Dateci la Strade Bianche

L'attesa è tanta. E allora dateci una gran bella corsa tra gli sterrati senesi; una corsa sporca e brutale, una classica, questa è diventata in pochi anni, anzi pardon, una Classica: Strade Bianche la chiamano, che poi, quando arrivi su verso Piazza del Campo e superi lo strappo di Santa Caterina, di bianco non c'è rimasto più nulla, se non la faccia di chi magari sta zigzagando per portare la pelle al traguardo – van Aert 2018 insegna. Bianco, sì, forse come un cencio lavato, si potrebbe dire.

Dateci qualche nome di corridori su cui puntare: niente van Aert, né Bernal, né van der Poel, nemmeno, all'ultimo momento, Pidcock (4°, 3°, 1° e 5° nel 2021, annata e corsa irripetibile), però qualcosa di interessante c'è, vedremo a breve. Una di quelle gare che prova a ribaltare l'assioma: la corsa la fanno i corridori. No, è la Strade Bianche a fare i corridori, li strugge, li infanga, domani più verosimilmente li dovrebbe impolverare.

Insomma, dateci questi nomi buoni: van Vleuten e Pogačar, Alaphilippe e Longo Borghini, Vos e Valverde, e scorrendo le liste di partenza si potrebbero pescare outsider di ogni genere: Benoot, Wellens, Van Avermaet e ancora Blaak, Niewiadoma, Ludwig. E mica solo loro.

Dateci una corsa che si corre in Italia e per la quale gli italiani (perdonate la serie di bisticci) hanno sempre avuto una sorta di idiosincrasia difficile da spiegare: se restiamo al maschile un solo successo che fu una saetta (Moreno Moser) ma non fece breccia; poi qualche podio sparso qua e là, poi qualche sprazzo mollato su e giù, ma senza mai davvero essere protagonisti per un successo finale. Quest'anno Covi potrebbe essere il fattore giusto all'interno dell'UAE che schiera un solo capitano, di cui non serve dire nulla, ma vicino al suo nome ci sono 5 stelle.

Se ci limitassimo a raccontare la gara femminile, invece, anche qui troveremmo un solo nome italiano in sette edizioni: Elisa Longo Borghini, chi se non lei, domani, con addosso il tricolore, sarà il faro del movimento. Chi se non lei per provare a scardinare le difese olandesi che andranno all'attacco seguendo la loro idea di ciclismo totale. E dentro al quale ogni tanto si accartocciano.

Insomma, dateci le Strade Bianche, abbiamo voglia di ingoiare polvere, di soffocarci e lacrimare, di tifare da bordo strada, di aspettare in Piazza del Campo come quelli che sono lì già da qualche giorno. Di fare foto e incitare, di spingere da casa come quelli che simulano senza accorgersene un colpo di reni guardando una volata dal divano. Di soffrire per loro, a volte anche con loro. In questo momento della stagione non potremmo chiedere di meglio: appuntamento a domani allora, sin dal mattino o quasi.

I FAVORITI DI ALVENTO

⭐⭐⭐⭐⭐ Pogačar
⭐⭐⭐⭐ Alaphilippe
⭐⭐⭐ Benoot, Wellens, Valverde, Mohorič
⭐⭐ Covi, Fuglsang, Clarke, Cosnefroy, Gogl, van der Hoorn, Narvaez, Simmons
⭐ Kwiatkowski, Higuita, Rota, Vermeersch G., Moscon, Guerreiro, Asgreen, Pello Bilbao, Valgren, Kron, Lopez

⭐⭐⭐⭐⭐ Van Vleuten
⭐⭐⭐⭐ Longo Borghini, Vos
⭐⭐⭐ van den Broek-Blaak, Vollering, Niewiadoma
⭐⭐ Ludwig, Garcia, Moolman-Pasio
⭐ Spratt, Bastianelli, Persico, Leleivytė, Paladin, Chabbey, van Anrooy


