Top&Flop - alvento weekly #5

TOP

Matteo Trentin

Uno dei misteri del ciclismo di questi ultimi due lustri e l’assenza nelle top ten di Fiandre e Roubaix di uno dei migliori interpreti in assoluto di questo tipo di gare. Nel giorno di Pogačar, Trentin si fa trovare pronto, per il suo compagno di squadra, perfetti tatticamente gli UAE con il miglior finalizzatore possibile, e per se stesso: per la prima volta entra nei 10 al Fiandre e fra pochi giorni c’è da sfatare il tabù anche alla Roubaix.

Kasper Asgreen (e la QS)

Quante gliene abbiamo dette in queste settimane, parlando di loro in negativo, ma al Fiandre si sono rivisti davanti e anche con un certo numero di corridori. La Quick Step non sarà (non lo è) nella sua migliore versione possibile, ma aiutano a rendere spettacolare la corsa e ottengono un importante piazzamento con Asgreen, settimo, al termine di una gara d’attacco.

SD Worx

Corrono un Fiandre praticamente perfetto. Lotte Kopecky vince, dietro Reusser e Vollering (seconda) rompono i cambi e favoriscono la fuga. C’è di più: Strade Bianche, Gent- Wevelgem, Dwars e Giro delle Fiandre. Cos’altro?

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FLOP

Tom Pidcock

Due Fiandre su due senza essere tra i protagonisti della corsa. Inquietante soprattutto il crollo nel finale - a meno che non sia successo qualcosa. È vero, arriva da una brutta caduta alla Tirreno che lo ha costretto a fermarsi per qualche giorno, ma da uno così ci si aspetta ben altro su questi palcoscenici. Ora lo aspettiamo sulle Ardenne.

Wout van Aert

Sempre nell’occhio della critica quando non vince, figuriamoci dopo un Fiandre in cui si fa staccare dai suoi due rivali e poi alla fine perde la volata per il podio da un Pedersen all’attacco da diverse ore. Alla Roubaix - la corsa per cui è tagliato maggiormente tra le due - per prendersi una rivincita, anche nei confronti delle (nostre) critiche.

Auto e moto al seguito

Tra scie date e non date a seconda del momento a condizionare la corsa, sorpassi azzardati e quella mossa che per poco non trasformava il Fiandre in una tragedia - un'auto si ferma a pochi centimetri da van Aert finito a terra - siamo abbastanza stufi di vedere certe scene in gara.


10 nomi da seguire alla Paris-Roubaix

L'Inferno del Nord chiude la Settimana Santa del ciclismo. Quello delle pietre, dove anche se ci stai sopra a lungo non ti abitui mai e quando ne esci hai male ovunque e per diversi giorni. Al Fiandre c'è stato spettacolo in corsa grazie all'atteggiamento dei corridori, ma anche a causa di una serie incredibile di cadute che hanno falcidiato una parte del gruppo, alla Roubaix, conoscendo il percorso, potrebbe avvenire qualcosa di simile sia in un senso che nell'altro - nel senso di cadute e feriti speriamo vivamente di no.

Il titolo lo mette in palio Dylan van Baarle, splendido, per eleganza e potenza, vincitore nel 2022, che arriva da una primavera ciclistica dolce e amara: dolce come la vittoria alla Omloop het Niewusblad, amara come la serie di ritiri, problemi e cadute che hanno contraddistinto una buona parte della sua Campagna del Nord.


Il titolo va conquistato lungo i 260km che da Compiègne portano al velodromo di Roubaix, attraversando la bellezza (in tutti i sensi) di trenta settori di pavé. Quello francese, quello delle campagne nel nord-est al confine tra Belgio e Francia. Non c'è corsa più lontana dalla definizione di passeggiata di salute.

Come da tradizione vi daremo 10 nomi da seguire, come per la Milano-Sanremo e il Fiandre di quest’anno la corsa sarà valida anche per il Trofeo Monumento di Fantacycling e tra parentesi accanto al nome di ogni corridore, infatti, trovate la loro quotazione in crediti.

Grafica by Fanta-Cycling.com

DIECI NOMI DA SEGUIRE ALLA PARIGI-ROUBAIX
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1. Wout van Aert (71 crediti) - Sinceramente non vorremmo passare un'altra stagione senza aver visto van Aert esultare tra Fiandre e Roubaix. Probabilmente nemmeno lui e questa classica sappiamo gli si addice di più rispetto a quella "di casa".

 

2. Mathieu van der Poel (54)- 1° alla Sanremo, 2° al Fiandre quest’anno. In carriera ha un 3° e un 9° posto in questa corsa su due partecipazioni. Poi è Mathieu van der Poel e quindi non aggiungiamo altro su come potrà finire.

 

3. Filippo Ganna (26) - Nessuno si nasconde. Né lui, né la squadra, nemmeno noi. Ganna parte tra i favoriti di questa corsa e noi sogniamo, con lui e con la sua squadra.

 


4. Nils Politt (11) - Ha un modo di correre perfetto per questa corsa. Sta bene e alla Roubaix è già salito sul podio. Occhio al formidabile passistone tedesco - che ha pure spunto veloce nel caso si arrivasse in volata ristretta, opzione da non scartare.

5.  Jasper Stuyven (17) - Praticamente non c’è stata gara al nord quest’anno che non lo ha visto coinvolto in una caduta. Alla Roubaix, la “sua” corsa, per lasciarsi dietro le sfortune e raccogliere tutto il possibile in un colpo solo. In Trek divide la leadership come di consueto con Pedersen.


6. Oier Lazkano (5) - Scommettereste contro una sua top ten qualora entrasse in una fuga da lontano? Rispondiamo noi per voi: assolutamente no!


7. Matteo Trentin (15)- Dopo avergli visto correre quel Fiandre, sogniamo insieme a lui un piazzamento importante anche alla Roubaix. In casa UAE occhio pure a Bjerg.

