Sangue e Arena
La Vuelta 2023 è partita con una startlist di livello eccellente, praticamente il meglio - o quasi per i grandi giri - a eccezione di Pogačar e qualche nome di contorno. La Vuelta 2023 però nei primi giorni si è distinta per situazioni che si potrebbero definire bizzarre, se non altro perché poi sono finite tutte “bene”. Bizzarre, sì, a tratti sgradevoli, altro eufemismo, per corridori e spettatori. Sono partiti con la cronosquadre corsa al tramonto, pericolosa, per le vie di Barcelona, con una pioggia fortissima che ha condizionato una gara che man mano andava avanti e più evidenziava la scarsa visibilità - oggi è la giornata mondiale dell'eufemismo. La prossima volta consigliamo a chi si mette in bici per questi esercizi di portarsi dietro una luce di quelle potenti, un po’ come facciamo noi ciclisti della domenica.
Da giorni si conoscevano le condizioni del meteo, si sapeva che le nuvole avrebbero scaricato proprio in prossimità dell’inizio della gara o quando la stessa sarebbe stata in pieno svolgimento: non si sarebbe potuto anticipare? La risposta la conosciamo già, così come i motivi che fanno rima con avaro e amaro ed è quella cosa che fa girare il mondo. Il paradosso è stato che, per rispettare la scaletta, è andata in scena una corsa che di tecnico, interessante e spettacolare non ha avuto assolutamente niente. Poi ci sarebbe anche un altro discorso da fare, forse non è il caso oggi, ma ci buttiamo lo stesso: la cronosquadre è interessante, ma a oggi il divario fra due tre squadre e il resto del mondo è netto. Solo la pioggia e le cadute e l’attenzione particolare (cautela) che a tratti hanno messo alcuni uomini di classifica ha fatto sì che si mescolassero le carte.
Il giorno successivo è grottesco. Si decide, a causa del maltempo che ha continuato a non dare tregua alla Catalunya in quei giorni, di neutralizzare il finale di corsa. In pratica ai piedi del Montjuïc, celebre scalata nella periferia di Barcelona, inserita per rendere spettacolare e brioso il finale della seconda frazione delle corsa a tappe spagnola, viene preso il tempo per la generale, lasciando gli ultimi nove chilometri - salita e discesa, ritenuta pericolosa a causa della pioggia - alla lotta per la sola tappa. E quello che si è visto non è stato proprio il massimo: in pratica va via un gruppetto di ribelli che si gioca la vittoria, manco fosse una kermesse post Giro con tre quarti di gruppo che si alza e sfila fino al traguardo a passo di amatore - amatore scarso, tipo chi scrive.
Ben venga la vittoria di Andreas Kron, corridore perfettamente a suo agio su arrivi del genere, che dedica il successo a Tijl De Decker, scomparso qualche giorno prima mentre si stava allenando in bici. Scomparso per la solita disattenzione di qualcuno che guida un'automobile. De Decker aveva da poco compiuto 22 anni e questa primavera aveva vinto la Roubaix per Under 23. Andava forte, e l’anno prossimo avrebbe compiuto il passaggio dalla squadra Development della Lotto a quella dei grandi. Nel 2024 sarebbe stato compagno di squadra di Andreas Kron. E quindi ben venga il successo di un bel corridore come Kron, e la dedica. Giorni, ancora, difficilissimi per chi corre in gruppo, e ce ne saranno ancora e sempre, per chi segue questo maledettissimo sport. Tornando alle cose più futili, tornando alle cose di Vuelta: vedere il gruppo sfilare a nove chilometri dall’arrivo in totale tranquillità non è stato il massimo, seppure i corridori abbiano le loro ragioni. Forse quello che stiamo vivendo è un momento di passaggio a cui ci dobbiamo semplicemente abituare, ma resta il fatto che Kron, la discesa del Montjuic l’ha pennellata, l’ha fatta a tutta prendendo i suoi rischi, e dopo aver aperto un piccolo gap sul tratto di salita, proprio in discesa, ha fatto la differenza sostanziale. In realtà la parte grottesca della faccenda arriva ora, perché non voglio discutere delle scelte prese dai corridori o da chi li rappresenta, semmai parliamo di come viene prodotta la Vuelta, organizzata: intanto le immagini che arrivavano dall’elicottero. Più che dall'elicottero parevano arrivare da Chandrayaan-3, la sonda mandata sulla luna dall’India, che non permettevano nemmeno agli occhi più sensibili di capire cosa stesse succedendo. E poi il capolavoro dei capolavori, da fare impallidire le sceneggiature del grande cinema europeo di metà novecento. Ebbene, la giuria si è persa il passaggio dei corridori al GPM (che dava secondi di abbuono per la classifica generale, perché, nonostante la neutralizzazione del tempo ai piedi della salita, gli abbuoni sarebbero stati comunque dati) e ha fermato gli spettatori chiedendo se qualcuno avesse filmato il passaggio - questo, potrebbe essere stato il video usato proprio dalla giuria https://twitter.com/FForradellas/status/1695851892532732206 per registrare quei passaggi poi fondamentali ai fini della classifica generale, classifica generale che vedrà, diversi minuti dopo la fine della tappa, al primo posto Andrea Piccolo.
