«Sono nato a Montelupo Fiorentino, il paese di Franco Bitossi». Donato Pucciarelli, meccanico dell’Androni Giocattoli Sidermec, racconta così la sua toscanità, il suo essere “fumino”, quell’accendersi per un nulla. «Fino a diciotto anni non sapevo nemmeno cosa fosse il ciclismo, poi ho iniziato a pedalare, ma erano i tempi di Battaglin, Moser, Baronchelli, era dura vincere». Sono passati gli anni, ma Pucciarelli sente come fossero ora le difficoltà di quei tempi. «Erano anni duri. Mio fratello aveva una bottega di biciclette e vi lavorava come meccanico, non c’era tanto tempo da perdere. La mia era una famiglia contadina e bisognava guadagnarsi la pagnotta. Dovevo pensare a lavorare, non potevo portare la bicicletta in giro per il mondo. Mi allenavo quando finivo il mio turno e nonostante questo i miei risultati li ho ottenuti. Poi ho scelto di smettere, pensavo al mio lavoro e a farmi famiglia. Non ho rimpianti sebbene chissà, se fossi diventato ciclista, cosa sarebbe successo».
Poi ci sono gli anni che passano e le cose che accadono. «Non ci pensavo più, quando una sera, nel 1988, passò da me Roberto Gargioli. Era stato ingaggiato dalla squadra di Gianni Savio, noi abitavamo vicini e a lui serviva un meccanico a pochi chilometri da casa». Cambia tutto nella vita di Pucciarelli. A partire dalla prima volta in cui si trova a dover preparare le biciclette degli atleti: «Accanto a me, c’era il meccanico di Pedro Delgado. Io non avevo ancora finito di preparare tutto il materiale, lui aveva già sistemato tutte le bici. Che frustrazione! Ma serve anche questo. La gavetta ti fa crescere umile». Ed è da quell’umiltà che Donato Pucciarelli ha tratto gli insegnamenti più importanti. «Con i corridori non bisogna mai discutere. Hanno già tante pressioni, ci mancherebbe solo le nostre. Il nostro compito è farli stare tranquilli. Io lo dico sempre: “Siamo tutti qui per lavorare, chiedete, parlate, non fatevi remore. Partirete più leggeri”.»
Così ha imparato a rispondere alle richieste più inconsuete, ad accontentare i ragazzi per tranquillizzarli. «Gilberto Simoni correva con sella storta e io gliela posizionavo così, limando l’archetto, perché lui si trovasse bene. Alcune volte i ragazzi vengono a chiederti di alzare il manubrio di un millimetro. Non lo percepiranno nemmeno, ma tu devi alzare quel manubrio perché psicologicamente per loro è importante. Attenzione, però, questo non deve diventare un alibi». Pucciarelli sta pensando ai corridori che dopo una sconfitta o un errore in gara, cercano una scusante nel mezzo meccanico e non si assumono le proprie responsabilità. «Non si divertono neanche più in bicicletta e tutti i problemi nascono da lì. Se non vi divertite, pur con tutta la fatica che si fa, non continuate. Fermatevi. Se vi rendete conto che non è il vostro ambito, non tirate a campare. Il ciclismo è una delle possibilità più belle, non imbruttitelo col vostro modo di fare. Lamentarsi fa male». Per contrasto pensa a Egan Bernal. «A lui andava sempre bene tutto, vedevi che era felice di fare questo lavoro. Non l’ho mai sentito lamentarsi una volta ed i risultati sono arrivati».
Il mondo dei meccanici è cambiato nel corso degli anni e Pucciarelli ha vissuto questa modificazione dall’interno. «Giancarlo Ferretti mi chiamava Tarzan perché in corsa facevo delle acrobazie tremende. Ho provato a cambiare il filo dei freni o la catena in ammiraglia. Non c’erano tutte le bici che abbiamo oggi e bisognava cavarsela. Se si rompeva un cerchio, la sera si prendevano i raggi e si faceva un cerchio nuovo, oggi si cambia la ruota. Non c’erano i rapporti di giusti per scalare il Mortirolo, così te li inventavi. Poi vincevi una tappa del Tour de Las Americas davanti ai grandi e ti scordavi persino delle notti insonni. Eravamo in pochi a lavorare sulle biciclette, non avevamo tutte le conoscenze dei giovani di oggi ma avevamo la pratica». Qui, Pucciarelli apre una parentesi. «Stare in giro per il mondo, a volte anche senza tutta l’attrezzatura necessaria, ci ha insegnato ad arrangiarci e a distinguere ciò che davvero è un problema da ciò che non lo è. Quante cose teoricamente sono in un modo ed in pratica sono all’opposto? Quando sei in viaggio, sballottato da un albergo all’altro, senza tempo, al caldo afoso della Francia o sotto un diluvio invernale, lo capisci e ti adatti».
Di tutti questi anni, Donato Pucciarelli avrebbe molti episodi da raccontare, per esempio di quando Gianni Savio lo affiancava mentre preparava le biciclette: «Mi veniva vicino e mi chiedeva di spiegargli cosa stavo facendo, che rapporti usavo o cos’era quello strumento che avevo in mano. Poi precisava: “Sai, se i ragazzi me lo chiedono devo saperlo”. Su un aneddoto, però, si ferma diversi secondi. «Non ricordo che anno fosse. Eravamo al Giro d’Italia e Massimo Ghirotto perse una tappa da Claudio Chiappucci. Arrivò stremato, mi si avvicinò e mi disse solo: “Puccio, non ce l’ho fatta. Non ce l’ho fatta”. Andò via. Quegli occhi li rivedo ancora».
Foto: Luigi Sestili