Un padre e una figlia a Istraland
Pensate al verde dei monti, a quel verde intenso della vegetazione più rigogliosa, spaziate, poi, nel blu delle acque, in tutte le sue sfumature, fino alla superficie cristallina, dove si vede il fondo e sembra di poterlo toccare. Non fermatevi, andate alle bianche falesie a picco sul mare, alle vene di calcare, argilla e marna, e, più sù, ai paesi arroccati sulle colline, ai vigneti e agli ulivi. Metteteci colori, profumi, sapori, metteteci notti e giorni di avventure, di ruote di biciclette che girano e si fermano ad aspettare, aggiungete anche il vento, la brezza più o meno forte che spira accanto alle onde e continuate a sognare. Probabilmente state pensando di partire, già, ma per andare dove? Ve lo diciamo: la descrizione narra l'Istria, la sua costa. I sensi sono quelli di chi pedala, perché così ve la raccontiamo, in bicicletta. L'occasione è Istraland: 400 chilometri di gravel e 5500 metri di dislivello, da Sežana, in Slovenia, a Sežana, tra polvere, salita e campagna, sole e salsedine, a fine settembre. Eppure, quando Lucio Paladin ha pensato di iscriversi a questa manifestazione, tutto questo, per quanto bello, non era il primo pensiero.
Il primo pensiero era invece una frase che con la figlia Asja, appassionata ed esperta di avventure simili, si era detto molte volte: «Sarebbe bello fare qualcosa solo io e te, assieme. Padre e figlia, insomma». L'aveva detto ad Asja e Asja l'aveva detto a lui, ma si sa come vanno queste cose, anche i desideri più forti, più desiderati, per l'appunto, si fanno spesso attendere. Allora serve un'occasione, un compleanno, ad esempio, ed il compleanno della figlia arriva. «Perché no? Andiamo, papà». Lucio e Asja partono. Se è la prima volta per questo genere di viaggio, non è la prima volta che la bicicletta li lega: quando Asja era bambina e correva, Lucio era il suo direttore sportivo. Orecchie attente e si ascolta: «Ricordo che mi fidavo ciecamente di quel che mi diceva, perché era il direttore sportivo e perché era mio padre. Ho imparato fidandomi a pedalare». Già, questa volta, però, è tutto diverso, questa volta l'esperta è Asja e Lucio, alla partenza, è agitato, preoccupato, quasi si trattasse di una competizione in cui dover primeggiare, della gara della vita: «Papà, a me non interessa nulla vincere, arrivare prima. A me interessa essere qui con te, certo, arrivare alla fine ma farlo con te. Basta. Vorrei tu pensassi a questo e ti prometto che ce la faremo. Ti fidi?». Le parole della figlia sono più che mai necessarie ed il padre ascolta, si fida. Ciecamente.
Mentre ce lo racconta, la voce di Asja vibra, quelle vibrazioni date dall'orgoglio, dalla felicità: «Non ha mai messo in dubbio una parola di ciò che dicevo ed ha fatto tutto quello che gli ho chiesto, anche se per chi viene dalla strada non è sempre facile. Non si può capire quanto mi abbia reso contenta vedere papà avere quella fiducia». Il discorso va in profondità: «A volte, forse soprattutto da ragazzini, vediamo nei genitori qualcuno di opposto a noi, quasi ci remassero contro. In certe età è normale, però non è così. Dobbiamo capirlo ed avere la certezza che loro credano così tanto in noi non sai quanto possa cambiare la quotidianità». Asja guarda spesso Lucio: capisce quando sta facendo fatica ma la nasconde dietro ad un sorriso, ad uno scherzo, per non farglielo vedere, per non farla preoccupare. Intuisce i momenti in cui non ha fame, allora gli si avvicina: «Mangia qualcosa lo stesso, è importante». Certe volte è più faticoso, altre è un inno alla gioia.
«Sai che, quando andavamo a dormire, a sera, era stanchissimo, però era ancora più felice, se possibile, perché era arrivato alla fine della giornata, perché era ancora con me». Soraya, sua sorella, è sul percorso, le fornisce qualche indicazione, le dice come cambia il tempo, dove tira il vento, per il resto c'è una mappa fornita dall'organizzazione con ogni indicazione necessaria, sui punti in cui si trova acqua e cibo e sui chilometri in cui, invece, bisogna fare rifornimento perché si è più lontano dai centri abitati. Asja Paladin spiega che è l'evento giusto per chi vuole iniziare a cimentarsi con il gravel: abbastanza duro, ma non durissimo, godibile, piacevole. La gente che si incontra saluta, chiacchiera, anche a cena si può stare con tanti appassionati di bici, a ridere e scherzare, a dimenticare le difficoltà della giornata, a rilassare i muscoli. «Il primo giorno ci siamo imbattuti in una discesa molto rotta, rovinata, ci abbiamo messo molto a scendere. Ho pensato: "Se non inizia a detestarmi qui, non inizia più"». Scherza così Paladin.
