Il porto di Anversa si presenta come ogni… porto. Container colorati come piccoli mattoncini lego, luci azzurrognole sfumate all’orizzonte come fuochi fatui, enormi gru, sirene che segnano il cambio del turno e cicalii che evidenziano il movimento di grossi tir. Una litania di omini in arancione e casco giallo segnalano, sventagliano, dirigono, controllano: il porto di Anversa si presenta come ogni porto.
La sua importanza però è superiore a quella di “ogni porto”. Ad esempio la sua estensione, che supera di gran lunga quella della città di Anversa – circa quattrocentotrenta chilometri di strada, quasi duecento di moli, oltre un migliaio di linee ferroviarie – non è quella di “ogni porto”. Ne ha fatta di strada, se così si può dire, quel piccolo insediamento sul fiume Schelda da quando «nel 1803, l’imperatore Napoleone compì la sua prima visita in città e dette il via a importanti lavori in vista della costruzione di due moli». Oggi è il secondo porto in Europa come volume di traffico.
E tutto intorno strade di sabbia, ciottoli e asfalto che tagliano in ogni maniera il polder, campi di grano che delimitano vie d’accesso, principali e secondarie. Lì, da un po’ di anni, si corre la Antwerp Port Epic. Esaltazione dell’umana concezione dello spirito agonistico: fango e polvere come nella migliore delle tradizioni. Il vento, poi, soffia in faccia in modo così violento che devi essere per forza un belga o un olandese per farti piacere questa corsa.
E quando sei belga e ciclocrossista, qualche vantaggio ce l’hai. Gianni Vermeersch ha vinto l’ultima edizione dopo aver fatto gara d’attacco «perché è l’unica tattica che ti puoi permettere in corse di questo genere».
Meglio stare davanti che dietro, meglio aprirsi un varco nella polvere che mangiare quella del tuo avversario e una volta tanto non in senso figurato come fosse un dialogo di Tex. Vermeersch di fango si è ricoperto a sufficienza nel ciclocross dove stringe un rapporto tale con van der Poel da aiutarlo come un fedele compagno in ogni corsa, da esaltarsi come quando l’olandese vinse l’Amstel Gold Race. «L’unica cosa che sentii quel giorno fu il frastuono nelle cuffie e allora capii che qualcosa di bello era successo».
Ed è belga anche Bert De Backer, quattordicesimo all’arrivo dell’Antwerp Port Epic e che a fine stagione potrebbe smettere di correre. Bert De Backer doveva fare il Tour e invece lo dirottano a nord: ventinove chilometri di pavé e trentanove di sterrato. Non che a uno come lui diano fastidio, d’altronde pare abbia scelto la Paris-Roubaix per abbandonare il ciclismo. «L’undicesimo posto nel velodromo di Roubaix è il risultato di cui vado più orgoglioso nella mia carriera. Sapevo che non avevo il talento dei leader ma quella volta mi resi conto che era inutile continuare a lamentarmi. Faccio il lavoro più bello del mondo e guadagno più di quello che avrei guadagnato con il diploma. È la mia corsa e so che potrei arrivare anche a giocarmela. Se mi ricordo come si vince? Mica tanto. L’ultima volta che ho alzato le mani dal manubrio stavo simulando una vittoria tornando da scuola in bici. Provai anche ad impennare e finii per terra con tutto lo zaino».
E lo sguardo di De Backer a fine corsa dice tutto. Esprime la durezza di una competizione che va a inserirsi nel contesto di un ciclismo che sceglie la via dell’antico per selezionare i gruppi, vendere spettacolo e marcare le differenze; sterrati anche all’interno di grandi giri, arrivi con paesaggi mozzafiato, corse come Strade Bianche o Tro-Bro Léon che fanno il giro del mondo, oppure le modifiche a un percorso tradizionale come quello della Paris-Tours che ora riscopre i sentieri per diventare ancora più attraente. Vecchio e nuovo mescolati per ridare aria a un ciclismo altrimenti spesso così monotono come una tappa di pianura con i suoi interminabili passaggi su strade che sembrano autostrade con le rotonde.
E Bert De Backer esprime stupore più che sofferenza. Ha lo sguardo di chi è passato in mezzo alle pannocchie, ha fatto tribolare i suoi muscoli per stare in piedi, ha bestemmiato quando ha forato. Uno sguardo che abbaglia quanto l’orizzonte affabulatore che si staglia da dietro la corsa. Piccoli ciclisti colorati e sullo sfondo, in mezzo alla polvere granulosa, enormi ciminiere, antenne, pale eoliche che sembrano appartenere a un vecchio Luna Park ormai dismesso.
Si parte e poi si arriva nella Het Eilandje, la “piccola isola”, a rendere ancora più forte la contraddizione. Quartiere di Anversa ricostruito come fosse la scena di un film patinato. Invece della polvere, mangi anguilla dello Schelda in salsa verde oppure sogliola e bistecche. Dalle cattedrali gotiche, come una piccola Gotham City disegnate dallo sfondo del porto vero e proprio, alla novità di una zona totalmente alla moda con magazzini ed ex mattatoi ricreati ad arte come una New York espressionista.
E intanto, lo sguardo di De Backer resta ugualmente pieno di polvere, più che smarrito ora è dubbioso, mai sofferente. Era lì per giocarsela, ma si fa riprendere a trecentocinquanta metri dall’arrivo. Per ogni corridore che arriva in fondo – quel giorno solo in quarantatré – queste corse sono sempre una scoperta.