Ma non è finita qui, perché tanto si parla di sicurezza e si fa di tutto perché i corridori possano correre meno pericolo possibili che alla fine uno dei corridori più importanti del gruppo rischia di farsi seriamente male dopo aver vinto con autorità il primo arrivo in salita. Il terzo giorno, infatti, subito dopo il traguardo di Andorra, c'è un tratto di leggera discesa, poca via di fuga, non c’è spazio a sufficienza per Evenepoel che, dopo aver esultato battendosi la mano sul petto non fa in tempo a frenare finendo per schiantarsi contro una donna presente nella calca che si trova spesso alla fine di ogni traguardo, tra giornalisti, soigneur ,eccetera. Si teme il peggio per un attimo, ma Evenepoel con la faccia completamente insanguinata mantiene un certo savoir-faire (sicuramente aver vinto e preso la Roja ha aiutato a calmare il suo temperamento e una sua possibile dura reazione, probabilmente la botta stessa ha contribuito a tenerlo quasi un po’ spaesato) lasciandosi andare solo nell’intervista di rito al vincitore: «Non ne posso più, mi sto seriamente rompendo le balle. Ogni giorno ce n’è una… posso solo dire che spero che la signora stia bene». A noi Remco piace così.
Poi succede anche che, secondo quanto riportano i media spagnoli, il quarto giorno venga “sventato un sabotaggio ai danni della corsa, quattro persone arrestate e sequestrate alcune taniche con dentro circa 400 litri di olio pronti per essere riversati sulla strada”.
Insomma la Vuelta ha fatto la Vuelta, signori, incrociamo le dita per i prossimi giorni.
Foto in evidenza: ASO/UNIPUBLIC-Sprint Cycling Agency
Il questionario cicloprostiano di Alice Maria Arzuffi
Il tratto principale del tuo carattere?
Determinazione
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Rispetto e positività
Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Intraprendenza
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Semplicità
Il tuo peggior difetto?
Fissarmi sul negativo quando qualcosa non va come dovrebbe - overthinking
Il tuo hobby o passatempo preferito?
Cucinare
Cosa sogni per la tua felicità?
Una famiglia felice e un lavoro che mi dia soddisfazione
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Perdere i miei cari
Cosa vorresti essere?
Me stessa, più sicura o forse la nostra cagnolina Gina
In che paese/nazione vorresti vivere?
Italia
Il tuo colore preferito?
Rosa
Il tuo animale preferito?
Cane (bassotto)
Il tuo scrittore preferito?
Carlos Ruiz Zafón
Il tuo film preferito?
Harry Potter / A star is born
Il tuo musicista o gruppo preferito?
Rihanna - Lady Gaga - Cesare Cremonini - Vasco Rossi: difficile sceglierne uno
Il tuo corridore preferito?
Wout Van Aert
Un eroe nella tua vita reale?
Mio papà
Una tua eroina nella vita reale?
Mia mamma
Il tuo nome preferito?
Giulio / Adelaide
Cosa detesti?
Fare la valigia
Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Hitler
L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Mathieu van der Poel, Amstel Gold Race 2019
Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Mondiale /Olimpiade
Un dono che vorresti avere?