 


8. Stefan Küng (30) - Dietro i big il corridore più continuo sulle pietre del Nord da un paio di stagioni. Magari non vincerà, ma sarà davanti, c’è da scommettere.


9. Yves Lampaert (14) - Corridore che spesso in questa gara si trasforma, ha un conto aperto dopo lo sfortunato capitombolo del 2022 che probabilmente gli ha tolto la possibilità di salire sul podio.


10- Matej Mohorič (26) - Più del Fiandre questa sembra la sua corsa e lo va ripetendo da quest’inverno: «Il mio obiettivo stagionale? Vincere la Roubaix». Ci fidiamo?

Strade Bianche 2023 - 17th Edition - Siena - Siena 184 km - 04/03/2023 - Matej Mohoric (SLO - Bahrain - Victorious) - photo Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2023

ECCO INFINE TUTTI I SETTORI IN PAVE DELLA PARIS-ROUBAIX 2023

30. Troisvilles à Inchy (160,3 km al traguardo) 2.200 m – ***
29. Viesly à Quiévy (153,8 km) 1.800 m – ***
28. Quiévy à Saint-Python (151,2 km) 3.700 m – *** *
27. Saint-Python (146,5 km) 1.500 m – **
26. Saint-Martin-sur-Écaillon à Vertain (139,4 km) 2.300 m – ***
25. Verchain-Maugré À Quérénaing (129,4 km) 1.600 m – ***
24. Quérénaing à Maing (ancora 126,7 km) 2.500 m – ***
23. Maing à Monchaux-sur-Écaillon (123,6 km) 1.600 m – ***
22. Haspres à Thiant (117 km) 1.700 m – **

21. Haveluy à Wallers (103,5 km) 2.500 m – ****
20. Trouée d'Arenberg (95,3 km) 2.300 m – *****
19. Wallers à Hélesmes (89,2 km) 1.600 m – * **
18. Hornaing à Wandignies (82,5 km) 3.700 m – ****
17. Warlaing à Brillon (75 km) 2.400 m – ***
16. Tilloy à Sars-et-Rosières (71,5 km) 2.400 m – ****
15. Beuvry à Orchies (65,2 km) 1.400 m – ***
14. Orchies (60,1 km) 1.700 m – ***
13. Auchy à Bersée (54 km) 2.700 m – * ***
12. Mons-en-Pévèle (48,6 km) 3.000 m – *****

11. Mérignies à Avelin (42,6 km) 700 m – **
10. Pont-Thibault à Ennevelin (39,2 km) 1.400 m – ***
9. Templeuve (L'Épinette) (33,8 km ) 200 m – *
8. Templeuve (Moulin-de-Vertain) (33,3 km) 500 m – **
7. Cysoing à Bourghelles (26,8 km) 1.300 m – ***
6. Bourghelles à Wannehain (24,3 km) 1.100 m – ***
Camphin-en-Pévèle (19,9 km) 1.800 m – ****
4. Carrefour de l'Arbre (17,1 km) 2.100 m – * ****
3. Gruson (14,8 km) 1.100 m – * *
2. Willems à Hem ( 8,2 km) 1.400 m – ***
1. Roubaix (Espace Charles Crupelandt) (1,4 km) 300 m – *

Regolamento del concorso

Foto: Sprint Cycling Agency


Eccola qui la tua Roubaix

Articolo e foto di Federico Guido

Eccola qui la tua Roubaix”. Spesso, quando approccio una delle tante vie in pavé sparse per Milano, mi viene in mente questa frase che mio padre pronunciò, andando a memoria, quando avevo 13 anni. Quella volta, una soleggiata giornata di fine maggio, insieme decidemmo di prendere le bici per andare ad ammirare il colorato gruppo del Giro d’Italia che arrivava a Milano. Con la mia maglia ciclamino indosso e la mia Specialized rosso e argento percorsi al suo fianco gli ampi vialoni che da casa conducono in centro città finché non arrivammo in Corso Magenta, decumano della città noto per ospitare la sede del Cenacolo Vinciano e l’omonimo frequentatissimo bar.

Ai tempi, la via non era ancora stata oggetto dei tanti lavori di manutenzione che l’hanno portata ad avere l’aspetto attuale ma presentava un’omogenea copertura in masselli di pietra, quelli che ancora oggi a tratti si possono notare ai lati delle rotaie del tram. Nella fantasia di un tredicenne appassionato, percorrere quel duro mosaico marrone sulla propria esile bicicletta da corsa poteva davvero assumere i contorni di una volata sulla foresta di Arenberg, scenario che, puntualmente, mio padre con la sua esclamazione riuscì a farmi figurare davanti agli occhi. Le sue parole scatenarono immediatamente il mio spirito d’emulazione e, in breve, iniziai a pigiare forte sui pedali immaginando di essere il Tom Boonen o il Fabian Cancellara della situazione.

Quell’espressione ebbe fin da subito così tanta presa su di me che anche al ritorno, appena la mia ruota toccò i primi metri del Corso, cominciai a mulinare a tutta. Lì però la foga e l’inesperienza ebbero la meglio sulla lucidità e quasi all’altezza del Teatro Litta finii lungo per terra. In un istante, senza quasi il tempo di rendermene conto, persi il controllo della bici e saggiai quanto dure fossero le pietre di quella strada, ma per fortuna non mi feci granché. Più tardi, capii che anch’io, come altri prima di me, avevo avuto il battesimo del pavé milanese, forse il nemico più insidioso per i ciclisti meneghini nella triade completata da buche e rotaie.
Coi tre, negli anni, ho avuto modo di approfondire il rapporto, diventando più esperto e apprendendo le giuste nozioni per provare a neutralizzarli. Il processo, ovviamente, ha richiesto tempo e diverse centinaia di chilometri percorsi durante i quali, come sono cambiato io, è cambiata anche la città attorno a me. Anche il pavé in un certo senso, finito nelle mani di operai e a volte addirittura sostituito dall’asfalto, ha cambiato volto. La frase di mio padre invece, quella frase pronunciata in quella piacevole giornata di fine maggio, è rimasta dov’era, ancorata solidamente in un angolo della memoria e pronta a riaffiorare alla prima vibrazione prodotta dall’incedere della mia bici sulle pietre.

