Nos quedamos con lo bueno: intervista a Mavi Garcia

Le scarpe gliele aveva prestate suo fratello, come, del resto, la bicicletta, solo così Margarita Victoria García Cañellas poté partecipare alla sua prima gara di duathlon e vincerla, ma, in quegli istanti, nemmeno la sfiorava il pensiero della prestazione. Quella che la carta d'identità identifica come Margarita Victoria García Cañellas è, in realtà, per tutti, da vari anni, solo Mavi García, ora in Jayco AlUla, che, di quella competizione, in cui lei si dedicava alla corsa a piedi ed il fratello al ciclismo, ricorda, soprattutto, la sensazione legata a delle scarpe così grandi che il piede vi "ballava" all'interno. Non aveva una bicicletta e nemmeno scarpe adatte a correre perché da ragazzina sua madre la portava a fare ginnastica, a pattinare, mentre all'atletica si era sempre dedicato proprio il fratello: ormai, però, era circa nove anni che si era allontanata anche dal pattinaggio. Quella gara di duathlon e, poi, diverse uscite in bicicletta insieme ad amici del fratello stesso, che la "temevano" perché non avevano mai pedalato con una ragazza, per giunta così forte, mentre le scarpe erano sempre troppo grandi ed i piedi continuavano a navigarvi. Dovette presto capire che il ciclismo, probabilmente, era un suo talento da sempre, ma un talento che non avrebbe mai scoperto, se non per puro caso. Ben presto era la seconda del mondo nella disciplina individuale e la prima, considerando le squadre. In quel periodo, il training camp del team Bizkaia Durango, suggeritole da un amico, mostrava i suoi dati come ciclista, dati notevoli: «Vinsi la seconda gara a cui partecipai. Non sapevo ancora che la terza gara sarebbe stata la Freccia Vallone e sarebbe stato quasi un incubo. Del ciclismo non conoscevo praticamente nulla, stavo in fondo al gruppo perché mi intimoriva la sua "pancia" e ben presto quel timore sarebbe diventata una vera e propria paura». Mavi García si riferisce alla brutta caduta che la coinvolse in Argentina, all'ultimo anno in Bizkaia: picchiò la testa, restò traumatizzata da quel che era successo e, al ritorno in sella, si rese conto che quella paura la condizionava a tal punto da pensare di smettere per non stare così male ad ogni corsa.

Nei primi tempi, García faceva duathlon, atletica, ciclismo e continuava a lavorare nell'azienda di hotellerie in cui si occupava di contabilità da circa dodici anni. Successivamente grazie all'aspettativa, in Spagna denominata "excedencia", era riuscita a concentrarsi solo sullo sport: «L'excedencia permette di conservare il proprio posto di lavoro per almeno cinque anni, ovviamente non percependo più lo stipendio. Ogni anno, tornavo in azienda a firmare chiedendo altri 365 giorni e, poi, mi buttavo sull'allenamento per migliorare in tutte le discipline che praticavo. Decisivo è stato il momento in cui ho scelto di dedicarmi solo al ciclismo: lì i risultati sono fioccati ed il mio margine di crescita si è espanso di molto. Tutto assieme non si poteva più fare». Il 2018 è l'anno in cui Movistar le propone il primo contratto da professionista, è l'anno della conquista del suo primo Campionato Nazionale Spagnolo a cronometro ed è anche l'anno in cui García lascia definitivamente l'azienda in cui lavorava: «Ho sempre firmato contratti di un anno, solo ultimamente sono biennali, e, soprattutto all'inizio, credevo che sarebbe durata per due o tre anni, non mi aspettavo di certo di arrivare a quarant'anni ancora in sella. Ma, a parte questo, ho sempre fatto questa scelta perché nella vita si cambia e non potrei accettare di fare un lavoro in cui non mi riconosco più, soprattutto un mestiere complesso come quello della ciclista. Avevo paura, certo, come tutti in una situazione simile, anche in famiglia avevano dubbi, ma riconoscevano il mio talento e questo li ha spinti a incoraggiarmi in quella scelta».