Teletrasporto
Come ti senti attualmente?
Bene, serena
Lascia scritto il tuo motto della vita
Soffrire/rinunciare oggi per godere domani
Seguendo il flow: Giulia Baroncini è arrivata a Chicago
Di Giulia Baroncini e del suo viaggio in bicicletta, da Trecenta, paese in cui è nata, a Chicago, sulle orme del viaggio di 130 anni fa, di Luigi Masetti, vi avevamo raccontato un paio di mesi fa, prima della partenza, ma, come molti dei fatti della quotidianità, l'arrivo di Giulia a Chicago, a inizio agosto, è stato diverso da come se l'era immaginato lei e da come, scrivendone, ce lo eravamo immaginato anche noi, così, al settantaquattresimo giorno lontano da casa, dalla camera riservata agli ospiti di una casa di Cleveland, una videochiamata ha riavvolto il filo del racconto. «Sto da Dio, altrochè» esclama decisa, seduta su una sedia, con una camicia hawaiana ed in mano una tazza di caffè ancora caldo, negli Stati Uniti è mattina presto, sul soffitto della camera un ventilatore le cui pale, ora, sono ferme.
«Da Chicago sono ripartita giusto l'altro ieri, avrei dovuto fermarmi tre o quattro giorni, mi sono fermata per dieci giorni e, quando sono ripartita, ero dispiaciuta, ma non era iniziata così bene. Qui non sono abituati al bikepacking, così, se vedono qualche viaggiatore in sella, lo fermano tutti e fanno le più svariate domande. A Chicago no, a Chicago mi fermavano tutti e mi dicevano solo "be careful", stai attenta. Queste parole sono state uno schermo attraverso cui, almeno nei primi giorni, ho vissuto la città. Sapevo che la città poteva essere abbastanza complicata, a tratti pericolosa, non così, però. Alla fine, come altrove, sono state le persone a salvarmi dalle paure». Giulia Baroncini spiega che senza gli incontri, probabilmente, sarebbe potuto anche essere noioso, perché una camera d'albergo ed il paesaggio non possono bastare a colmare le giornate di un viaggio. Le persone l'hanno salvata, portandola a fare kayak e mostrandole la città mentre si muovevano su un fiume, oppure accompagnandola in vetta ad un grattacielo per guardare tutto dall'alto, ad un concerto jazz o su una ciclabile accanto al fiume: «Questi due mesi per me sono stati molto intensi, sembrano passati anni da quel nove giugno. Ero arrivata ad un punto di saturazione, forse anche per questo quel "be careful" mi aveva spaventato più del solito, ero stanca. Chicago mi ha ricaricato, le sue persone mi hanno ricaricato e adesso, al pensiero che fra un mese sarà finito tutto, provo già una sorta di malinconia. Non fatevi influenzare da quel che dice la gente, non troppo almeno, vivete le esperienze sulla vostra pelle. Ricordatelo».
Proprio ricordando questo principio, Giulia Baroncini ha preso una decisione: da Chicago è salita su un treno e a Cleveland è arrivata in treno. Quelle strade, quei drittoni, nel nulla, campi, case e asfalto, li aveva già percorsi all'andata, e ora sa cosa è giusto fare: «Non devo fare numeri, non mi interessa tornare a casa e vantarmi dei miei 8000 chilometri in bicicletta, preferisco farne meno, ma gustarmeli. Mi spiego? Voglio dare qualità al mio tempo. Avrei perso l'entusiasmo di pedalare per continuare a chiedermi quando sarebbe finita. Non aveva alcun senso». Qui Baroncini si sofferma per qualche minuto: «Gli americani parlano di "get a feeling", avere una sensazione, provare qualcosa, ascoltare te stesso: ecco, noi dovremmo vivere e viaggiare così. Seguendo il "flow", il flusso, di quel che c'è e di quello che proviamo e, se non sentiamo nulla di buono, forse, dovremmo anche trovare il coraggio di lasciar perdere, di andare altrove, di fare altro. Dobbiamo fare qualcosa per noi, per essere felici». Così, il tempo risparmiato percorrendo quei 500 chilometri in treno Baroncini lo utilizzerà per fermarsi qualche ora in più con le persone con cui si trova bene, per vedere meglio una città. Già altre volte avrebbe voluto farlo e non lo ha fatto, adesso questa occasione non la perderà più.