Ancora oggi mi capita spesso, specialmente laddove i sobbalzi in sella sono più violenti, di sentirla risuonare nei meandri della mia testa e di alzare l’andatura facendo di via Ausonio il mio Carrefour de l’Arbre, di via Mazzini il mio Mons-en-Pévèle e di Corso di Porta Romana il mio personale Camphin-en-Pévèle. Proprio come se fosse un incantesimo, al riecheggiare di quelle parole il contesto della Roubaix riesce per magia a prendere forma sotto i miei tubolari, stuzzicando la mia fantasia e facendomi immaginare come possa essere (e che tragitto possa avere) un eventuale Inferno del Nord “alla milanese”.

Anche se questo rimarrà un semplice sogno, nella realtà a ben vedere non mancano le assonanze e i punti in comune tra quello che ad aprile i corridori professionisti fronteggiano in Francia e ciò che i ciclisti milanesi, con le debite proporzioni, affrontano tutti i giorni lungo le strade della città. Senza fare uno sforzo eccessivo, si può riconoscere con facilità come entrambi abbiano a che fare con lastricati imperfetti, superfici insidiose, punti critici e, addirittura, la presenza o meno di (apprezzati) cordoli lato strada. Questi elementi contribuiscono tutti assieme, nel caso della Roubaix, a classificare i vari settori in base al loro grado di difficoltà, una pratica in cui, magari inconsciamente, anche qualcuno che ha solcato a lungo le vie in pavé di Milano si è cimentato.

Proprio con l’idea di stilare una classifica delle strade in lastricato più ostiche del capoluogo lombardo e avvicinare così la città che ha partorito il Giro d’Italia a quella sita nella regione dell’Hauts-de-France, nei mesi scorsi abbiamo provato a ripercorrere, a mo’ di ricognizione, tutti i tratti in masselli e sampietrini presenti all’interno di quello che, una volta, era il percorso delle mura spagnole di Milano.

La zona delimitata nasconde la stragrande maggioranza delle strade in pavé della città del Manzoni, un luogo dove i problemi creati dal lastricato oggi sono proporzionali tanto ai dibattiti suscitati tra i cittadini quanto al fascino conferito da esso a diversi angoli della metropoli. Il pavé, infatti, ha accompagnato l’evolversi di Milano nell’ultimo secolo diventandone sotto molti aspetti un elemento rappresentativo, un immobile serpente dalle squame di porfido che ha visto scorrere eventi e cambiamenti e che, se seguito nella sua interezza, sa ancora regalare una panoramica completa sulla varie anime di una città in costante movimento.

Al nostro passo (e con un occhio sempre rivolto alla strada), tra un’annotazione e l’altra, abbiamo provato ad apprezzarle tutte scoprendo o riscoprendo strade poco battute e, soprattutto, tratti più o meno sconnessi che, dopo aver valutato lo stato d’indolenzimento delle nostre braccia, ci hanno portato a stilare la graduatoria che potete leggere tra poco. Tale suddivisione, volendo restare assolutamente soggettiva, si presta ovviamente ad essere rigirata a piacimento e a divenire, si spera, spunto per possibili dialoghi e confronti costruttivi su un tema sempre attuale come quello delle condizioni delle strade milanesi.

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Via Torino-Carrobbio-Via Cesare Correnti (1000m): Settore tra i peggiori e più pericolosi della città. Alla difficoltà data dalla lunghezza si aggiungono quelle di un traffico piuttosto sostenuto e di un cordolo non praticabile. Obbligatorio, se si vuole stare in strada, percorrere la schiena d’asino al centro delle rotaie. Al Carrobbio, c’è la possibilità di tornare sulle corsie esterne ma per poco visto che, anche in via Correnti, si è costretti al centro dove il pavé procura qualche sobbalzo in più rispetto a quello di Via Torino.

Via Santa Margherita-Piazza Duomo-Via Mazzini-Corso Italia (1500m): Si parte con un pavé semplice e scorrevole passando da Piazza Duomo. Entrando in via Mazzini la musica cambia visto che si ripresentano due leggere schiene d’asino. Il cordolo affianco alle rotaie è per funamboli, la via più sicura è quella tra le rotaie dove ci si può risparmiare la difficoltà di dribblare spuntoni di pietre molto acuminati. Verso Piazza Missouri la strada si allarga e il pavé si ricompatta. In Corso Italia si ripresenta la situazione vista in via Mazzini ma il pavé è tenuto un filo meglio e consente (anche grazie alla leggera discesa fino a Piazza Sant’Eufemia) un’andatura spedita. Finale leggermente in salita e un pelo più scomodo quello che conduce allo “scollinamento” di via Santa Sofia. Da lì si prosegue in leggera discesa ma la sensazione di scomodità, anche a causa dei metri già percorsi, resta. Sempre nella corsia centrale, a zone irregolari, capita di fare qualche sobbalzo più importante degli altri. In corrispondenza di via Burgozzo una striscia laterale in asfalto consente di mettere fine a questo settore decisamente lungo.