Godersela fino all'ultimo

Abbiamo aspettato così tante volte Richie Porte che a volte pareva farsi quasi beffa del nostro desiderio: lo attendevi e lui, puntualmente, mancava. Abbiamo imparato ad apprezzarlo, anche se all'inizio facevi fatica, lo trovavi strano, mentre poi c'era un altra grossa fetta di pubblico che semplicemente se ne fregava della sua presenza. Poi arrivò il Tour de France del 2020 con tutto il contorno, su cui oggi, tempi bui, preferiamo glissare una volta di più.
Arrivò quel Tour e qualcosa cambiò nella percezione: Porte partecipò andando incontro a uno sforzo enorme difficile da non considerare e persino complicato da comprendere. «Mancare alla nascita di un figlio è il sacrificio più grande che possa immaginare, ma sono altrettanto sicuro di poterlo e volerlo fare: sarò pronto per il Tour de France» raccontò alla vigilia.
Molti si chiesero come fosse possibile, se potesse davvero valerne la pena. Lui rispose conquistando il podio dopo averlo inseguito per un decennio fatto, spesso, perlopiù di delusioni. Rispose presente sul podio finale all'ammonimento di sua moglie in dolce attesa: «Farai meglio a non farti vedere col broncio in fondo al gruppo». Quella foto con l'Arc de Triomphe sullo sfondo, lui lassù insieme agli sloveni, fu come una liberazione.
Lo abbiamo imparato a conoscere in quella fuga bidone al Giro 2010 quando si andava verso L'Aquila, giornata tremenda, vinse Petrov e Porte andò persino in Rosa chiudendo 7° nella classifica finale. Lo abbiamo conosciuto semplicemente come "il tasmaniano"; gli abbiamo visto buttare via corse per le cadute, ma anche gli orbi erano a conoscenza di un talento che, nelle brevi corse a tappe, si trasformava spesso in qualcosa di più concreto.
Il 2022 segnerà le ultime pedalate in sella per Richie Porte, il tasmaniano, almeno per come ce lo siamo immaginati sempre noi, almeno per come se lo è immaginato sempre lui. Un buon contratto, duri allenamenti, programmare le corse, puntare al Tour e vincere brevi corse a tappe in serie; potenziometri e dieta, un numero da attaccare alla maglia, quell'amore sempre corrisposto dalla salita di Willunga Hill, in Australia, banalmente il suo feudo, quella salitella vinta per sei volte di fila, prima di una settima volta arrivata lo scorso anno.
Questi ultimi mesi Richie Porte ha ripercorso Willunga Hill, non era il Tour Down Under, ma era il Santos Festival of Cycling, corsa nazionale australiana che sostituiva per il secondo anno di seguito l'evento che abitualmente apre il calendario World Tour. Almeno in un mondo conosciuto prima della pandemia.
Se l'è goduta alla grande, come mai probabilmente fino a ora. «È stato emozionante per me - raccontava sorridente ai microfoni a fine gara con la maglia della selezione australiana - sono felice di essere tornato in gara qui per l'ultima volta, in un posto che mi ha visto diventare grande e dove ho pedalato per la prima volta 14 anni fa».
Se l'è goduta alla grande quella pedalata in mezzo a quelli che oggi sono il futuro del ciclismo australiano, lui che a guardarsi indietro è stato il passato e il presente del ciclismo oceanico. «Finalmente mi sono potuto rilassare godendo del pubblico sulle strade e ho visto anche un sacco di ragazzi australiani che pedalano forte: tra di loro sono convinto ci possa essere il nuovo Cadel Evans». E perché no, il nuovo Richie Porte.
Il nuovo Richie Porte, che non è poi così diverso dal vecchio Richie Porte, solo con qualche ruga in più e qualche migliaia di chilometri nelle gambe che non ne appesantiscono i desideri. «Al Tour ho fatto quello che dovevo fare e ora andrò al Giro, dove si è aperto un cerchio e dove si chiuderà. Ma senza assilli di nessun genere: l'unica cosa che la squadra mi ha chiesto è godermi il mio ultimo anno in gruppo. Sono contento perché questo era esattamente il mio piano a inizio stagione».
L'altro ieri lo abbiamo visto pedalare in tutta la sua essenza da Richie Porte, ritornato a vestire la maglia INEOS dopo una parentesi, quasi magica, in maglia Trek-Segafredo. Eccolo davanti in salita, nell'azione buona per andare al traguardo aiutando qualche suo compagno di squadra; poi lo abbiamo visto, pienamente in stile Richie Porte, incartapecorito giù per Colla Micheri, discesa da far venire i brividi anche al più spavaldo dei trapezisti.
Per il futuro, Richie Porte pare abbia intenzione di portare la sua esperienza ai giovani australiani, ha già preso sotto la sua ala Plapp con cui si è allenato in Tasmania e pensa già a quello che sarà più avanti: «Fra dieci anni mentre guarderò il ciclismo in televisione potrò dire con orgoglio ai miei figli: guarda, quelli sono i ragazzi con cui ho corso in bicicletta». Ora basta, però, è tempo di godersela fino all'ultimo.