Intanto a Cleveland, i proprietari di casa, che già l'avevano ospitata all'andata, le organizzano le giornate e lei resta senza parole: partite di baseball, gite e, qualche giorno fa, il giro "Little Italy", con amici italo-americani, che le hanno raccontato tanto della loro storia, di come sono arrivati lì, di come si sono stanziati, della ricerca delle loro origini: «Nel loro sguardo, mentre parlavano dell'Italia, ho capito quanto sia importante anche per me l'Italia. Ho sentito quanto sia bella, quanto siamo fortunati e, forse per la prima volta, ho detto ad alta voce che sono orgogliosa di essere italiana». Siamo abituati a sentirla ridere e anche ora Giulia sorride, ma i suoi occhi sono lucidi, la sua voce increspata: lei che non parla mai di mancanze, che esprime il concetto più totale di libertà, si è commossa. «Forse casa non mi manca, perché non so nemmeno io dove vorrei fosse la mia casa, la mia città. Vorrei casa fosse ovunque, mi sento a casa ovunque. Ho cambiato quattordici case, cinque o sei paesi».
Allora la casa di Giulia è in Svizzera, nelle sue ciclabili, a Lucerna, a Zurigo, in quel fiume dove le persone si tuffano, a Strasburgo, nella ciclabile lungo il Reno, a Bruxelles, che, dopo tante volte, questa volta, in bicicletta, sembrava nuova, a Canterbury, nelle sue campagne, nei suoi cottages, a Londra, nel movimento della città, a Manhattan, nelle sue luci, nella sua gente, di notte, a New York, vista, tempo fa, a Natale, ora in estate, fra qualche tempo, a settembre, in autunno, nella zona dell'Hudson, zona che di solito gli italiani non conoscono per motivi di turismo, a Buffalo, al Lago Erie, dove la vista si apre, all'Indiana Dunes National Park, nel tramonto sulle dune dorate del parco, sul lago Michigan, con Chicago sullo sfondo, casa è perfino nelle campagne e nei drittoni tra Cleveland e Chicago.
Casa è nell'ospitalità che l'America sa donare: «Si nota proprio una sorta di contentezza nell'avere un ospite a casa. Tutte le case hanno una camera in più per gli ospiti, porte aperte, ovunque. Vogliono conoscere, scoprire, se poi dici che sei italiano vanno in estasi. Qui sono abituati al mix di culture e sono affascinati dallo scambio culturale. Non avessi avuto il biglietto dell'aereo prenotato, forse avrei allungato ancora il mio viaggio. Non perché voglia vivere qui, non credo di volerci vivere, ma quelle piccole cose che accadono durante il viaggio mi danno una carica assurda per cui a casa, ora come ora, non vorrei tornare». Accanto alle parole, il rumore dei treni che Giulia ha registrato, perché particolare, diverso da quello che si sente in Europa.
C'è l'odore delle città, particolare, caratteristico, che identifica la città americana, tra mezzi di trasporto e rotaie, quello delle campagne da respirare a pieni polmoni, e c'è il sapore delle pannocchie che anche in Italia le ricorderanno l'America. C'è la lingua in cui si parla che è compagna di viaggio: «Le lingue mi piacciono perché sono una via per entrare nel profondo di una cultura. Qualcuno diceva che parlare la stessa lingua significa entrare nel cuore delle persone, è vero. Se si vuole raccontare qualcosa, ci si riesce, ci si fa capire, ma parlare la stessa lingua è un'altra cosa. Certe volte, ora di sera, sono stanca e faccio fatica anche io, ma mi sforzo lo stesso, le persone lo apprezzano. Mi sembra bello. Per questo motivo ho insegnato qualche parola di italiano a chi me lo chiedeva e ho spiegato come vediamo noi determinate cose: le domande sono un modo di avvicinarsi, di comprendersi».