A casa c'è sua madre, non esattamente entusiasta della gita: «Sono sempre in pensiero quando parti tu per queste esperienze, se ora inizi anche a portare papà, siamo apposto». Carmen, però, ha cambiato idea. I monti, il mare, Pula, la terra rossa che resta negli occhi, e poi i vigneti, Gli ultimi quaranta chilometri non passano più: sembra davvero di non riuscire ad arrivare al traguardo, anche se ormai manca talmente poco che pare impossibile: laggiù, in fondo, sbuca qualcuno. Si tratta della mamma e del ragazzo di Asja: «Papà pedalava come fosse il primo chilometro, con addosso un'energia pazzesca, incredibile. Un piacere da guardare. Mamma mi ha cercato dopo l'arrivo: "Grazie per questa giornata, grazie per la felicità tua e di papà". Ricorderò sempre queste parole». Quell'avventura rincorsa per molto tempo era diventata realtà e lo aveva fatto nella miglior forma possibile.
Ora ripensate a tutto quello che vi dicevamo, tornate all'Istria, a fine settembre, in bicicletta, ma guardate bene. Da qualche parte ci sono un padre e una figlia che non vedevano l'ora di pedalare assieme. Questo si può anche descrivere, ma bisogna provarlo, sentire quel desiderio e poi quella gioia. Asja e Lucio Paladin lo confermano.
Ciclostazione, Atripalda
Avellino era lontana da tanti, troppi, anni. Marco Argentino se ne era andato da giovane: era partito per Bologna per il servizio militare, senza pensare che, poi, il caso, la storia, il destino, la volontà gli avrebbero fatto trovare casa, lavoro e famiglia a circa settecento chilometri dal paese in cui era nato. Se ne era andato verso Bologna e si era trovato a vivere e lavorare poco più in là, tra Parma e Mantova, per ben undici anni. Marco era dipendente, con la qualifica di perito elettrotecnico, in un’azienda: a tratti il suo mestiere lo soddisfava, a tratti meno, ma restava una certezza, un punto fermo fra molte variabili.
A sera, a fine turno, passava nell’ufficio del suo direttore, prendeva una sedia e si sedeva accanto alla scrivania, stava a guardare, ad ascoltare: dopo una giornata densa di impegni, di appuntamenti e di decisioni da prendere, quello era il momento in cui il dirigente dell’azienda, al telefono, sbrogliava le matasse più complicate, trovava accordi, pianificava. Argentino racconta che quelle telefonate le ricorda ancora oggi, perché da quelle telefonate imparava sempre qualcosa che, attraverso la vita di fabbrica, non aveva modo di apprendere. Non erano tanto i concetti a colpirlo, ma il modo con cui si potevano cercare soluzioni a grossi problemi, anche dopo la stanchezza di una giornata di lavoro. Il suo responsabile era calmo, riflessivo, pensava, proponeva, appuntava e trovava la quadra, davanti ad un bicchiere di vino. A quegli incontri, Marco pensava spesso, soprattutto durante i suoi giri in bicicletta, quelli delle pause e del tempo libero. Non si sa come le idee fluiscano nella mente, se il loro scorrere sia casuale o tenuto sempre stretto da un preciso filo conduttore, sta di fatto che, all’improvviso, in una pedalata, poco più di tredici anni fa, un pensiero prese forza e, piano piano, spazzò via tutto quello che, fino a quel giorno, l’aveva tenuto aggrappato a quella certezza, il lavoro sicuro: «Mi capitò di riflettere su come sarebbero state le mie giornate da lì a dieci anni e la prospettiva mi terrorizzò. Ero esattamente in grado di prevedere ogni istante. Capisci? Non ci poteva essere alcuna sorpresa, alcun cambiamento. Sapevo tutto e tutto era prevedibile, deciso fissato. Il mio lavoro era parte di questa prevedibilità asfissiante».
Qualche indizio, forse qualche ricordo, di come si poteva andare via da quel percorso segnato, tracciato, a dire il vero, c’era già nella sua gioventù. C’era papà Achille che non era un gran pedalatore, anzi, non era affatto un pedalatore, ma, se si trattava di meccanica, aveva un guizzo acuto: «Le nostre erano delle gare: ci davamo un tempo e un problema da risolvere e, alla fine, vinceva chi aveva risolto la problematica meglio e più velocemente. All’inizio era sempre lui a spuntarla, ultimamente, invece, qualche volta lo battevo. Penso ai suoi occhi: si vedeva che era infastidito dal fatto di non essere più il vincitore, ma allo stesso tempo in quelle pupille ruggiva un antico orgoglio. Era come se dicesse: “In fondo, ti ho insegnato bene”. Se proprio qualcuno doveva superarlo, era felice che fossi io».
Anche il nonno di Marco, aveva un talento particolare parlando di meccanica. Marco Argentino guarda quella scintilla del passato e le lascia spazio e tempo, la trasforma in un fuoco: frequenta corsi di meccanica a Milano, Torino, Bologna, alla Fiera di Verona, studia e scopre che ad Avellino, quella città lontana da molti anni, in cui era nato e cresciuto, non c’era un negozio di biciclette come quello che aveva in mente, quello di cui si era trovato a parlare con Stefania, sua moglie, originaria del Friuli Venezia Giulia. Qualche tempo dopo, tra il 2010 e il 2011, Marco e Stefania venderanno la casa al nord, torneranno ad Avellino e con quei soldi compreranno un locale e molte biciclette: la Ciclostazione, agli inizi, è questa. «Ci hanno preso per dei folli e posso anche capirli, almeno in parte. I cambi di vita improvvisi non sono quasi mai compresi. Ho ben in mente il primo giorno di apertura: cercavo parole di comprensione, di coraggio, cercavo carezze, in realtà, trovavo schiaffi. Ognuno mi metteva davanti ad altri dubbi, a nuove paure, accrescendo quelle già presenti in me. Era importante rendere esplicita la mia volontà, nonostante tutto e tutti, nel tempo ho imparato a farlo sempre più, così mi hanno capito».