Corso di Porta Romana (1400m): Tratto infinito. Dopo pochi metri da Piazza Missori, tolto l’impiccio delle rotaie, inizia un pavé che sostanzialmente è uguale per quasi l’intero settore e vede la presenza di lastre larghe, compatte ma per nulla levigate. A tutto ciò si aggiunge, nella parte iniziale, una leggera pendenza fino ad incrociare via Sforza, scollinata la quale lo spazio sulle corsie esterne consente di pedalare abbastanza tranquilli. A Crocetta si attraversano nuovamente le rotaie e da qui inizia l’ultima sezione, decisamente complicata. Finché si può stare sulle corsie esterne, la marcia, seppur con qualche sussulto, procede di buon passo. Con la comparsa dei parcheggi laterali (in corrispondenza della scuola Bertarelli-Ferraris) e il restringimento delle corsie esterne è obbligatorio passare al centro dove le cose sono terrificanti. A tratti si compiono dei veri e propri voli che ti spezzano le gambe. Negli ultimi (o nei primi, in senso inverso) 200-300 metri la carreggiata si allarga nuovamente e si può riprendere la corsia laterale.
Altri: Via Meravigli, Via San Giovanni sul Muro, Piazza Resistenza Partigiana-Corso Genova.

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Via dell’Orso-Via Monte di Pietà (600m): Settore a senso unico diviso in due dall’incrocio con via Verdi. Nel primo pezzo non c’è scampo: la vicinanza dei parcheggi obbliga a preferire la corsia centrale tra le rotaie dove il pavé è tutto sommato in discrete condizioni. Tutto cambia dopo via Verdi: la strada si allarga, le rotaie scompaiono ma il pavé diventa molto più sconnesso e i sobbalzi si susseguono con continuità. Il settore termina (per fortuna) all’incrocio con via Chiesa Rossa.

Via Manzoni-Via Santa Margherita (950m): Cardo del centro di Milano dove il pavé non lascia respiro. L’inizio è accettabile, poi verso l’Hotel Armani le condizioni peggiorano con sobbalzi continui e pietre piuttosto sconnesse. Si continua così fino a Via Romagnosi, nei pressi della Scala, dove gli evidenti lavori di manutenzione rivelano un pavé più compatto fino all’incrocio con Via San Protaso. Lungo e sfiancante. Le rotaie almeno non infastidiscono particolarmente.

Via Ausonio (350m): Settore non troppo lungo ma terribilmente sconnesso. Da leggere continuamente. Nelle prime decine di metri sei costretto a giocare con le rotaie inutilizzate: sulla destra lo spazio non manca ma la presenza dei parcheggi consiglia una via più sicura a centro strada. Qui le imbarcate non si contano e la mal disposizione delle pietre (molto evidente) ti obbliga a cambiare continuamente traiettoria per evitare il peggio. All’incrocio con via Carroccio le rotaie lasciano tregua per qualche decina di metri (tornano in fondo) ma la marcia resta complicata.
Altri: Porta Ticinese-Carrobbio, Via San Vittore, Via San Maurilio, Via Cappuccio-Via Luini, Via Broletto.

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Piazza Repubblica-Via Turati-Piazza Cavour (650m): Tratto con masselli larghi, molto compatto e ben tenuto dove i sobbalzi sono minimi e la scorrevolezza è eccellente. Tre stelle perché mediamente lungo e perché il passaggio nei pressi di Radio 105 comporta l’attraversamento delle rotaie.

Corso di Porta Vigentina (450m): Tratto a lastre larghe piuttosto irregolari, specie vicino alla circonvallazione interna. In quel pezzo si affrontano balzi piuttosto accentuati, per il resto il settore è abbastanza scorrevole e in leggera salita verso Crocetta (al contrario dal lato opposto). Per chi non vuole cimentarsi nello zig-zag tra le rotaie è preferibile imboccare e tenere in entrambi i sensi di marcia la corsia centrale.
Altri: Corso Magenta (fino ad angolo Via Carducci), Via Vico-Olivetani, Via Olivetani- Via San Vittore, Moneta-Ambrosiana-Sepolcro-Bollo, Via Santa Marta, Foro Bonaparte, Via Mercato-Via Ponte Vetero, Via Cusani, Via San Marco ang. Castelfidardo-Via Solferino, Via Battisti-Largo Augusto, Via Lamarmora, Via Armorari-Via Spadari.

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Corso Magenta (fino a via San Giovanni sul Muro), Cordusio-Via Orefici, Piazza S. Ambrogio (lato questura)-Via S. Valeria, Via Circo-Via San Sisto, Piazza San Marco-Corso Garibaldi, Via De Amicis-Corso Genova, Via Carroccio, Via Cesare da Sesto, Via Castelfidardo-Via San Marco, Via Olmetto, Via Cordusio, Via Bocchetto.

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Piazza S. Ambrogio (lato case), Via Dante, Via Sacchi, Via Brera, Via San Protaso, Via Porrone, Via San Marco-immissione angolo Via Castelfidardo, Via Chiossetto, Via Corridoni, Via della Palla, Piazza Sant’Alessandro, Via Lupetta, Via Zebedia, Via delle Asole, Via Cardinal Federico, Via Valpetrosa, Via Fosse Ardeatine, Via del Bollo e Via dell’Ambrosiana, Via della Posta, Giro Piazza della Borsa, Via Santa Maria Fulcorina.

 


Nella mente di Silvia Persico al Fiandre

Giusto qualche giorno fa, Davide Arzeni, detto "Capo", direttore sportivo della UAE Adq, ha detto un grazie particolare a Silvia Persico e l'ha motivato così: «Grazie perché è stato bello sognare, non mollare mai». Arzeni si riferiva a domenica pomeriggio, alla Ronde van Vlaanderen e alla prova di Persico. Probabilmente, il momento in cui è stato più bello sognare è stato proprio quando Lotte Kopecky, Marlen Reusser e Lorena Wiebes, sul Koppenberg, hanno messo in riga tutte le avversarie, andandosene via di convinzione e prepotenza. Tre atlete, tutte e tre del team SD-Worx, già, ma non sono sole. Con loro c'è una ragazza dalla maglia dai colori simili, ma diversi: è Silvia Persico. L'unica atleta a tenere il passo della corazzata.