Un ragazzo di Chicago le ha raccontato di aver vissuto a Bologna, anni fa, e di voler tornare in Italia in bicicletta per un viaggio in bikepacking. La bicicletta di Giulia Baroncini oggi è ferma, ripartirà domani, con un compagno di viaggio che, per quindici giorni, la accompagnerà nel tragitto di ritorno. Seguendo il flow, dei pedali, delle ruote, del vento in faccia, del viaggio.
Trek Bicycles, Firenze
«Quando si tratta di biciclette è diverso. Chi ti consegna una bicicletta da riparare oppure osserva una bicicletta che vorrà acquistare, direttamente o indirettamente, ti racconta una parte della propria vita. Vieni a sapere dove vive, cosa fa di lavoro, dove va di solito ad allenarsi, la strada sterrata che lo gasa, la discesa su cui fa velocità, con chi fa la gara al cartello, il luogo del lungo di domenica e molto altro. E, mentre conosci tutte queste cose, piano piano ti accorgi che quella persona che, appena è entrata dalla porta ti ha fatto un cenno per chiederti qualcosa, non ti è più estranea. Si tratta di un inizio di rapporto, di un principio di conoscenza: puoi aggiustare molte altre cose, puoi vendere tante altre cose, ma difficilmente vivrai questa sensazione. Personalmente vengo dal ramo dell’abbigliamento e so che è differente».
Sono le prime cose che ci dice Marco Della Maggiora, store manager del Trek Bicycle di Firenze, in via delle Cascine 35: ci troviamo nell’ex Manifattura Tabacchi, un tempo luogo di sigarette e sigari, riqualificata, negli ultimi cinque o sei anni, e rivista in chiave moderna. Restano i mattoncini rossi, le porte ampie in legno e le vetrate, sopra, su alcuni soffitti, anche i tubi che scorrono; fuori da qui, il Parco delle Cascine, da un lato, e i Lungarni che portano al centro, dall’altro, l’aeroporto dista dieci minuti o poco più. Si racconta che presto, in questa zona, sorgerà un albergo e le vie nei dintorni diverranno un nuovo polo attrattivo della città di Firenze, simile a Citylife a Milano, per rendere l’idea. Il futuro che si avvicina e cambia le cose, spesso le migliora, eppure
Della Maggiora tiene un angolo per la malinconia, per i ricordi, e, mentre chiacchieriamo e fuori infuria il temporale, torna con la mente alle vecchie botteghe dove si riparavano le biciclette: «C’erano il signor Mario o il signor Gianni, con la voce forte e le mani che avevano appena rivoltato la catena, il grembiule sporco di unto, sulla soglia di una botteghina. Mario e Gianni conoscevano tutti e tutti li riconoscevano, poi, sai come sono fatti i fiorentini: quando ti intravedono, iniziano a gridare metri e metri prima per salutarti con la loro cadenza ed il loro: “Ciao bimbo”. Sì, ora il mercato della bicicletta è andato da un’altra parte e Mario e Gianni non ci sono più, però sono un romantico della bicicletta e, anche se qui è tutto nuovo, io a quelle botteghine penso spesso».
Del resto, i fiorentini, Della Maggiora lo spiega bene, sono sempre gli stessi: scrutano il colore viola in ogni dettaglio della città, lo inseguono quasi, anche nelle cartelle dei bambini che vanno a scuola la mattina, e si fermano ad ammirare il Giglio, il simbolo di Firenze, ogniqualvolta lo vedono. In negozio ce n’è uno, illuminato al neon, grande come tutta la parete, mentre uno più piccolo è stampato sulla maglietta con il marchio Trek che Marco ha addosso: «Ho in mente una maglietta così, ma viola, non nera: vedrai, maglietta viola e giglio. Non resisterà nessuno, li conosco ormai, nonostante io sia di Massa Carrara». Per esempio, Marco Della Maggiora conosce la loro maniera goliardica di dir le cose, dei toscani e dei fiorentini in particolare: «Sono amiconi, ma solo se scelgono di fidarsi: in quel caso, pacche sulle spalle, abbracci, prese in giro sono all’ordine del giorno e vengono a trovarti in negozio anche se non hanno nulla da comprare o da sistemare. Però, attenzione, perché se non gli si va a genio, a Firenze hanno la memoria lunga e non c’è verso di fargli cambiare idea».
