Valeria Curnis fa partire un vocale, sono minuti e minuti, a parlare è Giovanni Fidanza, suo direttore sportivo alla Isolmant-Premac-Vittoria, appoggia il telefono sul tavolo, prende un foglio, una penna e si appunta i dettagli salienti. Poco prima, il suo messaggio a Fidanza, alla vigilia di una cronoscalata: «Come mi regolo con l’alimentazione?». Fidanza parla, Curnis scrive. Altre volte, in allenamento, Giovanni Fidanza, in bicicletta, le dice: «Devi fare così in gara, cattiva ti vogliamo». Lei ascolta, lui le «entra sulla ruota e sgomita», poi, mentre Curnis perde l’equilibrio, lui la riprende per il taschino e ripete: «Proprio così». Accade quando si cambia rotta e si riparte.
Valeria Curnis, fino a qualche anno fa, sciava, cercava le montagne e la neve: «Non riuscirei a vivere in un posto in cui non si vedano i monti, è questo il punto. In un modo o nell’altro, ho bisogno di vederli e di andarci. Di scivolare sulla neve, in discesa, di alzarmi sui pedali di una bicicletta, in salita. Ma le montagne sono un punto fermo, qualcosa che, nella mia vita, orienta anche tutto il resto». Già, la bicicletta, che oggi è al centro, ma solo fino a qualche anno fa era una parte del tutto. Un mezzo che non conosceva, che utilizzava affidandosi all’istinto, al desiderio di un momento, talvolta ad uno sfogo. Poteva essere una vecchia Graziella oppure la Fisher con cui, da casa dei nonni, andava a scalare il Selvino, a freddo, senza alcuna preparazione. Un casco giallo, una vecchia maglia gialla, troppo grande per lei, del Tour de France e via che si va. «Credo fossi la ciclista più imbarazzante di tutta la Lombardia. Anzi, ne sono certa». Valeria Curnis ride a più non posso, si prende in giro, prende fiato e, ridendo, racconta: «Anche oggi, che corro in bicicletta, faccio cose strane per una ciclista. Sono in divisa ore prima della partenza, talvolta anche con i guantini, ma quelli si tolgono in fretta, per fortuna. Mi lego i capelli, mentre tutte le cicliste usano una fascetta. Forse dovrei acquistarla pure io, eppure, non so perché, ma ho la sensazione che non lo farò».
Quando le chiediamo se questo essere “nuova” non le abbia mai creato difficoltà, Valeria Curnis risponde certa di no, poi aggiunge: «Non mi manca la fiducia nei miei mezzi, quando ho fatto questa scelta, quella di diventare ciclista, credevo che potesse derivarne qualcosa di buono e lo penso sempre più, ma, nei primi tempi, temevo di sbagliare. O meglio, sapevo di poter sbagliare però mi sembrava che un mio errore, proprio perché “nuova”, sarebbe pesato di più sulla bilancia. Adesso rido delle piccole stranezze che ho descritto e, poi, fanno sorridere anche la squadra, non sono inutili». Torna seria ed è seria in quest’ultima considerazione che la porta dritta a quando ha lasciato lo sci, per un insieme di cose, soprattutto per la mancanza di soddisfazione che ormai si era impossessata di quel tempo sulla neve.
In quei giorni, suo padre, appassionato da sempre di ciclismo, autore di una tesi sul telaio, le regala una Pinarello in carbonio, bella, sicuramente più adatta per le sue sgambate. Racconta Curnis che suo padre aveva capito bene che il suo mondo avrebbe perso l’equilibrio senza uno sport da praticare, così è arrivata quella bicicletta e sono iniziate le prime Gran Fondo, in cui la fatica la fa da padrona, ma la sensazione è la stessa di quando andava via in bicicletta dopo una giornata storta a scuola, cercando una soluzione. «Allo sci sono tornata tempo dopo e ho avuto il timore di essermi dimenticata come si facesse, invece una volta sulla neve sono scivolata sugli sci come sempre. Ho voluto diventare maestra di sci e, sostenendo i test, temevo di non riuscire a fare i tempi giusti. No, era rimasto tutto come prima, meglio di prima, forse. Ora il ciclismo mi prende le giornate e non posso praticare, ma sono maestra di sci, lo sono diventata, e questo non me lo porta via nessuno».
