Il questionario cicloproustiano di Alberto Bruttomesso

Il tratto principale del tuo carattere?
Determinazione.

Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Coraggio.

Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
La positività.

Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Passare dei bei momenti.

Il tuo peggior difetto?
Testardaggine (a volte).

Il tuo hobby o passatempo preferito?
Netflix e Playstation.

Cosa sogni per la tua felicità?
Realizzare i miei desideri.

Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Arrivare a una certa età rimpiangendo qualcosa.

Cosa vorresti essere?
Quello che sono.

In che paese/nazione vorresti vivere?
Sto bene qui.

Il tuo colore preferito?
Nero.

Il tuo animale preferito?
Leone.

Il tuo scrittore preferito?
Non ne ho uno in particolare.

Il tuo film preferito?
Non ne ho uno in particolare.

Il tuo musicista o gruppo preferito?
Non ne ho uno in particolare.

Il tuo corridore preferito?
Boonen e Sagan.

Il tuo nome preferito?
Ettore.

Cosa detesti?
La disonestà.

Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Hitler.

L’impresa storica che ammiri di più?
L'uomo sulla luna.

L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Tripletta Mondiale di Sagan.

Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Tour de France.

Un dono che vorresti avere?
Stare sempre bene fisicamente.

Come ti senti attualmente?
Bene.

Lascia scritto il tuo motto della vita.
Non è un motto ma: vedere sempre il bicchiere mezzo pieno.


La cargo bike e l'universo della bici che si amplia

23.03.1977 Segrate (Milano)

Alessandro Grisotto è un bambino, la primavera è iniziata da poco, papà sta tornando a casa. Alessandro non lo sa, ma papà è stato in un negozio di biciclette e fra poco gli porterà la sua prima bicicletta. I genitori conoscono bene i sogni dei figli e quel padre è certo che una bicicletta sia il desiderio più grande di quel bambino, da tanto, almeno da quando aveva cinque anni e inseguiva, piangendo, lo zio, non appena lo vedeva partire: lo zio gareggiava e il piccolo Grisotto avrebbe voluto accompagnarlo ovunque. Oggi è il giorno del suo decimo compleanno e non appena la porta si aprirà e papà entrerà con quella piccola Olmo, Alessandro gli correrà incontro e salirà subito in sella. Milano è grande ed in un pezzetto di strada, per molti giorni, ci sarà lui: avanti e indietro, a destra e a sinistra, su e giù, in bicicletta e a terra, qualche caduta, qualche sbucciatura. Milano è grande, sì, e un bambino è sicuro che con la sua bici potrà girarla tutta, sentendosi anch'egli grande, più vicino al mondo degli adulti, libero.

05.02.2023 Conegliano Veneto (Treviso)

«Mi sono rivisto bambino, a Milano, con quella Olmo, dopo tanti anni. A cinquantasei anni, è stato come se avessi tolto di nuovo le rotelle alla bicicletta: la prima volta che accade sembra di volare, sfidando le leggi della fisica. Mi sento quasi esagerato a dirlo, ma è vero: ho riprovato quella stessa sensazione. Di biciclette ne ho cambiate tante nel tempo e ogni volta è stato diverso, come oggi, però, mai». Più di quarant'anni dopo e una primavera un poco più lontana, questa volta è Alessandro Grisotto a tornare a casa con una bicicletta nuova: una cargo bike muscolare. Ci pensava da tanto, si guardava attorno, pensava che fosse un'evoluzione del settore delle due ruote che avrebbe voluto provare, dopo aver lavorato diversi anni nel mondo del ciclismo, aver fatto gare, aver viaggiato, poi rimandava, aspettava. Fino a quel giorno: «il più bello, almeno in bicicletta». Ancora più libero e forse un poco meno adulto, perché la bici fa sognare di essere grandi e fa tornare bambini, quando grandi si è già diventati.