A dire il vero, Silvia Persico ci racconta che il sabato pomeriggio non si sentiva proprio bene. Si sentiva strana, ma prima delle gare succede spesso. Nel tempo si è convinta che il suo corpo metta in atto una sorta di meccanismo di "risparmio energetico", quasi automatico, prima delle prove importanti. Per questo il giorno precedente ci si sente spenti: «Il venerdì abbiamo massaggi più intensi, se c'è la corsa. Credo che dopo quelli, i miei muscoli si mettano in una sorta di standby fino alla gara». Proprio perché conosce questo meccanismo, Persico alla partenza di domenica era tranquilla, della serie: "vediamo come va". Almeno questa è la sua prima risposta, poi, però, arriva la seconda che è, forse, la più vera.

«Sai, negli ultimi tempi, ho visto molte gare da casa, dall'altura, e non è sempre facile guardare le altre che gareggiano, anche se sai che ti stai preparando pure tu. Vedevo le gare e notavo questo dominio SD-Worx, soprattutto al Nord. Non nego che ci ho pensato: "Quando torno, voglio far vedere che ci sono anche io, che ci siamo anche noi. E, se vogliono batterci, devono sudarsela». Ecco, in quel momento, nel momento in cui Arzeni (e non solo) sogna, la promessa è mantenuta, tanto più che Reusser e Wiebes lasciano il gruppetto e davanti restano solo in due: Kopecky e Persico.

Ronde van Vlaanderen - Tour des Flandres 2023 - Women 2023 - 20th Edition - Oudenaarde - Oudenaarde 156,6 km - 02/04/2023 - Lotte Kopecky (BEL - Team SD Worx) Marlen Silvia Persico (ITA - UAE Team ADQ) - photo Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2023

Così Silvia Persico si attacca alla radiolina: «Davide, cosa devo fare? Cosa faccio?». La risposta è chiara: collabora. «Chiedo sempre come muovermi, cosa fare, per me è importante il consiglio di chi ci segue, anche perché, in corsa, capitano momenti in cui non si è lucidi». In quel momento no, Persico sta bene, Kopecky fa un buon ritmo, ma lei lo tiene con apparente facilità. Le concede anche cambi e il loro vantaggio sul gruppetto inseguitore cresce. Si stupisce anche lei: «Non correvo sulle pietre da un anno e il giorno prima avevo provato tutti i settori in pavè a ritmo gara per ritrovare la pedalata. Devo ammettere che non ho un particolare modo di pedalare sulle pietre, mi viene naturale. Però, ecco, dopo un anno, erano sensazioni perfette».

Metro dopo metro, pietra dopo pietra, muro dopo muro e chilometro dopo chilometro, la fatica inizia a consumare e Persico se ne accorge. Non può farsi capire da Lotte Kopecky, ma il suo corpo non la inganna: le energie stanno iniziando a mancare. Non siamo ancora sul Kwaremont: «Non puoi farci molto quando succede così. Ho preso un gel, mi sono aggrappata a lui. Tavolta la lampadina si spegne in un colpo solo, un vuoto totale dal nulla, talvolta invece lancia dei segnali. Questa volta i segnali c'erano tutti». Per giunta nel momento peggiore, perché sul Kwaremont ci si aspetta l'attacco di Kopecky.

Così avviene: Lotte Kopecky forza l'andatura, aziona il turbo e Persico perde contatto. In molti hanno notato uno scivolamento della sua ruota sul bagnato, lei lo ammette, ma precisa: «Vero, c'erano tratti bagnati abbastanza infidi. La ruota è scivolata, però non mi sono staccata per quello. Mentirei se lo dicessi. Quel gel non è stato abbastanza e appena il ritmo è aumentato le mie gambe mi hanno lasciato». Spiega che non sarebbe servito molto, parla di "tre minuti di autonomia in più" sufficienti, forse, per vedere un altro finale. Proprio lì, la lucidità se ne va. Per la stanchezza, per la fatica, forse anche per la sensazione di aver buttato via una possibilità.

Ronde van Vlaanderen - Tour des Flandres 2023 - Women 2023 - 20th Edition - Oudenaarde - Oudenaarde 156,6 km - 02/04/2023 - Lotte Kopecky (BEL - Team SD Worx) Silvia Persico (ITA - UAE Team ADQ) - photo Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2023

«Non so nemmeno esattamente cosa mi dicessero dall'ammiraglia. Ricordo che ripetevano di stare tranquilla, di provare per il podio, ma che sarebbe stata una grande giornata a prescindere, ma non ricordo molto. Ero in confusione». Persico prova ad andare del proprio passo, sperando di tornare su Kopecky, invece è il gruppetto di Reusser, Vollering, Longo Borghini, Niewiadoma e Labous, a rientrare su di lei: «Mi chiedevano cambi e io li saltavo. Non perché non volessi, ma perché non riuscivo. Avevo timore nell'affrontare i tratti in discesa, le curve. Non mi sentivo sicura. Ero svuotata».

Ronde van Vlaanderen - Tour des Flandres 2023 - Women 2023 - 20th Edition - Oudenaarde - Oudenaarde 156,6 km - 02/04/2023 - Silvia Persico (ITA - UAE Team ADQ) - photo Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2023

Sebbene, per sua stessa confessione, Silvia Persico non sia solita rivedersi, non le piace nemmeno, questo Fiandre lo ha rivisto con attenzione e con l'occhio di chi sa che il passato serve al futuro. Quando lo ha rivisto, ha avuto la consapevolezza di aver impostato in maniera errata la volata che poi le ha consegnato il quarto posto, a un passo dal podio: «Curavo Reusser, poi la volata l'ha fatta Vollering e anche Longo Borghini mi ha superato. Ero di una posizione indietro, forse anche essendo più avanti di mezza bicicletta, sarebbe andata meglio». Felice sì, ma di quella felicità agrodolce, Persico aggiunge che la sua famiglia è soddisfatta ma, in fondo, sa che anche per loro un pizzico di delusione c'è, dopo una corsa così. Suo fratello le ha scritto: «Ti rendi conto che stavi correndo il Fiandre? Ti rendi conto di cosa sei riuscita a fare al Fiandre?». Anche mentre chiacchiera con noi, Silvia ci pensa, forse se ne convincerà.