Siena declina l'attesa della Strade Bianche

Se non avessimo già saputo che questi, a Siena, sono giorni particolari, lo avremmo capito quando, scendendo da un treno giunto in stazione con diversi minuti di ritardo, un ragazzo, mentre fissavamo la sua bici con tanto di bagagli fissati alla bell'e meglio, ha detto a qualcuno lì vicino: «Manca sempre meno». Certo non ha parlato di Strade Bianche ma a cos'altro poteva riferirsi?
Il fatto è che Siena è una città in attesa e se ne accorgerebbe chiunque. C'è qualcosa di strano nell'aria: quel guardarsi in giro con aria di cercare un ciclista , un'ammiraglia o un bus. Nei bar del centro un signore ci dice che è un'attesa particolare perché si rinnova ogni anno. Non a caso la parola che usa è appuntamento: «Credo sia parte di ciò per cui gli altri ci conoscono. Una sorta di parola chiave per capire di che città stai parlando. Di Siena si possono dire tante cose, però, quando qualcuno sa che vieni da Siena di solito ti chiede: "E il Palio?". Dopo poco tempo, segue: "E la Strade Bianche?"». Ci dice che succede perché ogni anno, più o meno nella stessa data, le persone sanno cosa accadrà qui intorno.

L'attesa dicevamo. Quella per cui ci si volta attenti al passaggio di ogni bicicletta. In certi casi capisci lontano un miglio che non si tratta di ciclisti professionisti, ma meglio controllare, non si sa mai. Perché, poi, anche i ciclisti in queste vie del centro si comportano come un pedalatore qualunque. A tratti devono zigzagare tra la gente e allora senti “op-op-op-op" che è poi un modo internazionale di segnalare il proprio arrivo. Potrebbero dire qualcosa nella propria lingua, sarebbe intuitivo il significato, invece dicono così e qualcosa significherà. Succede spesso, succederà anche domani.

Ma non solo per questo i ciclisti sono come tutti gli altri. Un fruttivendolo racconta di quando tempo fa, qualcuno si fermò da lui a prendere qualche mela. Capiamo che non è appassionato di ciclismo, non ricorda il nome e nemmeno la squadra, ma ricorda benissimo di quelle mele «lasciate ai ciclisti della Strade Bianche». Come se queste persone avessero bisogno di sentirsi utili per i ciclisti che attraversano le loro città.

Aspettare ripetevamo. Come tutti coloro che si affacciano dai vari accessi di Piazza del Campo, danno un occhio e, se non scorgono nessuno, proseguono sulle strade a lato. Pensate il ciclismo cosa combina: si può anche aspettare a passare in Piazza del Campo per cercare qualcosa che ha a che vedere con la bicicletta. Anche se è presto, anche se non si può ancora vedere molto. Arrivano appassionati, lasciano la bicicletta appoggiata al muro, magari già sporca di terra e si siedono a bere una birra. Qualcuno parla in una lingua che non conosciamo ma ci suona familiare: qualche domanda e scopriamo che è fiammingo.

Ci sono sempre tutte le finestre che si affacciano e quei vetri da cui, ogni tanto, qualcuno guarda fuori e indugia, per esempio per quel signore con una bici d'epoca e un sigaro in bocca che intravediamo qualche secondo e poi scompare.

Per chi è in Piazza del Campo aspettare è aspettare un suono, un rumore, l'insieme delle voci «che quando c'è tanta gente non senti nemmeno la tua voce, puoi sgolarti come ad un concerto». Ci dicono così. L'attesa è diversa, ma neanche tanto, sugli sterrati, dove è un aereo nel cielo a far presagire l'arrivo del gruppo. Presagire sì, perché con quella terra che si alza avresti dei dubbi. Qualcuno ci dice che si aspetta "la nuvola" che altro non è se non l'insieme dei ciclisti.

L'appartenenza la senti quando ti dicono che sono andati a vedere qualche sterrato per intuirne le condizioni o quando li senti al bar parlare del tempo di sabato, quasi fossero loro a dover correre. Invece stanno solo aspettando. «Cos'è l'attesa?» chiediamo a una ragazza in tenuta da ciclista.
«Quella cosa per cui non vedi l'ora che arrivi la gara, ma, poi, ripensandoci speri serva ancora molto tempo perché, se arriva, finisce tutto». Questa è la voce del verbo aspettare in un giovedì pomeriggio, a Siena.