Rossella Ratto è Tetè. Lo è sin da quel pomeriggio di luglio di alcuni anni fa quando, ancora bambina, sedeva sul divano con i fratelli Daniele ed Enrico e guardava stupita una tappa alpina del Tour de France: «C’erano delle scritte sul teleschermo. Io non riuscivo a leggerle, così chiesi a mio fratello. La scritta era “tête de la course”, testa della corsa, ma lui, ancora troppo piccolo, mi lesse “tetè”. Continuammo a ripetere quel suono così affascinante fino a che non divenne una sorta di soprannome. Tetè da quel giorno sono io». Della bicicletta Rossella si era innamorata pochi anni prima, durante un viaggio tra Sardegna e Corsica, quando i suoi genitori scelsero di stare per qualche periodo senza macchina. Il ciclismo all’inizio era una scusa, un modo per stare assieme, per stare in famiglia e passare la domenica a ridere a crepapelle.
Quando parliamo di Daniele ed Enrico, la voce di Rossella Ratto sembra carezzare i ricordi: «Sai cosa penso? Credo che le emozioni che abbiamo condiviso siano difficili da raccontare, da spiegare. Sono dentro di me e mi danno una carica inspiegabile. Ci allenavamo assieme: fingevamo di essere ciclisti professionisti e alla fine di ogni giornata stilavamo una classifica con premi. Per rendere la corsa più veritiera, a volte, mi lasciavano anche qualche secondo di vantaggio. Ogni tanto mi mancano quei momenti». Rossella Ratto racconta che la competitività è sempre stata parte di lei ma è riuscita a tirarla fuori proprio grazie ai fratelli: «Ogni tanto, scherzando, da bambini, mi dicevano: tu sei una femmina e non ci riesci. E io, pur di dimostrare che ero capace mi sfinivo. Ancora oggi sono così. Se voglio ottenere qualcosa non mi ferma nessuno. A tratti ho anche dovuto controllare questa competitività: stava invadendo ogni campo della mia vita e, se si esagera, non fa per nulla bene».
Se ripensa al bronzo ai mondiali 2013 in Toscana ammette che, a volte, non le sembra ancora vero. «Tutte le aspettative che c’erano nei miei confronti e che all’inizio mi davano una forte carica, dopo quel giorno mi hanno pesato. In quei momenti, per problematiche fisiche, non riuscivo a essere all’altezza delle attese. Mi sembrava anche di avvertire mancanza di fiducia da parte di persone che avrei voluto credessero in me. Lo ho capito dopo. Col tempo». I suoi miti ciclistici da ragazzina erano Paolo Bettini e Michael Boogerd, ora stima Marianne Vos, sia come donna che come atleta, ma ammette di non avere più idoli: «Non c’è nulla di male. Quando si cresce, credo venga meno questa necessità di mitizzare. Gli sportivi sono uomini e come tali hanno pregi, difetti ed anche debolezze. Forse dovremmo apprezzarli proprio per questo, senza mitizzarli o trasformarli in supereroi».
Foto: Claudio Bergamaschi