Quel locale di 80 metri quadrati, diviene poi di 120, 180, fino ai 300 metri quadrati odierni, circondati da vetrate che lasciano filtrare tutta la luce possibile: «Si tratta di una reminiscenza di quando lavoravo in ditta. Se, quando mettevo il naso fuori a sera, col buio, qualcuno mi avesse chiesto che tempo aveva fatto quel giorno, non lo sapevo. Non sapevo se ci fosse stato il sole, nuvole grigie o pioggia: ho sempre desiderato che chi mettesse piede alla Ciclostazione potesse vedere il cielo fuori e non perdere contatto con il mondo esterno». All’ingresso, si nota subito un grande bancone, con l’officina a vista sulla destra, mentre, sulla sinistra, si scorge un’ampia gamma di biciclette, da corsa, gravel, a pedalata assistita. Alla Ciclostazione si effettuano visite biomeccaniche e si noleggiano biciclette per gite e viaggi.
«Il noleggio è, spesso, la chiave che avvia la passione. Un tentativo, un giro, e si torna in negozio a comprare la propria bicicletta, quella che si custodisce con cura in garage, pulendola con un panno dopo ogni uscita».
Fuori da quelle vetrate, a pochi chilometri di distanza si apre l’Irpinia verde, dove non servono ciclabili e le strade ed i paesi si svuotano, facendo spazio al viaggiatore. Si possono fare chilometri e dislivello: Marco propone, ad esempio, una visita all’Abbazia del Goleto, attraverso un sentiero stupendo, di cui lui stesso si innamorò. Si tratta delle terre di tre vini Docg e delle loro cantine, belle da visitare, in cui perdersi, dandosi la possibilità di scoprire terre che, probabilmente, si potrebbe pensare siano partite in ritardo nella riflessione sul tema ciclabilità, in realtà, sono partite nel momento in cui tutto era pronto perché questa operazione iniziasse.
Appena qualcuno arriva qui, Argentino lo accoglie con una domanda, apparentemente semplice, quanto complessa, scendendo in profondità: «Domani mattina, cosa vorresti fare con la bicicletta che acquisterai?».
A quel punto, si inizia a parlare , si crea empatia, rapporto umano: «In un mondo in cui sono sempre più importanti i contatti virtuali, tramite facebook o whatsapp o altri social, io resto un appassionato dei rapporti umani, del linguaggio del corpo, della calligrafia, della psicologia, dello stare in mezzo alla gente, con il piacere di guardarla negli occhi. Credo sia l’unica possibilità che abbiamo di crescere, di imparare, anche di correggere gli errori che inevitabilmente si fanno, soprattutto agli inizi. La tecnologia può aiutare, ma serve equilibrio. Le persone sono più importanti e devono restare il centro. Se non si perde il contatto con il lato umano, è possibile gestire ogni problema con maggiore serenità, evitando di non dormire la notte, come accadeva tempo fa. Resta un lavoro difficile, come può essere difficile lavorare in famiglia e condividere ogni cosa. Ma la difficoltà non toglie nulla alla bellezza, alla soddisfazione».
In questi anni di Ciclostazione, anche Marco e Stefania sono cresciuti e cambiati ed in un veloce replay mentale proprio Argentino rivive alcuni dei passaggi che più hanno avuto un impatto sul loro modo di vivere la professione: le prime volte che si vendeva una bicicletta e, magari, si sbagliava, le preoccupazioni economiche, soprattutto dell’avvio, quando ogni errore pesava di più, il nervosismo provato per qualche cliente particolarmente “saputello”, come lo definisce Marco, che non ne vuole sapere di ascoltare consigli o indicazioni, giornate intere perse dietro a nervosismi e qualche frustrazione, soprattutto le “tirate di giacca” di qualche amico o conoscente a cui non si sapeva come e cosa rispondere.
«Dopo i primi quattro, forse cinque anni di attività abbiamo attraversato un periodo complicato in cui rientravano tutte queste esperienze. Dieci giorni di chiusura sono, però, bastati per mettere un punto e ripartire: si trattava di fare uno step decisivo, passare dalla visione di un appassionato di ciclismo a quella di imprenditore, preservando la carica di passione, ma inquadrandola in maniera più ferrea all’interno di una logica lavorativa, mettendo da parte il lato istintivo e affettivo che portava agli errori».
