Quel traguardo che sembrava non arrivare mai
Ce lo dicano che si sono inventati un giochino per rendere appassionanti le tappe da volata: procrastinare il tentativo di chiusura sui fuggitivi; fare finta di nulla fino a quando ci si accorge che quelli davanti possono arrivare davvero, e da lì iniziare ad accelerare mettendo magari davanti pezzi da novanta come Ganna e poi cercare di rientrare sul rettilineo finale.
Ce lo dicano perché così sappiamo di tenerci liberi anche quei pomeriggi da passare all'apparenza con il volto disteso, invece di stare qui a digrignare i denti con le pulsazioni a mille perché vorresti vedere arrivare la fuga, ma in realtà ti piacerebbe anche vedere lo sprint del gruppo. E tutto questo ti manda in confusione.
Va così (anche) oggi al Delfinato, ma sembra ormai la nuova routine: gruppetto in fuga, vantaggio che non cresce mai a dismisura, ma quando i chilometri alla fine diminuiscono il vantaggio è tale e quale a prima, anzi a un certo punto aumenta.
Alla fine si sono dovuti mettere giù a tirare pancia a terra Ineos - Ganna, De Plus e Kwiatkowski - e una mano pure dalla Jumbo con Kruijswijk finché ha potuto, e poi Benoot, per riprendere i quattro.
Prima di quel finale pirotecnico: van Aert che sembrava non partire più, lanciato da Laporte, ma poi parte lanciato per fermare Thomas (Tomà) a 100 metri dal traguardo come a dirgli "qui comando io", e quel traguardo che sembrava non arrivare mai fin quando alle sue spalle si è materializzato Meeus, colosso in maglia BORA, e allora all'improvviso la linea è apparsa sotto le ruote dei corridori.
E van Aert ha vinto. Fatto non banale visti i secondi posti di questi giorni, fatto che va ad aumentare una statistica ormai vanaertiana: circa 2 corse su 3 chiuse sul podio in questo 2022. 5 vittorie in 19 giorni di gara, e al Delfinato: 1°,6°,2°,2°,1°. Semplicemente roba da van Aert, in giallo limone con quel casco di un altro colore che lo fa sembrare quasi pittoresco.
Unbound Gravel: tornare cambiati
Emporia è subito sembrato un universo parallelo all'interno degli Stati Uniti d'America. In realtà, appena toccato il suolo, Mattia De Marchi ci ha pensato: «Sono in America» e gli è sembrato strano, eppure bello. Certamente contrastante con quella sensazione di normalità che può affliggerti quando ti abitui a ciò che fai. Ad Emporia, l'abitudine non si è mai fermata: come avrebbe potuto fra tutti quelle persone che lasciano le proprie case per far spazio ai concorrenti dell'Unbound Gravel? Come avrebbe potuto scossa da quei clacson che per strada suonano ai ciclisti solo per salutarli, per dare il benvenuto?
Mattia De Marchi li ha sentiti e sono stati esattamente come la sua indole, qualcosa che bussa alla porta e ti ricorda perché lo stai facendo. «Inseguire Ten Dam probabilmente non è stata la scelta giusta e dovrei dirti che non lo rifarei. Invece no, lo rifarei perché facendo diversamente non sarei io. Avrei potuto piazzarmi meglio ma attendere non fa per me. E poi cosa avrebbero guardato tutte quelle persone che seguivano sulla grafica il puntino blu che mi rappresentava e speravano ce la facessi? Proviamo a pensarci». Ten Dam, quando lo ha visto, incollato alla sua ruota gli ha subito chiesto chi fosse e, sentendo il suo nome: «Mi ricordo di te a "The Traka", sei in gamba. Dai che facciamo all in».