Anche quel professore dell’Università di Londra, nativo di Firenze, che qualche settimana fa è passato dal negozio e ha scritto una bellissima recensione, sull’aria europea che ha trovato in via delle Cascine, era così. Ma qui arrivano anche americani in viaggio, olandesi che visitano il Chianti, spagnoli e quasi sempre si fanno precedere da una telefonata e quel nome già conosciuto, Trek, per l’appunto, serve da rassicurazione, quasi fosse un conforto, un sentirsi a casa, pur se lontani. Poi entrano in negozio, sentono l’odore di copertoni e di uno spray lubrificante alla ciliegia, che ultimamente si usa spesso e impregna l’aria, sono socievoli, desiderano conoscere, spesso imparare, farsi consigliare, in poche parole, hanno voglia di fidarsi. «In Italia siamo diversi. Tempo fa abbiamo distribuito dei volantini per il lavaggio gratuito della bicicletta: si tratta di smontarla, lavarla, ingrassarla, comunque di metterci le mani. Voglio dire che fidarsi può non essere così istantaneo, però, anche per questo si può fare qualcosa. Venendo in negozio, capirai».
Il negozio ha due ingressi, uno sul lato del parco, l’altro interno. Tutto è situato su un solo piano, da una parte si trovano le biciclette destinate alla vendita, da corsa, elettriche, da bambino, da passeggio, mountain bike, e dall’altro quelle destinate al noleggio, tra cui un posto di rilievo è occupato dalle gravel. All’interno della manifattura tabacchi, è invece posta l’accettazione: Leonardo, il Service Leader, effettua la prima ispezione della bicicletta, proprio assieme al cliente, per vedere ogni dettaglio: il tutto viene registrato dal PC e da quel momento scattano le ventiquattro ore entro le quali la bicicletta, a meno di ricambio di pezzi non presenti in officina e quindi da ordinare, deve essere riparata e riconsegnata al cliente. Daniele, il meccanico, è in officina: richiama con una “pistola” lo scontrino e vede tutti i lavori che ci sono da fare, li esegue, poi custodisce i pezzi sostituiti che verranno riconsegnati insieme alla bicicletta, in modo da raccontare ciò che è stato fatto. L’officina è chiusa, ma non del tutto e Daniele, spesso, incontra il cliente quando viene a ritirare la bicicletta.
«Inutile nasconderselo, non è bello sapere che qualcuno ha messo le mani sulle nostre bici e non sapere chi. Siamo sempre curiosi di vedere ciò che viene fatto, o, almeno, di conoscere chi lo ha fatto. Nelle botteghine succedeva ed il meccanico era un confidente come il barbiere del centro. Un pezzetto di quel mondo, noi lo riportiamo qui, anche oggi che non basta più un martello per sistemare una bici, ma serve anche la tecnologia. Il contatto fa in modo che il meccanico diventi il tuo meccanico, un senso di appartenenza reciproco; si ha piacere di vedere il cliente che torna perché sai che il tuo lavoro è stato riconosciuto, che questa volta lascerà ancor più volentieri la bicicletta nelle tue mani». C’è il gergo fiorentino, una sorta di vocabolario della bicicletta: i copertoni sono i fascioni ed il leva copertoni è il leva fascioni, mentre il mastice è il masticione. In un’altra stanza si nota subito un vascone per lavare le biciclette e una vaschetta, più piccola, in cui lavare il pacco pignoni, la pedivella e la catena. La prima frase è sempre: «Come posso aiutarla?». Poi il lei diventa tu, fino ad arrivare al nome. Soprattutto non deve mai passare troppo tempo tra l’ingresso in negozio e le prime parole: «Si tratta di cura, di attenzione per qualcuno che ha bisogno di supporto e ti sta cercando. Puoi avere altre mille cose da fare, ma appena entra è doveroso che tu lo faccia sentire accolto. Con gli ospiti si fa così».
Ad un certo punto, tra ingranaggi di biciclette e racconti buffi, ecco la doccia e la cucina: sì, avete capito bene, entrambe presenti in negozio. Della Maggiora precisa che sono due elementi a cui Trek tiene molto, perché accrescono l’aria di casa e perché aumentano anche la voglia di andare a pedalare: lui stesso, spesso, esce al mattino alle sette, sgambata, due o tre ore di pedalata e via in negozio.