In questo percorso, si rivelerà fondamentale un ragazzo, Giuseppe, che, all’apertura della Ciclostazione, aveva poco più di sedici anni, oggi ne ha ventotto ed è professore universitario in Germania. In quei giorni, Giuseppe era spesso in negozio, chiedeva informazioni, voleva conoscere, ma, allo stesso tempo, raccontava ciò che sapeva e delle biciclette conosceva davvero quasi tutto, a tal punto da creare imbarazzo in Marco: «Oggi posso dirlo. Mi è capitato di vederlo arrivare e di spiegare a Stefania o a qualche collaboratore di dire che non c’ero, che ero via per lavoro o per altri impegni. Non era una situazione nuova: all’inizio, molti clienti ne sanno più di te, devi accettarlo, ma lui ne sapeva davvero molto, non riuscivo a rispondere alle domande che mi faceva e ci restavo quasi male. A casa ripensavo spesso alle figure che, magari, avevo fatto, a cosa potesse pensare di me. Ho capito solo successivamente che Giuseppe, quel ragazzo così sveglio, così intelligente, fosse in realtà una risorsa per la Ciclostazione ed oggi è uno degli amici più cari che ho, quasi un figlio adottivo. Si può imparare anche dai clienti, bisogna avere l’umiltà di ascoltare e capire, senza presunzione o vanità. Senza fuggire».
Da un luogo che non vediamo, arriva un rumore forte, deciso, ci voltiamo verso Marco chiedendo cosa stia accadendo, lui sorride: «Si tratta del nostro reparto ortopedia. Sai, alcune volte è necessaria qualche manovra più decisa, una piccola martellata, magari, e tutti sappiamo come soffra un ciclista se vede che la propria bicicletta viene un filo maltrattata, anche se per sistemarla. Allora abbiamo pensato a questa terza sala, nascosta. Una sorta di protezione dell’appassionato, di cura».
Marco si guarda intorno, come chi cerca di ricordare un dettaglio, appena inizia a parlare abbiamo la certezza che la sua memoria è tornata a quelle sere con il suo ex direttore, in ufficio: «Quando sono andato via, mi ha preso da parte e mi ha detto: “Non preoccuparti, tu hai tanta voglia di fare e chi ha questo requisito può ripartire quando vuole, riuscirà in quel che cerca”. Sono legato a queste parole». C’è un filo di malinconia anche mentre ripensa ai momenti con papà Achille in Ciclostazione, ma anche il suo stesso orgoglio. Sì, perché la Ciclostazione che ad Avellino non c’era mai stata, ora c’è, in Contrada San Lorenzo, numero 18, ad Atripalda. E c’è grazie a Marco e Stefania.
Il questionario cicloproustiano di Davide De Cassan
Il tratto principale del tuo carattere?
Il tratto principale del mio carattere è la testardaggine.
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Avere grinta, determinazione ma sempre con umiltà.
Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Il saper ascoltare, la voglia di progettare qualcosa che duri nel tempo.
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Esserci quando serve, nei momenti duri.
Il tuo peggior difetto?
Sono troppo competitivo.
Il tuo hobby o passatempo preferito?
La musica.
Cosa sogni per la tua felicità?
Arrivare dove voglio arrivare, fare quello che voglio fare, essere libero.
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Che succeda qualcosa al mio corpo che mi cambi la vita.
Cosa vorresti essere?
Un esempio positivo per tutti.
In che paese/nazione vorresti vivere?
Amo la mia terra, la Valpolicella va benissimo.
Il tuo colore preferito?
Blu.
Il tuo animale preferito?
Cane.
Il tuo scrittore preferito?
Massimo Recalcati.
Il tuo film preferito?
Interstellar.
Il tuo musicista o gruppo preferito?
Al momento Marracash.
Il tuo corridore preferito?
Remco Evenepoel.
Un eroe nella tua vita reale?
Non ne ho.
Una tua eroina nella vita reale?
Non ne ho.
Il tuo nome preferito?
Liam.
Cosa detesti?
Quando non riesco ad incidere sulle cose che mi succedono.
Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Non ho gli strumenti e le competenze per dirne uno.
L’impresa storica che ammiri di più?
L’impresa dei mille di Sparta.
L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Sagan Roubaix 2018, Van der Poel Glasgow 2023
Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Giro d’Italia.
Un dono che vorresti avere?
Essere un bravo fotografo
Come ti senti attualmente?
Bene.
Lascia scritto il tuo motto della vita
“Mai per caso nulla accade”.
Sportland Bike, Brescia
Alessandro Monti torna ad un ricordo estivo: sono passati solo pochi mesi, è vero, ma la sua descrizione cerca i dettagli dei momenti che racconta e, ripetendoli, torna a fissarli. In fondo, l’importanza di quel giorno si capisce da questo fatto, perché la mente umana tende a trattenere con maggiore intensità i particolari di ciò che ci interessa, oppure ci cattura, ci coinvolge, nel bene o nel male. Anche l’incipit è significativo: «Perdona la digressione, ma questa devo raccontartela». Il bisogno della narrazione, della condivisione, di un episodio che riemerge dalla memoria, durante una chiacchierata a tema bicicletta. La storia si svolge nei dintorni di Bormio, dove Alessandro sta pedalando con il progetto di percorrere un giro delle creste, attraverso l’Umbrail Pass, lo Stelvio, fino a Livigno.
