Coincidenze

Quando tempo fa gli chiesero quale fosse il suo sogno, Nils Politt, corridore di mestiere, corazziere di conformazione, rispose, deciso: vincere la Roubaix o il Fiandre. Quando arrivò a un passo dal realizzarlo quel sogno, Parigi-Roubaix 2019, si diede del pazzo. «Se mi avessero detto una cosa del genere...». Philippe Gilbert, che lo superò nel velodromo, precisò: «Meritavamo di vincerla entrambi».

Se di lavoro fa il corridore, Politt è un fiammingo per vocazione. Da ragazzo approfittava della vicinanza tra Hürth e il confine belga per testarsi, appassionarsi, innamorarsi delle classiche del Nord. Ed è lì che ce lo immaginiamo prima o poi a braccia alzate, con quel sorriso che spesso fa sbracare i commentatori che si lanciano in facili ironie, con quel suo unico modo che conosce di correre: attaccare da lontano, sconquassare, scombussolare.

Forse è un caso oppure no che oggi Politt, con quel cognome che ricorda l'essere educati, vada in fuga e vinca nel giorno del ritiro di Sagan, compagno di squadra; forse è un caso, oppure no, ma in quel gruppo in fuga, pieno di corridori di un certo tipo (fisicati, da Nord) e di un certo spessore (vedi Alaphilippe) c'è anche André Greipel.

Con Greipel, Politt divide la città di provenienza, di Greipel è stato compagno di squadra lo scorso anno, di Greipel non fa che parlare bene, su Greipel disse di avere spinto affinché continuasse a correre qualche altra stagione. Di Greipel è amico: «Ha vinto Nils?». Le prime parole del velocista tagliato il traguardo, e poi il sorriso.

Oggi quando Politt è partito se avesse potuto Greipel gli avrebbe dato una mano, avrebbe fatto un buco, ma era assente dalla fuga-nella-fuga. Ugualmente non c'è stato nulla per gli altri.
Ama il vento e la pioggia, Politt, e oggi di questi elementi c'è stato solo un assaggio. Non aveva mai vinto in tutta la sua vita fuori dalla Germania e vince al Tour, e vedere rimbombare il suo sorriso sul traguardo, ci ha scaldato. «Il ciclismo non è solo il mio mestiere, è anche la mia passione. Passiamo così tanto tempo lontani da casa che oggi è tutto per la mia famiglia». Che uno così avrebbe vinto prima o poi non ci pare solo una coincidenza.

Nessuno è come Wout van Aert

Torniamo un attimo a celebrare Wout van Aert. Serve anche qualche numero, poca poesia oggi, per attirare l'attenzione e dare ancora più forma alla statura di un corridore che si fa fatica a misurare.

13 le vittorie nel World Tour (su 23 totali) e indovinate un po'? Lo stesso numero realizzato dal suo rivale, Mathieu van der Poel. Destino pazzesco: il marcamento continua.

Quello che i numeri spiegano sono anche, o soprattutto, le caratteristiche di corridore a tutto tondo. Un'ampiezza di possibilità di marcare il territorio come, chi scrive, fatica a ricordare.

Al Tour ha vinto in volata tre volte (battendo Viviani, Ewan, Bennett, Sagan) e la quarta vince sul Ventoux staccando scalatori e campioni del mondo in carica. Lui che scalatore non è, col tricolore forse più significativo del gruppo: quello belga. Tricolore che svetta in salita per la prima volta da Merckx nel 1970: era stato infatti il Cannibale, prima di lui, l'ultimo a vincere una tappa di montagna al Tour in maglia di campione nazionale (fonte: GCN).

Il Belgio che, da secoli verrebbe da dire, cerca disperato uno scalatore, si ritrova a vincere la tappa più significativa del Tour con uno che scalatore non è. Che il giorno prima del Ventoux si piazzava in volata battuto al fotofinish da Cavendish.