«A Firenze si fa dislivello come niente. L’altro giorno ho fatto quaranta chilometri e ben mille metri di dislivello, la doccia in negozio però mi salva. Una sciacquata, ci si cambia e si è pronti per iniziare la giornata, come si fa a casa. Anche la cucina fa famiglia: in certi giorni passiamo lì la pausa pranzo, altre volte facciamo il punto della situazione, la riunione di quindici minuti prima dell’apertura. Siamo in quattro, forse non servirebbe, ma vogliamo farla lo stesso: un domani, quando sarà necessaria, avremo presente meglio il significato del ritrovarsi a parlare, non solo per sbrigare faccende, ma per la condivisione. Io ho quarantacinque anni, i miei collaboratori fra i ventiquattro ed i ventinove, potrei essere un babbo per loro, e per molti aspetti mi sento di esserlo, per le ore che scegliamo di passare assieme, pur non essendo obbligati a farlo, ad esempio. Forse, anche per questo fermarsi più ore in negozio pare semplice».
Sì, perché è capitato e capita spesso che quando fuori si fa buio e sui Lungarni cala il silenzio, intorno all’una di notte, sbirciando dagli ingressi dello store si intraveda ancora qualcuno, si sentano le voci, le risate, aria di festa, e, guardando meglio, si veda che nel locale ci siano tante persone, in tenuta da ciclista. C’è appena stata la ride notturna del mercoledì, talvolta nelle zone di Impruneta, altre verso San Casciano, organizzata da Trek Bicycle, e, tra una birra ed una coca cola, si continua a divertirsi.
«La bicicletta è uno strumento conoscitivo pazzesco. Quando si pedala, si inizia a parlare della salita o del tragitto, poi, però si finisce per affrontare discorsi che nemmeno ci si sarebbe sognati. Così si parla del figlio e di che scuola fa, dei genitori, di quello che è accaduto sul lavoro. In una parola, si fa comunità». Il luogo per eccellenza dell’incontro è un bancone, con quattro sgabelli, davanti ad un televisore attaccato alla parete, con una bici d’epoca vicina alla macchinetta del caffè e al frigorifero: lì in autunno ci sono i cioccolatini, con la forma di una maglia da ciclista, anche iridata, per le occasioni più importanti, prodotti dallo zio di Jasper Stuyven, cioccolatiere belga, ed in estate bevande ghiacciate, popcorn e patatine.
Qualcuno porta il proprio computer e, mentre aspetta che la bicicletta venga riparata, si mette a lavorare. Non ci si incontra solo per eventi legati alle biciclette, qui si possono organizzare corsi di yoga, presentazioni e qualsiasi altro evento che abbia alla radice l’idea dello stare insieme. In estate, sovente, a quel bancone, ci si mette a guardare il Giro d’Italia e il Tour de France: «Niente scherzi, eh. L’ho già detto a tutti: l’anno prossimo, quando parte il Tour de France da Firenze, il negozio resta chiuso e si va a vedere la corsa. Quel giorno, vedrai che anche i fiorentini al viola vorranno affiancare il giallo, un colore che riempirà le vie. Quel giorno saremo la casa della corsa più importante al mondo ed in città se ne parla già adesso». Se ci si guarda attorno, a dire il vero, si nota ben presto quante biciclette ci siano a Firenze e quanti pedalatori: si fa enduro sopra la città e si arriva qui dalla Versilia, mettendo chilometri nelle gambe, certe volte su percorsi da vera e propria classica. Certo, le biciclette girano, vanno, scoprono, si lasciano scoprire attraverso chi le guida, talvolta attraverso gli ambassador, e poi tornano, si fermano, aspettano di ripartire, che qualcuno le controlli o le sistemi. Magari le scopra. Che qualcuno ne abbia cura. Da queste parti, tra il Parco delle Cascine ed i Lungarni, Trek Bicycle, all’ex manifattura tabacchi, è la casa da cui partire ed in cui fare ritorno. Il temporale si è quietato, un giro, adesso, ci sta proprio bene.