Il rumore che fa Annemiek van Vleuten
Tutte se lo aspettavano, nessuna ha potuto fare nulla. L’attacco da lontano di Annemiek Van Vleuten era dato per certo da tutte le rivali: la prima frazione di montagna avrebbe sconvolto la classifica e la più forte scalatrice di questo secolo avrebbe dovuto recuperare dall’ottava posizione in classifica generale in cui si trovava. A circa 85 (sì, ottantacinque) chilometri dal traguardo, all’inizio della prima terribile salita di giornata, Van Vleuten attacca. Si porta dietro l’unica atleta in grado di spingere wattaggi simili, Demi Vollering. Presente e futuro del ciclismo olandese.
È un attacco che non vede nessuno, le immagini sarebbero arrivate una mezz’oretta dopo. Su Twitter il ciclocrossista olandese Jens Dekker si chiede, parafrasando un noto indovinello filosofico sulla percezione della realtà: se attacca nella foresta e non c’è nessuna telecamera a riprendere, Van Vleuten fa rumore? Il fracasso dev’essere stato troppo forte nelle gambe delle rivali: tutte le più forti tranne Vollering non riescono a seguire, si raggruppano indecise sul da farsi. Sono Juliette Labous, Elisa Longo Borghini, Cecilie Uttrup Ludwig, Evita Muzic, Kasia Niewiadoma e Silvia Persico, tra le altre. Queste ultime due erano seconda e terza in classifica generale, ma non hanno potuto fare altro che andare su col proprio ritmo.
Chi non ci sta e prova a recuperare sulle due olandesi è Elisa Longo Borghini. È una fuga strana, la sua, quasi una ribellione scriteriata. Rimane a lungo da sola, a bagnomaria, tra le due battistrada e il gruppo successivo di inseguitrici, che intanto inglobava altre atlete, come una terza FDJ – Suez – Futuroscope (Grace Brown) e una rediviva Urska Zigart. La prime due salite – nel bosco e sopra l’8% medio – sono davvero dure e pian piano l’inseguimento di Longo Borghini perde brillantezza.
Sembra una cronometro individuale lunga più di ottanta chilometri. Van Vleuten accelera sul secondo gran premio della montagna e si lascia Vollering alle spalle. Longo Borghini è ripresa dalle inseguitrici e staccata. Le prime venti terminano tutte in solitaria o a gruppetti di due. All’arrivo Elise Chabbey (decima in classifica generale) e la sua compagna di squadra Pauliena Rooijakkers (decima nella frazione odierna) dicono che sì, se l’aspettavano, ma che ci potevano fare? Van Vleuten ha reso una tappa di montagna una lotta alla sopravvivenza: che lei, ovviamente, ha vinto
Le gambe che scappano di Remco
Nel ciclismo i segnali sono tutto perché lì resta l'attenzione. Così in un sabato qualunque, neanche una settimana dopo la conclusione di un Tour de France che è stato racconto e romanzo scivolato nella realtà, vedere la Quick-Step Alpha Vinyl in testa al gruppo alla Classica di San Sebastian, col traguardo ancora lontano, ha fatto tornare nella mente di chiunque stesse guardando le sensazioni dell'ultimo mese. Lo stupore costante è diventato abitudine, l'imprevedibilità una risorsa.
"C'è Remco Evenepoel" pensavamo tutti questa mattina. La presenza è un dato di fatto, ogni corridore, poi, riempie questo dato con quello che è, che sa, che gli piace. Il gusto dello stupore appartiene a Remco Evenepoel, lo sapevamo già, ma un sabato di fine luglio l'ha riportato in scena, quasi un temporale, quasi un'impressione. Un'impressione è naturalezza e istantaneità ovvero far sembrare semplice il difficile e farlo così, come si bevesse un bicchiere d'acqua.
Tutto questo è successo quando Remco Evenepoel è scattato ai quarantacinque chilometri dall'arrivo e solo Simon Yates è riuscito a tenergli la ruota, seppur per pochi chilometri. Con quella gamba avrebbe vinto anche stando assieme agli altri, magari portando via un piccolo gruppo? Probabile, a quelli come Evenepoel non interessa solo il risultato. C'è qualcosa dentro di loro che li chiama a divertire e divertirsi, a cercare il massimo grado di difficoltà, a lasciare qualcosa che va oltre i numeri, le statistiche. Un talento particolare. Ci ha colpito lo sguardo di un ragazzino sull'ultima salita: "Vorrei essere come lui". Quando si vede questo, quando si percepisce questo, si ha la netta sensazione che vada bene così, a prescindere da come va a finire.
Evenepoel ha vinto da solo, con la maglietta slacciata, con le gambe che scappano via come si dice nel ciclismo. Rende l'idea perché è come se le gambe fossero automi in grado di fare da sole, fregandosene del corpo. Invece restano lì, parte del corpo, nel corpo, e per andare così deve essere tutto perfetto, tutto in ordine, una sinfonia, un'armonia, uguale alla posizione di Evenepoel in bicicletta.
Più bello forse sarebbe stato solo con Pogačar a combatterlo, due ragazzi con lo stesso istinto, la stessa naturalezza. Invece Pogačar ha mollato prima, dopo le fatiche del Tour. Ci saranno altre occasioni e le aspetteremo guardando ai segnali come in questo sabato.
Mentre guardiamo Evenepoel esultare e ascoltare tutto quello che c'è attorno. Indica l'asfalto, indica la terra, dove tra venti giorni tornerà alla Vuelta a España. Non sappiamo cosa succederà, sappiamo però che non avere più nulla di scontato, non sapere più cosa aspettarsi, sarà ancora una volta bellissimo.