Proprio quella mattina, già in sella, incontra un ragazzo e una ragazza, una giovane coppia che lo affianca, scambiano qualche parola e, poi, senza alcun accordo, naturalmente, pedalando, gli fanno compagnia per gran parte del tragitto, in quella gita d’estate. La strada sale, si arrampica fra i monti, sempre più in alto, dapprima larga, spaziosa, si restringe, fino a diventare una lingua di terra, un sentiero. Solo a quel punto, il ragazzo e la ragazza rallentano, si fermano, capiscono che Monti vuole proseguire e, non immaginando dove sia possibile arrivare, da lì, in bicicletta, gli pongono solo una domanda: «Buona prosecuzione, ma adesso dove lasci la bici?». In realtà, da quella traccia, Alessandro Monti ha ben in mente varie destinazioni e, cosa più importante, tutte percorribili in bicicletta. Quella domanda lo sorprende, così scende di sella e, cartine alla mano, illustra ai due giovani i percorsi possibili: «Mi ascoltavano sorpresi, guardavano con attenzione i tragitti che indicavo e già questo mi ha fatto piacere. La cosa più bella, però, è che, quando ho iniziato a scalare, ho visto che restavano a fissarmi, come si fa con un amico che parte per un viaggio. Non solo, da lassù ho controllato più volte e vedevo le loro sagome, ancora lì. Passavano minuti e loro non se ne andavano. Sono convinto che torneranno a Bormio, faranno la strada che abbiamo percorso e, giunti a quella strettoia, proseguiranno. Non so se sia merito mio, di quelle spiegazioni, ma mi piace pensare che, forse, ora i loro viaggi avranno un orizzonte più ampio. Mi pare bello sapere che una strada non finisca dove pensavamo finisse».
Dal ricordo si torna al qui ed ora ed il qui ed ora è a Brescia, da Sportland Bike, in via Agostino Chiappa 19. Si tratta di una realtà affermata, prevalentemente in Italia, da molti anni, circa una decina, con almeno venti punti vendita che spaziano dal running, all’outdoor, ai più diversi sport, fino al ciclismo, proprio qui, in questi locali. L’aria di bicicletta potrebbe arrivare direttamente da due pannelli, retroilluminati, che rapiscono lo sguardo, entrambi a tema montagne. Da una parte è raffigurato il versante altoatesino dello Stelvio, i suoi tornanti, nel verde, dall’altro, invece, il “Monte Calvo”, il Mont Ventoux, da Malaussene, la pietraia spazzata da un vento feroce, più simile alla luna che alla terra, con, in cima, quella sorta di missile bianco e rosso, diretto verso chissà quale universo. Qualche minuto di conversazione e capiamo subito che l’aneddoto che abbiamo appena ascoltato ha a che fare con la storia di Sportland più di quanto si possa pensare: «Il tempo che passa ha effetto su di noi e su tutto ciò che ci circonda, anche sulle nostre passioni, sai? Alla fine diventano un’abitudine, qualcosa che costringe, che non si apre verso altre opportunità ma si chiude. Ad un certo punto, è come se si formassero delle incrostazioni su quel che ci piace e tutto si ingessasse, si bloccasse. Vorrei che Sportland aiutasse a prevenire questo rischio, che ci salvasse da quel momento, rinfrescando le passioni. Aprendo altre strade, esattamente come si fa sulle creste». Quella di Sportland, insomma, è una sorta di missione e le missioni, si sa, hanno un poco a che vedere con le visioni, le grandi idee, gli auspici, che ognuno porta dentro: «La mia- prosegue Monti- è quella di un mondo in cui il garmin, sulla bici, non mostri i numeri che tanto si inseguono, quelli legati alla prestazione, ma solo la traccia da seguire per andare dove si vuole, per vivere l’avventura che si cerca». A chi arriva da Sportland, Monti prova a spiegarlo, spesso facendo riferimento alla propria esperienza personale, arricchita da elementi globali e locali, «perché è bene conoscere il mondo e poi la tua realtà, la tua città o il tuo paese».
Racconta, ad esempio, di tutte le vacanze estive che da sei, forse, sette anni, vive in camper, partendo con la moglie verso varie destinazioni che, giorno dopo giorno, percorrono pedalando ed esplorando i dintorni: sul Mont Ventoux è stato di persona proprio in una di quelle gite. All’inizio, la bicicletta era solo un modo per rimettersi da un intervento al crociato, un consiglio dei medici, poi è diventata il mezzo attraverso cui conoscere luoghi e persone, alla velocità perfetta per ricordarle: una boccata di ossigeno, una scoperta totale: «Intendo questo quando dico che l’avventura da scoprire in bicicletta non è solo quella dei paesi lontani, sconosciuti. Ben vengano questi viaggi a migliaia di chilometri di distanza, nel mondo, ma per vivere l’avventura basta andare dietro casa, cambiare strada, svoltare nel bosco, poche decine di chilometri, passare dal centro storico di Brescia, uscire, verso i vigneti, le stradelle che se ne vanno, si perdono via, ancora il lago d’Iseo, il lago di Garda, quelle salite dove non c’è più il traffico, ma abeti, pascoli, le montagne o ancora la Franciacorta. Tutti quegli spazi che non hanno nulla a che fare con l’essere atleti, ma con il prendersi il proprio tempo e gustarselo».
Sono queste le voci che si sentono se si resta un poco ad osservare la vita del negozio. Il primo impatto, però, deve soprattutto essere un piacere per la vista: bisogna che il visitatore scopra il piacere di guardare quel che ha attorno, attraverso una buona illuminazione e un modo di esporre tranquillo, pacato. Si ha la possibilità di fermarsi a vedere una tappa di una corsa a tappe oppure una classica, in un luogo accessibile a tutti, di incontro e conoscenza. «Abbiamo voluto, tuttavia, che l’officina Shimano, laggiù, in fondo, staccasse completamente dall’atmosfera del locale. L’ambiente è ordinato, asettico, anche la luce ed il colore sono diversi. Il tutto è a vista e si focalizza sulla grande attenzione per i dettagli, la precisione, e sulla cultura e passione della bicicletta». Qui, la considerazione di Monti è quasi linguistica: pone, infatti, una netta separazione tra la passione, di cui parla spesso e di cui ci ha raccontato, e la professionalità, altro elemento centrale per chi sceglie il suo lavoro.