Due date, due prime volte e Alessandro Grisotto che, dall'altra parte del telefono, continua a parlare, alzando e abbassando la voce, come quando ci si emoziona: «L'altro giorno ho accompagnato la mia figlia più piccola, otto anni, dal dentista, a Vittorio Veneto: da Conegliano sono circa trenta chilometri ad andare e trenta a tornare. Si è divertita moltissimo, in mezzo alle colline, come fosse una gita ed, in effetti, un poco è stata una gita, mentre stavamo facendo qualcosa di necessario. Capisci?». Questo è un punto importante nel racconto di quello che rappresenta una cargo bike. Quando correva, Grisotto non avrebbe mai immaginato una bicicletta simile: allungata, pesante, in un certo senso "strana". «Credo sia la parte più estrema della libertà in sella. Su questa bici viaggi ad impatto zero, hai spazio per la compagnia e anche per tutto quel che può servire, che siano attrezzi oppure un sacco a pelo ed una tenda. La chiamo indipendenza e già questa è una componente decisiva in un viaggio, ma c'è di più. Sì, perché la cargo bike unisce la quotidianità più comune, portare un figlio a scuola, andare a fare la spesa, sbrigare una commissione, andare al lavoro, alla possibilità di conoscere luoghi e, perché no, di viaggiare, persino di scalare una montagna».

E Alessandro Grisotto può ben dirlo, lui che su quella cargo bike ha scalato il Cansiglio, il Monte Grappa, il San Boldo, fino ad arrivare allo Stelvio, con il suo amico Andrea, una vetta iconica, su cui ha portato altri appassionati come lui, in una sorta di sfilata di queste bici, mentre tutti guardano incuriositi. Poi lassù, a mangiare pizzoccheri, contenti. Grisotto pensa anche al Nivolet, proverà a scalarlo la prossima estate, ma pure al Mont Ventoux e, forse, anche allo Zoncolan: «In bicicletta mi sono detto che non lo avrei mai fatto, ma in cargo bike chissà. Può sembrare una follia, però mai dire mai».

«Forse sto esagerando, perché la cargo bike non è nata per fare quello che io provo a farle fare, tuttavia è un messaggio: a me è venuto naturale provare e mi sembra giusto raccontarlo. In molti mi chiedono consigli, io dico di sperimentare. Il senso è: con una bici si possono fare tantissime cose, è un peccato non scoprirlo». Sarà per le tante gare che ha corso, sarà per la quotidianità che, spesso, non lascia spazio alla solitudine, ma anche pedalare da soli regala qualcosa di raro: si pensa, si immagina, si inventa, si cambia idea, ci si promette qualcosa. Così è arrivato il progetto di correre la Seven Serpents in cargo bike e di partecipare alla Veneto Gravel, per l'occasione denominata Veneto Gravel Cargo Ride, nel 2024. Tutto all'insegna del divertimento, un sottofondo costante. «Sono convinto che non conosciamo abbastanza questo mezzo, è sufficiente far caso al volto alle persone che ti fissano per strada. Ti fanno i complimenti e almeno un paio di domande: "A cosa serve? Dove si trova?"».

Alessandro spiega, lascia tutte le informazioni necessarie e riflette sul fatto che un domani gli piacerebbe rendersi utile in prima persona per chi volesse provare una cargo bike. Il verbo non è casuale: «Bisogna provarla e prenderci la mano, perché è diversa da guidare rispetto alla bicicletta classica. Serve pratica e continuità, alla fine non si vuole più scendere».