La testa ora è alle Ardenne: non ha mai corso queste gare. Una volta è partita, ma, poi, si è ritirata causa infortunio ad una mano. Insomma, nel mirino Amstel, Liegi e Freccia? «Sì, più Amstel e Liegi, probabilmente. Anche se, tra le due, sono più da Amstel. Ora so cosa mi è mancato qui. All'Amstel avrò qualcosa in più, una nuova esperienza. Ci rivediamo lì». Sì, ci rivediamo proprio lì.


Inno ai fondisti

Caro lettore, anzi carissimo, ciò che segue non vuole essere una spiegazione sui fatti di domenica 2 aprile 2023,  su ciò che è accaduto nei quasi 280 km tra Bruges a Oudenaarde, una strada che fa a spallate tra muri, stradone e stradine, su e giù, destra e sinistra e poi prende un nome che nell'appassionato suona come il titolo di un'opera unica: De Ronde Van Vlaanderen. No, niente di tutto questo: perché di quella corsa ne avrete già pieni gli occhi e colma la testa di nozioni, istruzioni, punti di vista e racconti.

Ciò che sta per arrivare non ha la minima intenzione di entrare nel dettaglio e cercare di capire come e perché, ancora una volta, il ciclismo che stiamo vivendo ci esalta e ci tiene incollati dal primo all’ultimo chilometro - e il Fiandre di domenica 2 aprile 2023 ne è stato perfetto emblema.

D’altra parte come poteva la corsa più bella del mondo che premia atleti completi sotto ogni aspetto non essere il simbolo di un ciclismo che ha preso una strada che non vuole mollare per nessun motivo al mondo? (E giuriamo che non oggi, non in questa sede, parleremo di malinconia e nostalgia, di tempi che ci sono e che prima o poi non saranno più e per questo motivo dobbiamo goderceli appieno).

La strada che ha reso il ciclismo uno spettacolo (ci illudiamo: più vendibile di quello che è stato negli ultimi due decenni) che ci lascia a bocca aperta e ci fa perdere verso esclamazioni del tipo: “Santocielo! ma cosa stiamo vedendo!”, “Che gara pazzesca!”, eccetera.

No, caro lettore, anzi carissimo che hai come sempre la pazienza di seguire i nostri pensieri contorti, le poche righe che seguono vogliono essere un inno ai fondisti, a quei corridori che grazie a doti perlopiù innate e rifinite col tempo, riescono a tirare fuori il meglio in gare che superano i 230, i 250 km di corsa; quei corridori che, quando in gruppo si raschia il barile fino a far sanguinare le unghie, hanno qualcosa in più, quei corridori che dopo cinque, sei ore di sofferenza ciclistica, portano quella fatica estrema su un altro piano e ci convivono meglio di altri perché madre natura li ha graziati rendendoli perfettamente adatti proprio a una corsa come il Giro delle Fiandre di settimana scorsa, quelli che più la corsa è dura, lunga, complessa per tanti motivi (ritmo, clima, situazioni legate a cadute), hanno qualcosa in più di tre quarti di gruppo - e alcuni di loro saranno subito di nuovo protagonisti alla Roubaix.

Sono quei corridori alla Mads Pedersen, uno che a 24 anni toccava appena palla nelle corse normali e poi invece lo trovavi vincitore di un Mondiale tra i più complessi della storia recente per lunghezza e meteo, corso tutto al freddo e sotto il diluvio, dove diventava complicato alimentarsi bene, quasi al buio, un corridore che  senza conoscerlo abbastanza te lo ritrovavi 2° al Fiandre. È diventato il massimo esponente di una scuola (una Sacra Scuola, ha detto qualcuno) che negli anni ha visto Alexander Kristoff il suo totem: le corse sopra i 250 km come parco giochi dove far valere rispetto ad altri le proprie qualità. Mads Pedersen attacca ai 112 chilometri dall’arrivo e porta via la fuga decisiva e poi di nuovo parte da solo quando ne mancano diciannove pensando di potercela fare nel resistere al ritorno di quei due diavolacci impertinenti che dietro staccavano tutto quello che restava del povero gruppo. Aveva detto, Pedersen, corridore che a un certo punto della sua carriera, ben dopo il Mondiale vinto, ha fatto click e di conseguenza un salto di qualità enorme, che per vincere doveva anticipare. C'è quasi riuscito.

Sono quei corridori alla Neilson Powless, fondista eccezionale come sta dimostrando negli anni e come dimostra uno storico che nelle corse di un giorno dice: 1° San Sebastian (2021), 3° alla Dwars (2023, suo esordio tra i professionisti sulle pietre), 5° al Mondiale (2021), 5° al Fiandre l'altro giorno, 7° alla Sanremo (2023), 8° alla Liegi (2022) e buttiamoci dentro anche il 12° posto finale al Tour dello scorso anno. Una delle più liete sorprese delle ultime tre stagioni.

Ronde van Vlaanderen 2023 - Tour des Flandres - 107th Edition - Brugge - Oudenaarde 273,4 km - 02/04/2023 - Neilson Powless (USA - EF Education - EasyPost) - photo Luca Bettini/SprintCyclingAgency©2023

Kasper Asgreen, che nel momento più buio della storia della sua squadra tira fuori una prestazione che pensavamo non fosse più nelle sue corde e anche lui sui muri sembrava annaspare, poi bastava un cambio di inquadratura e te lo ritrovavi scollinare per primo. Oppure Fred Wright, altro che si è visto poco fino all’altro giorno e in una corsa così chiude di nuovo nei primi dieci esattamente come un anno prima: un britannico perfettamente tagliato per le pietre del Nord come non se ne vedono spesso.