«Ci tengo a precisarlo, perché non bisogna lasciare le cose a metà. Essere appassionati è bello ed è fondamentale, ma, quando ci si ritrova a svolgere un mestiere, la passione non può bastare. Serve lo studio, la competenza e la professionalità. L’esempio lo faccio su di me: se dovessi portare in negozio solo quel che mi appassiona, probabilmente stravolgerei molte cose, ma, se lo facessi, durerei anche poco. Sono convinto che chiuderemmo presto. Allora si media, si cerca il compromesso». Il che significa, ogni tanto, introdurre qualche novità, qualche chicca, qualcosa che coniuga perfettamente questi due termini chiave, assumersi anche qualche rischio, perché non sempre le novità vengono comprese dal pubblico, però bisogna tentare. «Mi sono affezionato molto all’idea di conoscere ed incontrare persone che parlano un linguaggio simile al mio e, quando accade, mi sembra sempre speciale. L’empatia è parte di questo lavoro e si sviluppa così, incontrandosi e facendo in modo che sia il lato umano quello che prevale. Certo è una visione differente da quella prevalentemente sviluppata in Italia, una cultura differente, se vogliamo. Per me, un punto vendita è un posto in cui qualcuno può guidarti ad esplorare, può farti vedere qualcosa che non avevi ancora visto o che non immaginavi neppure. Magari ti sprona a farlo». Non serve molto: talvolta è sufficiente mostrare un libro, una rivista, una foto o un racconto che dica cose che non ci si aspetta e insinui così la voglia di cercarle nel prossimo giro in bicicletta per, poi, confrontarsi con gli amici e riscoprire quella bicicletta che conosci da decenni. Per il resto, spiega Alessandro Monti, chiunque può avere le informazioni tecniche ed i dettagli specifici di un determinato mezzo, per cui, pur se importanti, non possono essere queste le cose primarie che ricerca chi si reca in un negozio: «Le leggono su internet, su un catalogo, possono saperne anche più di noi. Ma quelli sono numeri, noi siamo persone e le persone hanno molto altro da dare».
Le persone, ad esempio, si fanno domande, si pongono dubbi, hanno timori e preoccupazioni. Per Alessandro Monti un pensiero è particolarmente rilevante: i ragazzi che si allenano, tre o quattro ore al giorno sulle nostre strade, esposti ai rischi che, purtroppo, ben conosciamo. «Certo che ci penso, è inevitabile, perché nel lasso di tempo di un allenamento può succedere davvero di tutto. Occorre una svolta perché il futuro della bicicletta deve essere sempre più ampio, deve poter spaziare sempre più, in ogni ambito della quotidianità». Il giro in bicicletta, infatti, riassume un piccolo mondo: «Esci in bicicletta ed incontri gli amici, chiacchieri, racconti una storia, ti fermi al bar, bevi una birra, vai a fare la spesa. Ascolti, conosci, pensi e pianifichi, torni a casa con nuove idee, magari la risoluzione di un problema che ti assillava da tempo. Cos’hai fatto? Semplicemente un giro in bicicletta, con la sua fatica ed il suo piacere».
Questa è un’altra avventura, di quelle a portata di mano, che chiunque può vivere e, forse, dovrebbe vivere. Un’altra occhiata a quei pannelli con lo Stelvio ed il Ventoux, un ultimo pensiero a quei ragazzi di cui Monti ci ha parlato all’inizio, la quotidianità di Brescia torna ad accoglierci. Anche noi, a nostro modo, oggi, abbiamo esplorato e scoperto.
Da Apeldoorn fino a Parigi: il punto della situazione
In questo inizio gennaio, come da recente tradizione, i ciclisti professionisti si sono divisi tra Spagna e Australia, per i ritiri e le prime corse della stagione, ma alcuni specialisti della pista hanno preferito i Campionati Europei su pista di Apeldoorn, Paesi Bassi, piuttosto che il caldo e le salite. Organizzare un evento come gli Europei durante il clou della preparazione della stagione su strada è significato dover ricevere qualche forfait, su tutti quelli di Viviani, Ganna e Tarling, impegnati in Australia, e di Dideriksen, che ha deciso di rimanere in ritiro con la sua Uno-X. Assenti anche gli atleti russi per una decisione delle autorità neerlandesi. Secondo il cittì Sergei Kovpanets, l’Unione Ciclistica Europea aveva garantito la partecipazione dei suoi corridori, per i quali la qualificazione olimpica è sempre più lontana. Infatti, in questi campionati continentali erano in ballo punti importanti in chiave Parigi 2024, ma i ticket olimpici saranno assegnati solo dopo le prove di Nations Cup di Adelaide, Hong Kong e Milton, quindi non sono da escludere ribaltoni dell’ultimo minuto.