Altro tema è quello del costo, decisamente elevato, che rischia di allontanare anche chi vorrebbe sperimentare. La soluzione c'è: in Germania, in Olanda ed in Inghilterra sono già attivi i noleggi operativi, per ogni modalità di utilizzo, mettendo sempre al centro la lentezza dello spostamento, che cambia proprio la prospettiva di ogni viaggio, breve o lungo che sia. Probabilmente presto arriveranno anche in Italia e l'universo della bicicletta si amplierà ancora un poco, ci saranno nuovi inizi, nuovi luoghi in cui portare una cargo bike e nuove cose da fare: «Il resto è difficile da raccontare, possono dirlo i miei figli che vedono tutti i giorni quel che significa per me quella bici bislunga che ho tanto desiderato. Quel che non può narrare si definisce indescrivibile, giusto? Ecco, per me la bicicletta è indescrivibile». Scusate se è poco.


Le cose del cuore

Succede sempre così nel ciclismo. C’è l’attesa che per un attimo trasforma tutto in silenzio: lo conosciamo quel momento. Accade quando ti guardi dentro e cerchi una risposta. Che tu sia su una bici a patire il piacere del dolore, oppure a bordo strada ad aspettare i corridori appagati dalla sofferenza altrui: non è una forma di sadismo ma di empatia.
C’è il silenzio collettivo, di massa. Silenzio che ti tormenta e diventa bisbiglio, quasi un ronzio, prima di mutare, in un attimo, in quella sensazione che provano a descrivere nei film con una particolare tecnica legata al sonoro: è un frastuono, silenzioso tormento che si trasforma estasi. Non è ipercomunicazione che snatura il modo di essere, ma è il silenzio che ora si rumore assordante, è la festa che si riappropria di tutto, degli spazi e del tempo.

Succede così per ogni vittoria di Tadej Pogačar che, per un appassionato, è un piacere, una cosa-del-cuore. Ogni suo scatto supera la normale sofferenza, squarcia l’oblio, distrugge quell’attimo. Appaga. Probabilmente c’è una particolare parola in tedesco per spiegare tutto questo, beati loro che hanno la capacità di riassumere tutto in un termine. Forse ci sarà anche in sloveno, ma non la conosciamo: ci accontentiamo di vedere Tadej Pogačar attaccare, che sia sulle pietre del Fiandre, sul Poggio di Sanremo, sulle lunghe salite francesi o sui colli lombardi, non importa.
A ogni corsa ci sono le braccia dei tifosi che cercano di agguantarlo, quasi di strapparlo via dal suo cavallo-mezzo. Telefonini che volano in aria sbattuti lì in faccia ai corridori come innaturale prolunga del corpo umano. Bottiglie di vino, cappellini, maglie, bandiere. C’è chi ti domanda se corre ancora Battaglin o se Carapaz passerà in maglia rosa. C’è quella sua bici: Pogačar addomestica il mezzo per farne una parte di sé, pur nel suo essere gioviale sceso di sella, è un combattente delle due ruote, ve lo riuscireste a immaginare in un’altra maniera se non vincente, scattante in sella alla sua Colnago? Nato e cresciuto per fare questa cosa qua. Nulla di più.