Ma che corridore è, quindi, van Aert? Vince volate, vince al Nord (Gand-Wevelgem), sullo sterrato (Strade Bianche), vince classiche imprevedibili (Milano-Sanremo, Amstel). Ha vinto campionati nazionali, in linea e a cronometro, e sempre contro il tempo ha vinto prove di ogni genere. Fra qualche settimana punta pure all'oro olimpico. Quest'anno, se togliamo l'86° posto nella tappa di Tignes dell'altro giorno, il peggior risultato è un 25° posto.

Nel pomeriggio di ieri, chiacchierando con amici e colleghi, cercavamo un paragone. Un corridore che, negli ultimi trent'anni, ovvero da quando seguo e ho memoria del ciclismo, gli assomigliasse. Trovavo solo risposte vaghe, mozzicate, dubbi e perplessità. Il motivo è semplice: non c'è nessun corridore come lui. Nessuno assomiglia a van Aert, van Aert non assomiglia a nessuno. Ennesima rottura col recente passato di un ciclismo specializzato a priori. Ennesimo esempio da seguire. Ennesimo vantaggio per chi segue il ciclismo in questa età dell'oro.

Ah, avremmo potuto parlare del palmarès nel ciclocross o della sua caratteristica principale: la tenacia. Ma lo abbiamo dato per scontato.


Salvarsi dal Ventoux

Quando gli ultimi corridori iniziano ad arrivare sul Ventoux, le urla si trasformano in applausi, nel silenzio della terra che, spostata dall'elicottero delle riprese, si infila anche sotto il casco dei motociclisti. «I primi vanno incitati - ci spiega un signore - mentre gli ultimi vanno incoraggiati».

Resta la strada che quassù è matrigna: ti inganna con la bellezza del paesaggio e poi ti prende a schiaffi. Il traguardo fa lo stesso: lo vedi, è lì, ma non lo superi mai, sembra un miraggio. Raphaël Geminiani lo disse a Ferdi Kübler quando lo vide partire, quasi in preda a un'ossessione, sotto il caldo di quel pomeriggio di luglio del 1950. «Attenzione Ferdi, il Ventoux non è una montagna come le altre». E quello, assetato di successo: «Nemmeno Ferdi Kübler è come gli altri».

Venti chilometri dopo, lo trovarono agonizzante a bordo strada, il sudore ovunque, il respiro finito. Qualche anno più tardi, nel giorno del suo ritiro, disse: «Ferdi è vecchio, è stanco, ha male. Ferdi si è ucciso tanti anni fa. Il Ventoux lo ha ucciso». Non c'è pietà qui, la strada non ha pietà. Al massimo qualche ricordo, per Tommy Simpson, ad esempio. La figlia, Joanne Simpson, proprio ieri ha raccontato a “L'Equipe” che solo un ricordo si salva da questo dolore. «Quando tornava a casa dagli allenamenti, apriva il frigorifero, prendeva il latte e lo beveva dalla bottiglia. Tutte le volte che vedo una bottiglia di latte mi viene in mente».

Tutto quello che puoi sperare, puoi sperarlo dalla gente, dai tifosi forse. Che hanno portato decine di biciclette vicino all'osservatorio e si siedono accanto ai sacchi a pelo. «Tu es le même que toujours» grida una tifosa a Geraint Thomas che passa attardato e scuote la testa. «Sei lo stesso di sempre» che non è vero, non può essere vero, se uno come Thomas arriva con minuti di ritardo al primo passaggio sul monte calvo. Ma Virenque ha raccontato che, quando sentiva i tifosi urlare il suo nome in salita, aumentava di due denti il rapporto rispetto agli avversari, perché “è doveroso“. Magari Thomas ha fatto lo stesso o quanto meno l'intenzione della tifosa era quella e va bene così. A prescindere da verità o bugie.

Soprattutto, però, sul Ventoux ti salvi da solo, come su qualunque altra strada della vita. Wout van Aert ci è riuscito ieri e quando ha dovuto spiegarlo ai giornalisti è stato molto chiaro. «Se ci provi e ci riprovi, è sicuro che prima o poi ci riesci. Se, al primo ostacolo, ti fermi, è altrettanto certo che non ce la farai mai». Non perché tu non ne sia capace, ma perché non ci stai più provando.