Archiviate le polemiche su forfait ed esclusioni forzate, all’Omnisport di Apeldoorn la prima giornata di gare si è consumata senza grandi sorprese. Come da copione, ad assicurarsi le medaglie d’oro nella velocità a squadre sono stati i Paesi Bassi al maschile e la Germania al femminile. Nel regno indiscusso dell’Oranjetrio, composto da Van den Berg, Lavreysen e Hoogland, si sono fatti notare anche gli Azzurri di Ivan Quaranta, che hanno fatto segnare un nuovo record nazionale (43.497), che è valso il sesto posto finale. Ad essere decisivo per il salto di qualità è stato Mattia Predomo, finalmente schierato in seconda frazione dove può esprimere al meglio la propria potenza. Tuttavia, per la velocità a squadre italiana il percorso verso le Olimpiadi di Parigi è tutt’altro che facile.
Gli Azzurri si trovano al quattordicesimo posto del ranking olimpico, ben lontani dalla Polonia - bronzo ad Apeldoorn -, che occupa l’ottava e ultima piazza utile per Parigi. A rompere un digiuno che dura dalla qualificazione di Roberto Chiappa a Pechino 2008 non saranno neanche le due prime medaglie europee élite della storia della velocità italiana: Matteo Bianchi e Stefano Moro, entrambi molto lontani dalla qualificazione nelle discipline individuali.
All’Omnisport di Apeldoorn i due hanno conquistato rispettivamente l’oro nel chilometro - che non è parte del programma olimpico - e il bronzo nel keirin, due grandi risultati che però non devono illudere Quaranta e i suoi atleti. Nel chilometro, Bianchi, ventiduenne bolzanino in forze al Team Colpack, ha fatto registrare il miglior tempo sia nella fase di qualificazione (59.687) che in finale (1:00.272), ma al via era assente il neo recordman del mondo Jeffrey Hoogland, da anni su un altro pianeta. Più fortunoso, ma altrettanto degno di merito, il risultato di Moro. L’ex corridore di endurance, che ha virato da poco più di un anno sul settore veloce, ha fatto la propria fortuna seguendo meticolosamente e con grande intelligenza la ruota del polacco Rudyk, sia in semifinale che in finale. Una tattica rischiosa, che però ha dato i suoi frutti ed è valsa un bronzo contro un Harrie Lavreysen che si è preso gioco di tutti e ha vinto per più di mezzo secondo proprio su Rudyk.
Moro ha così migliorato il quarto posto di Predomo ottenuto all’Europeo di Grenchen dello scorso anno. Anche nella velocità individuale, Moro è riuscito a superare il promettente Predomo, che non ha ancora replicato le buonissime prestazioni fatte vedere nella velocità a squadre e non è riuscito ad andare oltre il diciassettesimo posto in qualificazione, registrando un deludente 9.983 nei 200 metri lanciati, per poi uscire al primo turno contro il ceco Topinka. Moro, invece, si è qualificato con il quattordicesimo tempo (9.942) ed è uscito solo al secondo turno contro l’israeliano Yakovlev, il quale ha poi strappato il bronzo ad Hoogland, tornando sul podio di una grande competizione internazionale, dopo tre anni e tante peripezie.
A vincere l’oro è stato il solito Lavreysen, qualificatosi nei 200 lanciati con il record della pista di 9.366, che in finale ha avuto la meglio su un sorprendente Rudyk. Al femminile, l’omologa del neerlandese è stata Emma Finucane, la quale però, oltre all’oro nella velocità individuale, si è dovuta accontentare di due medaglie d’argento nel keirin, vinto da Lea Sophie Friedrich, e nella velocità a squadre, vinta dal terzetto tedesco. La sprinter gallese è l’astro nascente della pista made in Britain - assieme a Josh Tarling nell’endurance maschile -, ma i suoi successi, tra cui spicca il mondiale di velocità vinto a Glasgow a soli vent’anni, sono solamente la punta dell’iceberg della rinascita della velocità femminile britannica iniziata sotto l’ala protettiva dell’australiana Kaarle McCulloch.
Ne è testimone anche l’oro di Katy Marchant nei 500 metri con i tempi di 33.252 in qualificazione e di 33.319 in finale, che sono bastati a mettersi alle spalle Kouame, Grabosch e l’italiana Vece. Tuttavia, a differenza delle sue colleghe, Marchant è l’ultimo rimasuglio di una generazione precedente, infatti accanto a lei nella velocità a squadre hanno corso la classe 1998 Sophie Capewell ed ovviamente la classe 2002 Emma Finucane.
Non solo velocità femminile, per la Gran Bretagna sono piovuti successi anche nell’endurance maschile. Dopo l’argento di Tidball nell'eliminazione - vinta da Tobias Hansen - nella prima giornata di gare, è arrivato il titolo nell’inseguimento a squadre. Il quartetto composto da Bigham, Vernon, Tanfield e Hayter ha superato in finale una Danimarca che sembrava quasi imbattibile dopo i primi due turni: non a caso il tempo fatto segnare dai danesi nella semifinale contro la Germania è stato di quasi tre decimi più basso del tempo con cui sono stati battuti in finale. I britannici guadagnano così punti di fondamentale importanza nella corsa al ticket olimpico, dopo che il disastroso Mondiale di Glasgow li ha trascinati fuori dai dieci quartetti virtualmente qualificati ai Giochi.