Il cielo di questo ottobre 2023 è un giallastro paglierino e solo quando il gruppo ha superato il Passo di Ganda si inizia a fare più blu. In mezzo al bosco si fa il ritmo, si scandisce come un tam-tatum-tam-tatum. Il gruppo sembra una nave che risale l'Amazonas e in testa risuona la musica lirica di Enrico Caruso. C’è il sibilo delle catene ben oliate, c’è il ronzio delle radioline, lo stridere dei freni lo lasciamo alla temibile discesa giù dal Selvino dove sbagliare significa rischiare di fare un brutto volo. I rami degli alberi inneggiano all’arrivo di un autunno ancora leggermente sbiadito, a volte coprono gli sguardi dei corridori, altre sono una perfetta cornice a dei bizzarri e inquietanti quadri contemporanei creati dall’intelligenza artificiale. La stringa dice: “ciclista che scatta in salita e tutto intorno alberi, pittura contemporanea”. Le maglie UAE si nascondono come una tribù che ti osserva dietro le fronde, e poi come d’incanto attaccano. Davanti al gruppo, Quick Step e Jumbo Visma: fino a poche ora prima sembravano sul procinto di diventare una cosa sola, ma ora, in provincia di Bergamo, non fanno più prove generali sul futuro, piuttosto gettano in concreto sulla strada tutto quello che hanno. Da una parte si pensa di lottare per Evenepoel, Alaphilippe, perché no Van Wilder, ma d’improvviso è il momento di Bagioli. Dall’altra tutti uniti per Primoz Roglic alla sua ultima gara in giallonero, promesso sposo alla BORA-hansgrohe.
Ci prova Adam Yates su questo Passo di Ganda, il gemello allunga ed è solo l’anteprima sui nostri schermi. Un trailer dove si vede un uomo UAE fare l’andatura davanti. Quando si stacca Pogačar pensi: sogno o bluff? Non si capisce in verità: poiché rientra con un balzo non c’è tempo di perdersi in elucubrazioni. E quando riparte, ormai il gruppo si è già accartocciato su se stesso come una lattina piegata con la sola forza della telecinesi. Restano in pochi. Con loro Pogačar, oppure Tadej, oppure Pogi, ormai è diventata consuetudine chiamarlo con diversi nomi: a furia di vederlo entrare nelle nostre case tramite quelle sue azioni e la sua maglia bianca al Tour (che dall’anno prossimo non vestirà per sopraggiunti limiti di età, come vola il tempo!). Spinge forte con ogni parte del suo corpo, mentre chi gli sta dietro arranca, si attacca con ogni mezzo lecito alla sua bici. C’è di nuovo quell’attimo di calma su in cima. Lo riprendono. Sono ancora meno di quei pochi. Ci si guarda, di nuovo, ci si avvicina e ci si annusa come segugi che fanno tra di loro conoscenza. Uno sguardo tira l’altro, uno scatto, tira tu, sembrano dire i superstiti in testa. Poi parte di nuovo Pogačar. Dove non possono gambe che non sono certo le migliori della stagione, può l’astuzia.
Tadej Pogačar nel 2023 ha conquistato, giova ricordarlo: Giro delle Fiandre, Parigi Nizza, Amstel Gold Race, Freccia Vallone, podio al Tour e al Mondiale, soltanto due settimane dopo, eppure è arrivato a Il Lombardia con l’idea di vincere ancora. Nonostante il dolore che provoca la stanchezza.
Non è al meglio, non puoi umanamente essere al 100% dopo una stagione così, arrivato alla prima settimana di ottobre. Nemmeno al 90%, forse sarai intorno all’80%, ma giusto perché sei Pogačar. Non è al meglio, ma tra Passo di Ganda e Bergamo vola, squarcia quell’attesa sull’ultima salitella prima del traguardo.
Le braccia dei tifosi, quando la strada ricomincia a salire e allo striscione d’arrivo manca sempre di meno, non cercano più di strapparlo via, ma sono tese, il palmo spalancato per dare un cinque, una spinta, se possibile, dopo aver sofferto insieme a lui: pochi minuti prima di affrontare il Largo di Colle Aperto, infatti, a Pogačar vengono i crampi e alla corsa un sussulto, ai suoi tifosi algofobici, smarrimento.
Per un attimo le carte paiono potersi mescolare ridando un senso di incertezza a una gara che pareva già segnata soltanto pochi chilometri prima. Quel dolore passa. Quel silenzio si fa rumore. Pogačar gestisce. Citando Byung-Chul Han: «Non glorifico il dolore, tuttavia senza di esso la nostra esistenza sarebbe incompleta». Pogačar spezza quella gabbia, verso la libertà e oltre, verso il traguardo di Bergamo, verso il terzo Lombardia. Il primo accoppiato con il Fiandre, come Kuiper e van Looy, come nemmeno Merckx. Succede sempre così nel ciclismo. Ci si sbatte, si supera il dolore, poi quando vince Tadej Pogacar diventa una cosa-del-cuore.