In sella porta la genuinità delle novità, la capacità di vedere i dettagli, tutte le cose che per le altre atlete sono ovvie e per lei sono speciali. Prendete quel giorno a Romanengo, dopo la cronometro in cui arrivò settima, «i tempi delle prime due erano imbattibili, con le altre, tuttavia, me la sono giocata”: Valeria Curnis era già contenta. Una sua collega le si è avvicinata: “Sei andata a ritirare il premio? Guarda che devi andarci tu”. Non se lo aspettava, non ci pensava nemmeno: “Quella busta l’ho ancora intatta a casa e resterà così. Uno dei giorni in cui mi sono sentita più fiera di me». Sì, perché dall’essere contenta, al ritorno, dopo la cronometro, Valeria Curnis era proprio felice.
Felice era anche a Roma, il 25 aprile, al Gp Liberazione, dopo il Covid, dopo un periodo difficile, pur in una gara non adatta alle sue caratteristiche, con continui rilanci e cambi di velocità, mentre suo padre alla partenza le diceva: «Mi sembri un gladiatore». Anche quando si è ritirata, era felice perché sapeva che, accanto al Colosseo, era tornata. Pure a Siena, nel giorno della Strade Bianche, Valeria ha provato qualcosa di unico: «Lo giuro, mi sentivo morire. Da quando ho iniziato a correre in bicicletta ho sentito spesso come se morissi, per la fatica che attanaglia. Eppure proseguivo, continuavo a pedalare. Non voglio farmi fermare da nessuno, lo dico e lo ripeto». Emotiva, ma capace di contenere quella emotività, «come dice Fidanza, serve un interruttore mentale: tranquilli prima della gara, perché tutta l’energia va scaricata in corsa con uno sforzo così lungo». Alle prime gare le capitava di avere 160 battiti al minuto prima della partenza; «fortuna che si partiva in leggera discesa, sennò chissà il fuori soglia». Incredula di fronte alle grandi campionesse delle due ruote, però capace di farsi rispettare, di non mollare la ruota su cui è: «Il rispetto è un conto, ma se ti fai intimidire è finita, devi fare quel che sei capace di fare, quel che fanno tutte in gruppo. Bisogna essere toste». Molti desideri nella sua testa, uno in particolare: «Servirebbero più gare internazionali per le donne, la crescita passa anche da lì. Vorrei se ne parlasse di più».
Si è abituata ai sacrifici del ciclismo, che sono più grandi che nello sci. Nel ciclismo, spiega Curnis, conta davvero tutto: un’ora di sonno in più o in meno, un pasto, una bevanda, un’uscita, l’atleta è anche l’insieme di tutte queste cose, di quelle che fa e di quelle a cui è capace di rinunciare. «Credo non mi abituerò mai completamente al riso e al pollo a pasto, ma sono sicura che continuerò a mangiarlo e, giorno dopo giorno, mi diventerà sempre più familiare. Sai perché? In parte per la ripetizione del gesto, in parte perché anche il riso ed il pollo mi permettono di essere una ciclista».
Essere una ciclista ovvero stare in gruppo, fare fatica, magari per la squadra, perché fatta per altri ha un valore maggiore, un significato in più, come osserva, soprattutto stare in gruppo e tenere le posizioni, capire come si muove il gruppo. Giovanni Fidanza glielo ha spiegato così, un giorno in cui Curnis voleva saperne di più: «Immaginalo come il mare con le onde. Non devi guardare solo la ruota davanti a te, piuttosto è opportuno capire i moti generali del mare, le sue onde. Per questo bisogna vedere molto avanti, poi, puoi decidere anche i tuoi movimenti». Valeria Curnis ci ha pensato e le è sembrata una definizione azzeccatissima. Valeria Curnis lo ha fatto e quelle onde sono diventate un’abitudine. Una gran bella abitudine.
Foto: per gentile concessione di Valeria Curnis
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