A completare il podio sono stati i campioni olimpici dell’Italia, orfani di Filippo Ganna, sostituito da Davide Boscaro alla luce dell’assenza di Manlio Moro, con una prestazione sicuramente migliorabile. È andata invece meglio al quartetto femminile, composto da Fidanza, Paternoster, Balsamo e Guazzini, che ha superato la Gran Bretagna in finale con il tempo di 4:12.551, prendendosi una bella rivincita dopo l’argento di Grenchen. Per le azzurre è una grande iniezione di fiducia in vista delle Olimpiadi, dopo l’addio di Rachele Barbieri e il deludente quarto posto di Glasgow. C’è però un’altra inseguitrice azzurra che ha sorpreso tutti all’Omnisport di Apeldoorn: Federica Venturelli. La classe 2005, convocata in extremis da Marco Villa, nell’inseguimento individuale ha centrato la finale per il bronzo, poi persa con il tempo di 3:27.475 contro la britannica Anna Morris. Una prestazione notevole, considerando che Venturelli era al primo test sulla distanza di tre chilometri: chissà se la diciannovenne cremonese entrerà nella rotazione del quartetto già in vista delle Olimpiadi di Parigi.
Non si può definire altrettanto positiva l’uscita degli uomini di Villa: il quartetto si è rivelato ancora una volta Ganna-dipendente e sono mancati i risultati anche nelle discipline di gruppo, in cui Consonni e Scartezzini non hanno replicato le prestazioni degli scorsi Europei e il giovanissimo Fiorin ha corso lo scratch - vinto da Leitão - solamente per fare esperienza. Proprio come Fiorin, un altro uomo del magico quartetto azzurro juniores detentore del record del mondo è stato lanciato nella mischia ad Apeldoorn, ovvero Luca Giaimi, neo acquisto della Uae Gen Z, che ha chiuso l’inseguimento individuale al dodicesimo posto con il tempo di 4:17.379, ben lontano dal vincitore Dan Bigham, che battendo in finale il connazionale Charlie Tanfield ha ottenuto il primo titolo internazionale individuale della sua carriera.
Ironia della sorte, questo primo successo dell’ex recordman dell’ora è arrivato proprio contro uno dei suoi compagni di squadra al Team KGF, la squadra di quattro dilettanti britannici - gli altri due erano Wale e Tipper - che nel 2017 vinse il titolo nazionale dell’inseguimento a squadre contro la nazionale britannica e diverse medaglie in Coppa del Mondo, rivoluzionando per sempre il modo di correre questa disciplina con le loro innovative tattiche. Nel 2017, in quella nazionale britannica era già presente il futuro vice-campione olimpico della madison Ethan Hayter, che ad Apeldoorn, oltre all’oro nel quartetto, ha conquistato il titolo europeo nell’omnium, battendo il danese Niklas Larsen in virtù del piazzamento all’ultimo sprint della corsa a punti. Il londinese, che su strada difende i colori della Ineos, si è così riscatatto dopo una deludente madison chiusa al settimo posto con lo scozzese della Corratec Mark Stewart, il quale dopo quest’ultima uscita difficilmente sarà il compagno di Hayter a Parigi.
La vera delusione dell’americana è stata però la coppia neerlandese composta da Havik e Van Schip, campioni del mondo in carica, che non è riuscita ad andare oltre all’ottavo posto. I padroni di casa avevano addirittura fatto anticipare la gara per poter partecipare alla Sei giorni di Brema, ma lì sono stati battuti dai neo campioni europei Reinhardt e Kluge, due leggende della madison tedesca che a Parigi tenteranno di coronare il proprio duraturo sodalizio con una medaglia. A differenza dei teutonici, i danesi si stanno avvicinando a Parigi lanciando una nuova strana coppia. La leggenda della pista Michael Mørkøv ha infatti corso tutto l’inverno con il classe 2005 Theodor Storm, neo acquisto della Ineos, e probabilmente lo vorrà al suo fianco anche nella sua ultima madison olimpica, malgrado i vent’anni di differenza tra i due. Consonni e Scartezzini, noni, non hanno brillato a differenza delle colleghe donne.
Guazzini e Balsamo hanno confermato il bronzo europeo dello scorso anno piazzandosi alle spalle delle francesi Fortin e Borras e delle belghe De Clercq e Kopecky. Per Lotte Kopecky questa è stata la terza medaglia europea della rassegna, dopo i due ori conquistati il sabato con una prestazione degna di una pluri campionessa mondiale come lei. La fuoriclasse belga ha prima vinto la corsa a punti piazzandosi in quasi tutti gli sprint e dopo neanche cinque minuti ha dominato l’eliminazione come solo lei sa fare. Due titoli europei in poco più di un quarto d’ora: fortunatamente Kopecky è la maglia iridata di entrambe le discipline e non ha dovuto perdere tempo per cambiare body!
Questi Campionati Europei non ci avranno detto chi tornerà a casa con una medaglia dai Giochi Olimpici di Parigi, ma senz’altro sono serviti per capire a che punto sono i pistard di tutta Europa: c’è chi è già pronto, come Lavreysen e Finucane; chi deve apportare ancora qualche miglioramento, come il quartetto danese; e chi deve dare il massimo nelle prossime tappe di Nations Cup per strappare una difficile qualificazione olimpica, come la velocità a squadre italiana.