E che dire di due come Stefan Küng e Matteo Trentin: loro fanno valere l’esperienza, loro fanno valere l’affinità con queste gare, loro guarda caso su quel podio del Mondiale vinto da Pedersen quella volta lì e non stiamo di certo a rivangare, non di nuovo. Loro con ruoli e caratteristiche diversi - uno capitano passista, l’altro uomo squadra veloce e se il ciclismo fosse uno sport solo di testa e lettura della gara, allora Matteo Trentin sarebbe il numero uno al mondo. E che dire di Matteo Jorgenson: 24 anni, americano come Powless, davanti in una corsa così a questi livelli a dimostrazione di essere uomo da gare dure lui che trova affinità anche col maltempo e con un dislivello elevato. Senza scomodare uno che riscrive i numeri di questo sport, Pogačar, va beh, che ha portato sul suo piano la corsa: per staccare i due van voleva gara dura e così è andata, così ha fatto, inventandosi un numero sull'Oude Kwaremont che ricorderemo per anni.

Non ce ne vogliano quei corridori che sopra un certo chilometraggio ancora non riescono ad esprimere al massimo il proprio potenziale (pensiamo a Pidcock), quei corridori che magari in una carriera non ci riusciranno mai, perché qualcosa si può affinare, vedi gli allenamenti, le tecniche di ogni genere, l’alimentazione, la testa, l’esperienza, eccetera, ma oggi la nostra storia, cari lettori, anzi carissimi, e dedicata a loro, ai fondisti, perché si nasce così, e in uno sport di fatica (perdonate la banalità) ormai le rare volte che si superano tot ore di gara vengono fuori loro, e corse come quelle di domenica al Fiandre esaltano il pubblico ma fanno brillare anche loro, adatti a stare in sella e dare sberle a tutti (dopo averne prese parecchie) per tante ore di fila. Anche se poi come ha scritto Trentin l'altro giorno, alla fine ciò che resta per tutti: "è un gran mal di gambe".

PS: e domenica alla Roubaix,  dal punto di vista del fondo ne vedremo ancora delle belle.


Prosecco e speranze: quei pomeriggi in mezzo al ciclismo

Al primo piano dell’azienda agricola Le Volpere di Col San Martino c’è una maglia in una teca. Una maglia tricolore in una teca di vetro, per la precisione. Unico oggetto su un’intera parete, è giustificata da una piccola targhetta, ma nessuno la legge: chi frequenta la stanza sa benissimo vita, morte e miracoli di quella maglia tricolore. Appartenne a Guido De Rosso, il più forte ciclista di sempre di Col San Martino.

In questa frazione di Farra di Soligo, mi spiega Mario, nipote di Guido, il cognome De Rosso è piuttosto comune. Col San Martino non fa comune, anche se ha circa 4000 abitanti, è benestante e tanto grazioso che stride ridurlo al ruolo di frazione. C’è stato un momento, addirittura, mi dice tra le righe Mario De Rosso, in cui Col San Martino era per il ciclismo italiano ciò che era New York per il basket americano: la Mecca del gioco. Guido De Rosso vinse il Tour de l’Avenir del 1961 e – erano tempi diversi – tornò a casa in treno. Scese a Cornuda, una ventina di chilometri a sud-ovest di Pieve di Soligo e non si sa come tutti erano al corrente che quel valoroso ciclista sarebbe sceso dal treno. Ogni paese brulicava di gente a bordo strada per salutare il giovane campione.

Arrivato finalmente a Col San Martino, vi fu una grande festa in piazza. Mario mi mostra una foto incredibile di suo zio tenuto sulle spalle da qualche tifoso. Sbuca col petto dalla folla, che lo acclama: tutti sembra vogliano fargli le congratulazioni, gridargli evviva, toccarlo. Un braccio proteso ci riesce, mentre una bambina è a cavalcioni sulle spalle degli adulti per poter ammirare la ventunenne speranza del ciclismo italiano. Da tutte le finestre si affacciano le persone, De Rosso tiene in mano e sventola orgoglioso un bouquet di fiori. Fausto Coppi era morto da poco più di un anno e il corridore più forte del mondo, nei primi anni Sessanta, non solo non era italiano, ma era pure francese: Jacques Anquetil. A Col San Martino bastava Guido De Rosso.

De Rosso è passato professionista e ha avuto successo. Due Milano-Vignola, un Giro del Piemonte, due Trofeo Matteotti, un podio finale al Giro d’Italia: nel 1964, l’anno in cui forse andò più forte. Mario ricorda soprattutto un aneddoto che gli raccontava lo zio: al Giro del Trentino del 1963 (all’epoca si correva su giornata unica) nei chilometri finali Ercole Baldini gli disse «Guarda Guido, tirami la volata e ti do diecimila lire». Forse pensando di non potercela fare, De Rosso accettò. Tirò per tutto il chilometro finale, tirò fino a che non sentiva male ai polmoni, tirò la volata finché non chiuse gli occhi per la fatica. Quando li riaprì, vide la linea bianca sotto la ruota anteriore. Si voltò, Baldini era dietro. Guardò avanti a sé: non c’era proprio nessuno. Aveva vinto lui. Dopo il traguardo Baldini gli disse che se le poteva anche sognare, quelle diecimila lire.

«Ricordo benissimo i pomeriggi d’estate con mio zio e mio padre a mangiare anguria e guardare il ciclismo» dice alla vigilia del 74° Trofeo Piva il presidente dell’A.C. Col San Martino, società organizzatrice della corsa, Mario De Rosso. Il giorno della gara si sarebbe svegliato al più tardi alle 5:30 e il giorno dopo è dappertutto: lo trovo al pranzo con la polizia e la scorta tecnica, sulla salita di Combai dove uno sponsor regala a tutti flûte di Prosecco (gentilezza di cui ho abusato), all’arrivo e alle premiazioni, ad oltranza.