Mattia, in quel momento, ha potuto solo sentire quelle parole, non vedeva quasi più nulla perché, la pioggia, faceva rimbalzare quella sabbia collosa sugli occhiali, rendendo impossibile tenerli: «Ad un certo punto, li ho tolti e quei granelli mi entravano negli occhi, facevano male, io, però, ero solo innervosito perché iniziavo a perdere le ruote, mi superavano. Al traguardo non vedevo quasi più nulla e lì ci ho pensato: "Mattia, ragiona: non vedi più e hai in mente solo la gara?". Per fortuna non era niente di grave e la vista è tornata, ma mi ha fatto riflettere». Certo, fa riflettere perché spiega cosa accade in quei chilometri in sella, il misto di sensazioni che ti estranea da tutto ma, alla fine, ti lascia lì, lucido e a contatto con gli altri, su quelle strade che cambiano repentinamente forma e direzione.
Boswell e Stetina non vanno all'attacco con lui e quando viene ripreso lo affiancano: «Bel numero». De Marchi non ce la fa più, è al gancio, ringrazia e stringe i denti. «Dai 320 chilometri dell'Unbound Gravel torni comunque cambiato, è questo il punto. L'esperienza resta e va oltre il risultato. Ciò che succede ad Emporia te lo ricordi appena pensi a questo sport». La conseguenza è un pensiero al mondiale gravel su cui sta riflettendo l'Uci: «Chiedo di pensarci bene, perché le gare che stanno organizzando sono solo gare, non c'è nulla di tutto questo. Ci si pensi, si studi ciò che accade negli altri paesi e ci si prenda tutto il tempo prima di organizzare un mondiale. Altrimenti, per sfruttare le opportunità che il gravel offre, rischiamo di snaturare quello che è. Non spetta a me decidere e ho pieno rispetto di chi lo farà, ad oggi, però, spero proprio che questo mondiale non ci sia».
Nel frattempo c'è un viaggio in Africa fra pochi giorni e diverse gare proprio lì. A Mattia hanno già detto che all'arrivo in aeroporto le persone affiancheranno i ciclisti e chiederanno cosa facciano con tutte quelle biciclette, perché in Africa questa abitudine manca. Lui sta pensando alla risposta da dare, a come spiegare ciò che accadrà: «Ho scelto di non aspettarmi nulla e di vivere questa avventura per quello che sarà. Ogni tanto, però, mi immagino i bambini che ci cercheranno e ci rincoreranno. Mi dico che sono fortunato e quel volo vorrei prenderlo il prima possibile. Anche adesso».
Lost in Tuscany
«Pedalare in Toscana è come mangiare la pasta al sugo della mamma. L’hai fatto mille volte, però poi capita il periodo che per un po’ non riesci a tornare a casa, oppure quello in cui hai la fissa dell’etnico, in cui hai voglia di quella cucina un po’ da fighetto e non la mangi per un po’. A un certo punto torni a casa e al primo maccherone ti dici che – sticazzi i cuochi stellati – quella è la cosa più buona del mondo.
Il Tuscany Trail è un bel piatto abbondante di pasta al sugo della mamma. Abbondante sì – per i chilometri, ovviamente – però di quelli che ci fai pure la scarpetta e se fossero avanzati due maccheroni nella pentola non ti tireresti di certo indietro. Ma andiamo con ordine e usciamo dalla metafora, perché comunque poi a rimanere in cucina toccherebbe spostarsi su pici, fiorentina e cantucci e andrebbe a finire che di bici se ne parlerebbe un’altra volta».Questa è la descrizione di Federico Damiani, su Alvento 16.
Quest’anno ci siamo andati proprio per realizzare una puntata del nostro podcast!
3.000 persone da tutto il mondo, per pedalare sulle strade della Toscana in uno dei trail più partecipati al mondo. 460 km e 6.600 metri di dislivello di cui il 66% su strade sterrate.
Abbiamo pedalato il Tuscany Trail in quattro giorni per raccontarlo in presa diretta e trasferire le impressioni live dei partecipanti e degli addetti ai lavori direttamente dalla strada!
Voce (e pedalata): Claudio Ruatti
Sound design: Brand&Soda