La storia di Gaudu e Madouas
Il Tour de France di David Gaudu e Valentin Madouas è un insieme di immagini, ricordi, lunghe istantanee, infiniti momenti passati assieme. «È come lo Yin e lo Yang - ha raccontato Gaudu ai giornalisti dopo il traguardo di Parigi, riferendosi proprio alla corsa francese - può farti paura e trasformarsi in qualcosa di catastrofico, ma ti sa anche dare una felicità incredibile».
C'i sono attimi in cui si arriva stravolti come sul traguardo di Peyragudes. Gaudu è accasciato a terra con un asciugamano sul collo, quasi sfigurato dopo essersi lanciato a tutta per rosicchiare qualche secondo a Quintana, rivale per un posto nei primi cinque in classifica, in un interminabile sprint in salita. Qualche minuto dopo di lui arriva Madouas, compagno di squadra e amico; Gaudu gli prende la mano, se la porta sulla fronte e poi vicino alla bocca e gli dà un bacio.
È il suo modo per complimentarsi e rendere merito per quello che ha fatto Madouas (anche) quel giorno. Madouas è davanti in fuga, e, una volta staccato, diventa fondamentale nel supportare il suo compagno di casacca. «Devo ringraziare la squadra per come mi è stata vicina, ma in particolare devo ringraziare Valentin. Ogni volta mi salva il culo».
Madouas è così, un piccolo guerriero lo definisce Marc Madiot, colui che guida la Groupama-FDJ. Come chiamereste un corridore che, da neopro e più giovane al via, arriva 20° alla Strade Bianche? Era il 2018 e quell'edizione la ricordiamo per la pioggia e il fango e persino per la neve caduta il giorno prima: va in fuga (uno dei suoi motti è «Attaccare sempre!» mentre uno dei suoi riferimenti in gruppo è Nibali: «impressionante, fantasioso, formidabile per come si adatta a ogni situazione in corsa»), va in fuga tutto il giorno e rimane, fino alla fine, in scia ai migliori.
Ma la storia che raccontiamo è quella di entrambi, di Gaudu e Madouas e che parte da quando i due sono bambini, in Bretagna, e sono speciali per quanto vanno forte in bicicletta. "Le Telegramme" li definisce " le due pepite d'oro del ciclismo bretone".
Rivali («gli altri lottavano per il 3° posto, io arrivavo quasi sempre 2° e Valentin, quasi sempre, vinceva» ricorda Gaudu), se si può parlare di rivalità a quell'età, amici e poi inseparabili al Tour 2022. «Negli ultimi mesi ho passato più tempo con lui che con qualsiasi dei miei familiari» sempre Gaudu.
Se l'intreccio di Valentin, figlio di Laurent, 12° al Tour del 1995, con la corsa francese, parte da quando, ancora in fasce, insieme a sua mamma andava a trovare il papà corridore al villaggio di partenza, quello di Gaudu inizia nel 2008 quando i due, appena dodicenni, si sfidarono sulla Grand'Rue di Brest in un torneo di bici che in premio dava una divisa Cofidis e un biglietto per assistere all'ultima tappa del Tour de France a Parigi. Vinse (rarità) il più piccolo fisicamente («Gaudu era piccolo e fragile, mio figlio era già pronto, quadrato e potente» racconta papà Laurent), e quella differenza oggi è rimasta. Insomma, Gaudu vinse allo sprint, nella finale a due, e 14 anni dopo Valentin e David si ritrovano a sfilare per i Campi Elisi, stavolta dall'altra parte della barricata, a festeggiare il 4° posto in classifica dell'occhialuto scalatore e l' 11° del fedele compagno di squadra, premiato a fine corsa anche per essere stato "il miglior gregario della terza settimana".
«Una 4X4» definisce così Madiot Valentin Madoaus. «Per le mani - sostiene l'anziano team manager francese, vincitore di due Roubaix nel 1985 e nel 1991 - non ho mai avuto un corridore così completo». Quest'anno è finito sul podio del Giro delle Fiandre, quel giorno si faceva la corsa per Küng, ma nel finale Madouas stava meglio e piombò insieme a van Baarle sul duo di testa - van der Poel e Pogačar - cogliendo un incredibile podio. «Da lì si è come sbloccato dopo una stagione difficile», parola di David Han uno dei suoi allenatori. «Ma nessuno si sarebbe aspettato questo rendimento un salita. Ha dimostrato nella terza settimana di essere uno dei dieci migliori scalatori del Tour». Anche David, parlando del suo amico e compagno di squadra: «Me lo aspettavo davanti nelle tappe miste, ma quello che ha fatto in montagna è stato incredibile».
Il rapporto tra David e Valentin è fatto di ricordi, non solo strettamente legati al rendimento e ai risultati, non solo la mano portata sulla fronte e poi baciata, ma anche qualcosa successo quando avevano solo 9 anni: «Valentin attaccò e mi staccò. Lui primo, io secondo, ma ciò che mi rimane impresso ancora oggi fu il momento in cui tirammo fuori dalle tasche una merenda e ci fermammo a mangiarla davanti a un recinto pieno di animali. Poi siamo tornati a casa».
La storia di di Gaudu e Madouas è un insieme di immagini, ricordi, di lunghe istantanee, di infiniti momenti passati assieme. E altri ancora ce ne saranno da raccontare.