Mavi Garcia (ESP - Liv AlUla Jayco) - Foto Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2024

In spagnolo si dice "nos quedamos con lo bueno" ed è la filosofia di Mavi: salvaguardare le cose buone, gli aspetti positivi, di quel che accade. L'ha applicata soprattutto l'anno scorso, una stagione in cui nulla girava come avrebbe dovuto e come avrebbe voluto: i risultati non arrivavano, ogni gara era un poco meglio o un poco peggio della precedente, ma non risolveva mai quel malessere persistente. «Stentavo a riconoscermi e non ne capivo il motivo: la mononucleosi, scoperta solo successivamente. Il risultato, nel ciclismo, ti permette di riprendere fiato, di vivere con serenità la gara successiva. Ogni volta mi dicevo che nella corsa successiva avrei fatto qualcosa di buono, non succedeva mai. Più il tempo in cui i risultati non arrivano si dilata, più diventa pesante, difficile da gestire, più pare impossibile tornare a fare risultato».

Mavi Garcia (ESP - Liv AlUla Jayco) - Foto Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2024

Così, anche lei che spiega di riuscire a gestire bene la pressione, almeno generalmente, e che sottolinea che gli obiettivi sono necessari per avere una direzione, ma, alla fine, dopo tutto il lavoro, non bisogna fare in modo che qualche traguardo non centrato possa mettere in discussione il percorso, rivela di essere particolarmente serena dopo il podio, terzo posto, centrato all'UAE Tour, ad inizio stagione: «Non pensavo ad un risultato di questo tipo, vuol dire che le cose stanno andando bene». L'anno scorso, dopo il secondo posto nel Campionato Nazionale Spagnolo a cronometro, ha avvertito intorno alla propria persona una delusione che non pensava di trovare: la sua storia con la maglia di campionessa nazionale ha origini lontane, quel 2018, per l'appunto, e l'ha spesso conquistata da sola, senza una squadra a sostegno, spesso con notevoli pressioni, per esempio quando la gara si è svolta a Maiorca, suo paese natale. «All'esterno sembra che per me sia facile, quasi scontato vincere, invece è dura, sempre più dura. Anche chi vince fa fatica, pure se è il più forte in corsa».

Spiega di essere cresciuta assieme al ciclismo, negli anni, e di essere contenta di aver potuto vivere questa crescita del movimento, l'unico neo potrebbero essere quei limiti posti alle squadre più piccole che, non raggiungendo il budget, resteranno escluse, però «ai molti passi in avanti corrisponde sempre qualche passo indietro, va accettato». Scalatrice, nei dintorni di Maiorca ha scalato non sa quante volte il Puig Major, una delle salite più lunghe della zona, ama il caldo, il sole di Maiorca e della Spagna che cerca invano in ogni parte del mondo e il mare che ha più che mai bisogno di vedere. Fra i momenti più belli della sua carriera ricorda la Strade Bianche del 2020, negli sterrati roventi dal sole d'agosto, superata solo da Annemiek van Vleuten, i più difficili, invece, fatica a trovarli. Non perché non ce ne siano stati, anzi, è la prima ad ammettere che sono stati molti, ad esempio quell'inizio di stagione in UAE Team Emirates, nel 2022, anno in cui centrò il terzo posto al Giro d'Italia, quando tutti si aspettavano da lei "Pogačar" in versione femminile, ma il suo voler salvare il buono le impedisce di restare fissa su quelli: «Quando le cose vanno male, tendiamo tutti a pensare che andranno sempre così. Forse è naturale, ma non è vero. Non andranno sempre male, miglioreranno o, comunque, cambieranno. Questa è la certezza che deve farci forti».


