Le storie dei sogni

Silvia Persico ci ha provato. Sapeva bene che la frazione tra Saint-Dié-des-Vosges e Rosheim era l’ultima di possibile calma prima delle montagne, ma voleva prendere la maglia gialla già oggi. È la capitana di una piccola squadra, la Valcar, ma incredibilmente si trova al secondo posto della classifica generale del Tour de France Femmes. Quindi tanto vale provarci, consapevole di non essere una scalatrice pura. Persico ha messo davanti tutte le compagne di squadra con l’obiettivo di tenere a bada la fuga numerosa e far staccare qualche velocista. La più forte di tutte, però, non si è staccata.
Marta Bastianelli arrivava da un paio di giorni difficili. Ne ha parlato anche nella quarta puntata di “Cherchez les Femmes”, il podcast di Alvento che segue il Tour dalla Francia; dopo la quinta tappa, era in lacrime dal dolore dopo una caduta. Oggi si sentiva meglio perché ha provato a recuperare sulle quattordici fuggitive da sola. Il gruppo l’ha riassorbita, ma lei non si è persa d’animo e ha tenuto la scia delle migliori in salita. Nella volata di Rosheim, è stata scaltra a tenere la ruota giusta. Un solo problema: era la ruota della più forte di tutte.
Lorena Wiebes, la velocista più forte del mondo, ha provato a rimanere con le migliori. Poi cade e con lei Alena Amialiusik Lotte Kopecky. Sono all’esterno di una curva nel bosco: Kopecky riuscirà ad alzarsi e a rientrare, Wiebes no. Era al secondo posto nella classifica a punti, dopo la volata di ieri: vincendo oggi, la più forte di tutte ha chiuso il discorso maglia verde.
La storia di Marianne Vos, la più forte di tutte, può essere raccontata anche tramite le storie dei sogni e degli obiettivi delle rivali, che continuamente e irrimediabilmente spezza. In questo primo, rinato Tour de France, non è ancora arrivata oltre la quinta posizione. Domani vestirà la maglia gialla per il sesto giorno consecutivo. Non si tratta di lascia il segno sulla corsa, si tratta di prendersi tutto. Domani giura che non riuscirà a tenere il primato, ma chi sarebbe davvero sorpreso, in caso contrario?


Quei pomeriggi ordinari

È la prima tappa di questo Tour de France Femmes in cui non succede nulla. Si tratta di una definizione esagerata - più di una cosa è successa anche oggi, ovviamente - ma per la prima volta la cronaca degli eventi è abbastanza asciutta, tutto è andato secondo le aspettative, sprint doveva essere e sprint è stato. Lorena Wiebes era la favorita e Lorena Wiebes ha vinto.
Le dinamiche di corsa e il livello di drama cala improvvisamente rispetto a ieri. Dopo una tappa in cui quattro settori di sterrati ci hanno tenuto col fiato speso per un’indicibile quantità di chilometri, quella di oggi era adatta a tifosi bradicardici. Una frazione lunghissima, piatta, con un finale su stradoni larghi e anonimi; con tante persone sulle strade ad applaudire e far casino al passaggio del gruppo nonostante le atlete sfrecciassero davanti a loro ai 40 km/h.
Una tappa in cui c’è stato un tipico tira-e-molla tra fuga e gruppo: diversi attacchi nelle battute iniziali di corsa, il gruppo che seleziona chi può e chi non può provare ad allungare, la luce verde che arriva solo quando il drappello di attaccanti è composto da poche atlete (solo quattro, contro centoventisei) e nessuna pericolosa per la classifica generale. La meglio piazzata è Victoire Berteau, diciannove minuti di ritardo dalla maglia gialla. Berteau non ha ancora ventidue anni, è al primo anno con la Cofidis e deve ancora centrare la prima vittoria da professionista.
È già tanta roba per lei essere riuscita a centrare la fuga giusta. Com’è tanta roba per Emily Newsom riuscire a fare questi sforzi per svariate ore nonostante abbia problemi di stomaco. È la più anziana delle quattro in fuga e avendo fatto estenuanti corse gravel è particolarmente adatta a queste distanze. In gruppo si va con una flemma blanda, tanto che riescono ad evadere per qualche chilometro altre tre atlete: Grangier, Biriukova e Christie. Tre delle cicliste meno in evidenza del gruppo a caccia di gloria. Niente da fare, riprese non appena le squadre delle velociste hanno iniziato a fare sul serio.
E poi di cose ne sono successe ancora. Elisa Longo Borghini all’interno dell’ultimo chilometro ha sbagliato strada e ha perso nove secondi (che le sono poi stati condonati). Marianne Vos è arrivata sul podio per la milionesima volta in carriera. Rachele Barbieri si è confermata una delle più veloci del mondo. In tutto questa tranquillità, un’azione sola è sembrata di una violenza sovrumana: la volata di Wiebes, potente e dominante, è stata uno squarcio nella tela di un pomeriggio affascinante perché ordinario.


Meglio Vingegaard o Pogačar?

Al tempo, non proprio un secolo fa, ma quasi, quando il ciclismo veniva raccontato da chi seguiva la corsa sulla strada in posizione privilegiata definendosi a tutti gli effetti suiveur, la domanda che ci si faceva era: ma è meglio Bartali o è meglio Coppi?
Era una questione vera, un problema reale, nodo gordiano di ogni italiano. Era il 1940 e quell'Italia stava per entrare in guerra, ma era il 1940 e Coppi, ventenne o poco più, aveva da poco conquistato il Giro, diventando fenomeno di massa e alimentando il dualismo con Bartali.
Siamo alla retorica, sia chiaro, "mantello di porpora" come la definiva, a proposito di quel tempo, Vergani, e, altolà, nessun paragone con il passato; siamo all'enfasi, all'esaltata provocazione, all'ispirazione che ci fa domandare in questo caso: chi è meglio tra Vingegaard e Pogačar?
Fino a tre settimane fa non ci sarebbe stato nemmeno modo di fare il paragone. Più completo lo sloveno, capace di andare forte nelle gare di un giorno, come in quelle a tappe, capace di salire sul podio in tutte le grandi corse di tre settimane a cui ha preso parte, come solo Hinault e Binda prima di lui.
Predestinato, veloce di gambe e di spirito, una guida della bicicletta che non teme confronti. Ma, direte voi, il Tour de France lo ha vinto quell'altro.
Quell'altro che si chiama Vingegaard, di cui ormai conoscete la storia e il soprannome - Il pescatore; di cui ormai abbiamo imparato a capire come almeno in Francia sia stato lo scalatore più forte del gruppo, meglio ancora di Pogačar.
Quindi ci riproviamo: è meglio Vingegaard o Pogačar? Qualcuno direbbe van Aert, lapalissiano dopo questo Tour.
Aspettiamo il prossimo capitolo della loro sfida che - speriamo - potrà caratterizzare il prossimo decennio. Perché di questo ci alimentiamo, suiveur di ogni età, appassionati, lettori, autori, ciclisti, anche quelli della domenica. Meglio Vingegaard o Pogačar? Chi se ne frega, non c'è nessun nodo gordiano da sciogliere, né campanili, né un popolo che si divide in due: ognuno ha i suoi gusti e a noi ci piacciono entrambi per ciò che di differente trasmettono.
Intanto, però, non vediamo l'ora di rivederli di nuovo contro. Affannati tra tattiche rischiose e squadre dimezzate; indaffarati nel cercare di staccare l'uno o di incollarsi alla ruota dell'altro. Tra botte in salita e complimenti al traguardo.
Intanto, almeno per il Tour de France è 1-1. Per il resto si vedrà.