Una persona che invece non mi aspettavo di trovare alla partenza di Col San Martino è Gianni Savio. La squadra del Principe non partecipa, ma lui è qui a parlare con chiunque. Trentacinque squadre al via realizzano un notevole via vai di persone, mezzi di corsa, meccanici: la giostra colorata intasa tutta piazza Rovere. Di tutti i corridori presenti, Tyler Hannay è particolarmente interessante. Viene dall’isola di Man e vive a Lamporecchio perché corre con la Mastromarco, ha svariati denti sbeccati da cadute in bici e voglia di correre perché, abituato al freddo britannico, questi nuvoloni neri senza pioggia equivalgono per lui ad un clima quasi tropicale. Nicolò Buratti del Cycling Team Friuli è arrivato secondo alla Gent-Wevelgem pochi giorni fa ed è quindi uno dei favoriti per la corsa di oggi: «Credo di essere, sì, tra gli uomini più forma». Non ha i guanti e sta iniziando a piovere: sto andando a metterli, assicura, anche se dopo il tempaccio belga non teme più nulla.

La corsa è massacrante. Circa 3000 metri di dislivello disposti su quasi 180 chilometri sono un’enormità per la categoria. Nove volte Combai (2,2 km al 7,4%) e tre volte, nel finale, il terribile strappo di San Vigilio (mezzo chilometro al 12%, con punte al 22% e in parte cementato) selezionano i corridori giro dopo giro. È una corsa a eliminazione sulla quale, per la gioia di molti corridori, è spuntato uno splendido sole che ravviva il verde delle colline del Prosecco. L’ultima ascesa verso i cipressi affianco la chiesetta di San Vigilio è affrontata benissimo da Alessio Martinelli della Green Project-Bardiani, Sergio Meris della Colpack e Davide De Pretto della Zalf. In discesa, però, ripidissima picchiata verso il centro di Col San Martino, rientra Giacomo Villa della Biesse-Carrera e anticipa la volata, beffando i tre di testa.

Nel ricostruire il concitato finale, Alessio Martinelli confessa che negli ultimi 500 metri non c’era accordo nel terzetto di testa. Lui ha sfruttato il lavoro dei compagni di squadra Pinarello e Pellizzari, ma si è fatto sorprendere: «Il rientro di Villa, ai 300 metri penso, mi ha colto alla sprovvista. È partito subito, quindi sono partito anch’io, ma era troppo tardi. Per rientrare dev’essere andato fortissimo in discesa». Mentre finisce la frase, il massaggiatore della Green Project-Bardiani («il signor Piro, Piro per gli amici») tira fuori un asciugamano e glielo passa energicamente sul viso, ripulendolo da sudore e polvere.

Sul palco, Martinelli è più che presentabile. Giacomo Villa è al settimo cielo, ma composto. Non è una vittoria arrivata a caso: è andato molto forte al GP Industria di Larciano e un suo compagno di squadra, Anders Foldager, ha già centrato il podio in una corsa tra i professionisti, la Per Sempre Alfredo. Con Foldager avevo parlato già allo scorso Trofeo Piva, quando mi aveva stupito per determinazione a parole e grinta sui pedali. Quest’anno è un po’ diversa: «Arrivo da una settimana di raffreddore e febbre», mi dice in partenza. All’arrivo, invece, descrive con una sola parola la sua corsa: «Fuck». È contento di aver aiutato Villa, certo, ma gli ho di nuovo visto negli occhi quel guizzo del vincente, quello per cui "ok ha vinto un mio compagno ma volevo vincere io", che lo farà andare lontano al piano di sopra.

Villa è stato tatticamente perfetto nel finale, ma proprio negli ultimi metri ha avuto un brivido. L’arrivo è leggermente in salita e non appena si è assicurato della vittoria si è alzato sul manubrio per festeggiare emulando le ali di Wout van Aert a Calais. Così facendo ha rischiato di cadere e di perdere la volata. «Proprio ieri ho visto il video di Van Aert che esultava facendo il condor: non ricordo quale tappa fosse, ma mi è rimasto in mente. Allora ho pensato lo faccio anch’io. Poi mi sono girato, ho visto Martinelli e mi sono rimesso a pedalare». Non sa di quanto ha vinto, quindi magari non ci sarebbe stato bisogno di tornare a pedalare, ma l’arrivo gli «sarà di lezione». Ha vissuto un momento di terrore, certo, ammette in modo più colorito.

Di tutte le cose che è stato il 74° Trofeo Piva, due pianti mi rimarranno impressi. Sono molto diversi tra loro. Il primo è quello di David Ruvalcaba, messicano 9° all’arrivo, alla prima prestazione di questo livello in una corsa internazionale. I suoi compagni della AR Monex lo hanno circondato e riempito di complimenti e a un certo punto David non è più riuscito a trattenere le lacrime. Il secondo pianto, invece, è quello della signora Franca del Ristoro Collagù, un delizioso posticino in cui sfamarsi sulle colline del Prosecco. Quando le chiedo delle origini di quel capanno adibito a locanda, risponde che era il sogno di Andrea Bortolin, agricoltore travolto da un trattore in una vigna poco distante. Bortolin aveva lavorato molto per la promozione del territorio, che dal 2019 è tra i Patrimoni dell’umanità UNESCO e la cui cura va molto oltre la produzione del vino, come assicurano Silvia dell’azienda agricola Riva Granda o Luca, cerimoniere della Confraternita di Valdobbiadene.

Il lavoro in questi vitigni particolarmente scoscesi è definito non a caso eroico: al piano terra dell’azienda agricola Le Volpere di Col San Martino c’è una scritta, grossa, che sintetizza bene le persone che lavorano qui: «Viticoltori di pendio». Salite, biciclette, Prosecco: il Trofeo Piva è la più precisa rappresentazione di una parte di Veneto tanto bella che non sembra vera.

Foto: Alessio Pederiva