Tracce Bike Shop, Genova

Potrebbe essere una sera, una delle tante, in cui Genova ed il suo mare sono avvolti nel buio. Genova in un ritratto, come la narrava Giorgio Caproni, nella notte la pensiamo così: "Genova di solitudine, straducole, ebrietudine. Genova di limone. Di specchio. Di cannone. Genova da intravedere, mattoni, ghiaia, scogliere. Genova grigia e celeste. Ragazze. Bottiglie. Ceste. Genova di tufo e sole, rincorse, sassaiole". Le finestre delle case sono quadri illuminati e chissà cosa accade dietro le tende, mentre il mare è mosso. Chissà la felicità, la paura, la stanchezza ed i pensieri. Chissà il giorno che nascerà, il domani, ora dov'è, come suona o risuona alle orecchie, come si compone nell'immaginazione. Da qualche parte c'è Marco Bragagnolo, già nel letto, è una delle sere in cui il sonno non vuole arrivare, turbato da qualche preoccupazione: «Ti giri e ti rigiri nel letto, non funziona. Qualcuno conta le pecore in questa circostanza, ognuno ha i propri trucchi. Personalmente mi visualizzo in bicicletta, da solo, tranquillo, con una leggera brezza che mi viene incontro, magari sull'Alta Via dei Monti Liguri, dove compaiono i pascoli e la natura regna sovrana. Riempio questa situazione di dettagli e, lentamente, le braccia di Morfeo mi avvolgono». Qualcosa di simile allo stare sdraiati sul letto, occhi al soffitto, dopo il click che spegne la luce in camera, a pensare ad un amore per ritrovare serenità. La bicicletta è un amore per Marco Bragagnolo, un amore nato presto, forse un poco "immaturo", o solamente diverso, più forte, toccante, com'è nell'adolescenza, ed evolutosi negli anni, cresciuto con lui, migliorato come un buon vino, non più quel che "strazia", che toglie la fame, ma che si deposita e resta.

«Era un sentimento morboso, che, dapprima, aveva molto a che fare anche con l'estetica dell'oggetto bicicletta, che mi affascinava, mi ammaliava. Mi piaceva andare a pedalare e su quell'istante si è costruito quel che c'è ancora oggi, perché quando prendo la bicicletta percepisco qualcosa di simile ai superpoteri. A cinquantotto anni posso ancora alzarmi dieci metri sopra il terreno e isolarmi da tutto il resto, dimenticarlo, metterlo all'angolo. Non servono grandi giri, anche il bike to work è sufficiente». La prima bicicletta è quella acquistata con tutti i risparmi di un'estate di lavoro, ai tempi della scuola, quella che pareva bellissima, unica, invece, con gli occhi degli adulti e con lo sguardo di oggi, era davvero modesta, "un cancello", come si dice in gergo ciclistico. La prima mountain bike, invece, è arrivata all'inizio degli anni novanta, «quando prendevo e mi rifugiavo nei boschi a pedalare, per, poi, finire a fare portage, a portarla in spalla quella bici perchè, ad un certo punto, non avevo la forza per spingere sui pedali». Così, sulla terra, c'erano le orme della sua camminata e le tracce incise di quei copertoni. Traccia è una parola chiave, in questa storia, non solo perché "Tracce Bike Shop" è il nome del negozio di Marco, in via Monte Grappa 26r, a Genova. Si tratta di una parola importante perché può essere declinata in più modi: traccia come segno, come orma, come percorso da seguire, come indizio di un qualcosa da cercare, come ispirazione. Proprio per questo motivo Marco è legato a quel nome anche se, a dire il vero, non l'ha ideato lui, bensì il suo socio dei primi anni di attività, all'inizio degli anni duemila, «in un vero e proprio buco di trenta metri quadrati, con officina e abbigliamento all'interno». Bragagnolo aveva iniziato a lavorare in una videoteca e, nel tempo, anche quella era diventata una passione, ma il richiamo del primo negozio di biciclette a Genova era irresistibile: così forte da recarvisi sempre per dare una mano, appena poteva, ma i tempi non erano ancora maturi. Giusto qualche anno, la cessione della videoteca, un lavoro da rappresentante e questa nuova realtà che permetteva a quelle farfalle nello stomaco di trasformarsi in un mestiere, con al centro la mountain bike ed il gravel di cui Bragagnolo si prende cura da tanti anni.

