liquigas oppure sono cresciuti lì. La Liquigas possedeva una struttura e una filosofia ideale, che ha permesso a un corridore come Nibali di maturare per gradi, senza pressioni esagerate legate al tutto e subito, con un programma da seguire, un contratto a lunga durata e senza il rischio di bruciarsi come spiegato benissimo in questa intervista dall’ex Team Manager Roberto Amadio. Un Nibali cresciuto oltretutto attorno a un capitano di spessore come Basso dal quale ha potuto carpire i segreti del mestiere. La stessa Lampre, l’ultima World Tour italiana, ha visto la parabola completa di un certo Cunego, uno dei più grandi talenti del nostro ciclismo degli anni duemila. L’uscita di scena di queste due squadre è stato un danno che tutt’oggi stiamo ancora pagando.
Si tende a pensare che la mancanza di squadre World Tour sia solo la punta dell’iceberg delle difficoltà del nostro ciclismo, mentre in realtà è proprio da qui che a cascata derivano tutti i problemi. L’assenza di World Tour italiane significa meno corridori italiani che passano nel mondo dei professionisti, ma anche meno attenzione ai corridori italiani, meno ragazzi che hanno la possibilità di misurarsi e di fare del ciclismo un mestiere vero e proprio – non tutti riescono a navigare sino a 27/28 anni tra i dilettanti con un rimborso spese o con i premi gara – significa un effetto domino che porta all’abbandono precoce dell’attività, significa, come fa l’ Uroboro, innescare un processo dove senza un corridore italiano di vertice non si riesce a vendere il prodotto ciclismo e di conseguenza non si raccolgono grandi investimenti. Significa che il ciclismo non viene nemmeno più preso in considerazione come lavoro per il futuro.
Per Giorgio Furlan, attuale tecnico della General Store, squadra Under 23, «Oramai mancano corridori di valore perché il bacino da cui attingere è sempre più in diminuzione, ci sono tante corse in realtà, ma non bastano quelle. In Veneto abbiamo centocinquanta junior: siamo ai minimi storici». Mentre Christian Murro, ex corridore e ora organizzatore del Giro del Friuli dilettanti aggiunge: «Il problema è che gli allievi sono trecento: dove finisce quella metà? Dobbiamo capire perché tutti questi ragazzi smettono».
E poi, come accennavamo, manca un talento di livello assoluto, che deve ancora nascere o non lo abbiamo ancora visto arrivare (e a Ganna per il momento lasciamo fare benissimo quello che sa fare), oppure bisogna coltivarlo fra i tanti nomi interessanti e trasformarlo in campione. Perché bisogna avere la capacità, la pazienza, i mezzi per prendere questi talenti, costruirli e farli crescere. Bisogna dare loro la possibilità di esprimersi e misurarsi con i pari età stranieri.
Certo è che diminuiscono i praticanti, che meno ragazzi vanno in bici e meno si iscriveranno a una società ciclistica. E meno ragazzi che praticano significa meno possibilità di attingere a un bacino dal quale possa emergere un futuro talento. Il giornalista inglese Herbie Sykes in un recente articolo sulla crisi del ciclismo italiano nei Grandi Giri, apparso sul magazine Pro Cycling, riporta alcuni dati che fanno capire qual è la situazione nel nostro paese. «Nel 2019, l’anno in cui British Cycling ha raggiunto 150.000 iscritti, la sua controparte italiana ne aveva 103.124. Di questi, 31.000 hanno affermato di essere giudici di corsa e organizzatori, e circa 41.000 gareggiavano tra gli amatori. L’Italia ha perso il 12% dei suoi corridori competitivi in tre anni, e due terzi del suo gruppo professionistico dal 1999». Sykes si riferisce al 1999, precisamente ai fatti di Madonna di Campiglio al Giro, perché per lui sono un po’ il grande spartiacque della parabola del nostro ciclismo. «La caduta in disgrazia di Pantani provocò un esodo di capitali, corse e interessi» scrive. Uno scotto che paghiamo ancora oggi.
Non è solo un fattore agonistico
Ci sarebbe da analizzare l’esasperazione delle categorie giovanili, ma questo, oltre a coinvolgere tutto il mondo del ciclismo e non nello specifico solo quello italiano, è un argomento che tratteremo un’altra volta. Scavando più a fondo nei concetti, invece, e ribaltando la prospettiva, per Silvio Martinello il problema sta alle fondamenta, nell’educazione e nella cultura. «Alla mancanza di sicurezza che sta minando alla base il movimento» afferma in una recente intervista apparsa su www.bikeitalia.it l’ex campione olimpico su pista. «È un tema centrale: il ciclismo su strada sta attraversando un momento di crisi epocale per via della mancanza di sicurezza sulle strade. Basta guardare le corse giovanili dove il 90% dei partecipanti provengono da famiglie in cui si parla già la lingua del ciclismo, non si riesce più ad intercettare nessuno di nuovo. Più ciclisti per strada significa più sicurezza per tutti e un bacino di utenza più ampio che aumenterà anche la quantità e la qualità degli agonisti. È un concatenamento di fattori che abbiamo già visto altrove in Europa, in Germania o in Gran Bretagna per esempio, dove si è agito sulla sicurezza con determinazione e questo ha comportato anche un miglioramento dei risultati sportivi». Chi di voi, appassionato di ciclismo, manderebbe a cuor leggero il proprio figlio per strada a praticare questo sport? Urge in questo senso un intervento forte da parte delle istituzioni. E a proposito di basi: allargando il dibattito per un secondo, l’impressione è che in Italia lo sport non sia più al centro del discorso. non sia più un fattore di importanza culturale, né politica, né educativa. Magari ci si fa belli quando si contano le medaglie – finché dura – grazie a tecnici preparatissimi, come lo sono quelli del ciclismo, ma è un modo per continuare a nascondere i problemi. A scuola si parla quasi niente di sport, della sua storia e delle sue capacità educative come fosse argomento frivolo e di poco conto, ma soprattutto lo si insegna poco e male, come riportato da questo dettagliato dossier di Maurizio Mondoni.
Che futuro?
Torniamo, per concludere, al lato strettamente agonistico della faccenda. Siamo arrivati a un evidente cambio generazionale. La storia vive di cicli – mai immagine fu più appropriata – e chissà che in questi anni, come successe proprio a fine anni ’80, non possa esserci un passaggio di consegne. Il dopo Moser-Saronni ha visto la velocissime parabola di Visentini e Chioccoli, ma poi ha conosciuto Bugno, Chiappucci, Pantani, Gotti: non servono presentazioni per i nomi citati. Ci sono stati Simoni, Savoldelli, Basso e poi Nibali (e Aru, anche lui protagonista di una parabola intensa quanto rapida). E ora si guarda al futuro per capire chi possa raccogliere l’eredità.
È un contesto liquido: le difficoltà della generazione di quei corridori che adesso hanno dai 25 ai 32 anni circa, potrebbero non essere più le difficoltà di quei corridori arrivati nelle ultime stagioni o che devono arrivare. Grazie al cambio di filosofia di diverse squadre giovanili i volti nuovi del ciclismo italiano sembrano pronti a raccogliere il testimone.
Fra i più interessanti ecco Aleotti, Colleoni, Fancellu, Piccolo e Tiberi. Aleotti è quello che negli ultimi anni da Under 23 ha ottenuto i risultati più incoraggianti. Il secondo posto al Tour de l’Avenir nel 2019, al cospetto del meglio in gara nel panorama internazionale, è una base importante da cui partire, per un corridore che ci viene dipinto dai suoi tecnici non solo come uno dal gran motore, ma come uno con la testa fatta per primeggiare.
Colleoni è stato il migliore italiano all’ultimo Giro Under 23 e, come Aleotti, ha da subito la possibilità di cimentarsi nel World Tour con una squadra importante – Aleotti nella BORA-hansgrohe, Colleoni nel Team BikeExchange. E poi ancora Fancellu, scalatore della EOLO-Kometa, che secondo il suo Team Manager Basso ha tutte le qualità per emergere persino come fuoriclasse del ciclismo.
Tiberi e Piccolo, rispettivamente con Trek-Segafredo e Astana da questo 2021, hanno qualità importanti, ma andranno anche loro fatti crescere con grande calma e per gradi, anche perché, a conti fatti, non hanno ottenuto risultati di rilievo tra gli Under 23 nelle corse a tappe. C’è poi Conca, il quale però sembra, parole sue, voler raccogliere il testimone delle fughe vincenti da De Gendt, nonostante tra 2019 e 2020 abbia ottenuto risultati importanti nella categoria Under 23 in alcune corse a tappe di prestigio. Tra quelli che già stanno correndo tra i professionisti almeno dall’anno scorso, vanno seguiti Bagioli (Andrea) e Covi, che però, nonostante i risultati tra gli Under nelle prove a tappe, sembrano decisamente più tagliati per le corse di un giorno, mentre Conci e Fabbro, dopo qualche stagione di apprendistato, devono ancora dimostrare tutto nei Grandi Giri. Anche se per loro potrebbe valere quel discorso di crescita graduale di cui si parlava prima. D’altra parte, come dice il detto colombiano: non tutte le arance maturano allo stesso tempo.
Certo, per questi corridori lo scontro sarà duro e da essere un buon prospetto a diventare un vincitore del Giro d’Italia ce ne passa. Oltretutto stiamo vivendo uno dei momenti più floridi a livello di competitività nelle corse a tappe. Il livello è altissimo. I corridori appartenenti alla stessa generazione dei giovani italiani menzionati sono Bernal o Pogačar, che hanno già vinto un Tour, oppure Mas o Gaudu che hanno già dato segno di poter lottare al vertice, senza dimenticare Geoghegan Hart o Hindley, primo e secondo al Giro 2020. La strada da fare è ancora molto lunga, probabilmente passeranno anni di risultati ancora peggiori rispetto al 2020. Ma il futuro non possiamo che guardarlo con gli occhi pieni di fiducia.
Foto in evidenza: Gio Auletta / Pentaphoto