«La videoteca aveva fatto germogliare una passione, un interesse, che prima non c'era. Nel caso delle biciclette è accaduto esattamente l'opposto: la passione ha costruito quel che c'è oggi. Non è facile perché la passione è un filo ossessione, tormento, qualcosa che non ti molla mai, che non ti concede respiro. Da quando lavoro con le biciclette, il mio mondo è tutto concentrato qui, pedalo molto meno, ogni tanto mi manca. Sono un lavoratore autonomo, lo sono sempre stato, e come tale non ho altra scelta che prendere il lavoro che c'è, anche se sono stanco, anche se è il periodo delle ferie. Non si va via finchè non è finita: la mia dimensione del dovere è questa». Nel 2007, il negozio viene ingrandito, ma quello che vediamo oggi è nato nel 2015: siamo sopra la stazione Brignole, il locale è esteticamente piacevole, non ci sono arredi standard, bensì molta artigianalità, oggetti pensati e realizzati da chi vi lavora, le lampade, ad esempio, costruite con vecchie ruote libere. Nel periodo dei lavori, della ristrutturazione, il negozio è restato chiuso solo dieci giorni e, se qualcuno fosse passato di lì, avrebbe visto proprio Marco ed i suoi dipendenti, la sua famiglia, a progettare, montare, smontare, ripulire, dopo aver girato per paesi e città e aver osservato altri negozi simili, qualche "bike cafè", per raccogliere idee ed imparare. «Lo dico con fierezza ed un certo orgoglio: ovviamente non potevamo occuparci noi dei quadri elettrici, i professionisti erano necessari, ma direi che circa l'80% dei lavori è stato eseguito da me, parenti e amici. Qualcosa di simile ai tempi dell'alluvione». La ferita che si cela dietro il ricordo dell'alluvione è profonda, sottolineata da un inciso spiazzante e sincero: «Era già successo nel 2011, è ricapitato nel 2014. Ricordo come ora un dialogo con l'unico dipendente che avevo in quel periodo, che mi aveva anche aiutato nella strutturazione del locale: è stato il primo a dirmi che dovevamo cambiare luogo, andare via da lì». Quel signore sapeva che Marco da molte notti non dormiva più, controllava il cielo e, se qualche goccia d'acqua cadeva a terra, restava a controllare, temendo l'ennesimo disastro.

Eppure, anche dopo l'alluvione del 2014, Tracce Bike Shop è ripartito e Bragagnolo ha progettato il nuovo negozio come mai aveva fatto prima, con una cura al dettaglio e al particolare che avrebbe ben potuto essere spazzata via da quell'acqua a fiotti e dal dover ricostruire tutto da capo, così chiedere "perché" viene spontaneo: «Il fango e la terra da quei locali non li abbiamo tolti da soli, sono venute tante persone ad aiutarci: amici, clienti, conoscenti, che non hanno esitato a sporcarsi le mani per noi. Abbiamo scoperto una vicinanza che non ricordavamo, che, forse, nemmeno sapevamo di avere. Quei sentimenti che si manifestano nei momenti più difficili. Allora siamo riusciti a trovare la forza per ripartire». A Genova, dove probabilmente il genovese puro non c'è nemmeno più, ma le sue caratteristiche, quelle stereotipate che strappano un sorriso, sono ben riconosciute e riconoscibili, oltre ad essere sintetizzate da un detto: “Sono di Genova, rido poco, stringo i denti e parlo chiaro" . A Genova, dove la bicicletta sta divenendo sempre più un mezzo di trasporto, dove si sono ampliate le ciclabili e si è investito su un nuovo tipo di mobilità, dove il clima è mite, la neve non c'è praticamente mai, e la natura è dietro al mare, ma la convivenza con gli automobilisti continua ad essere complessa e per quella serve solo il tempo, la cultura ed il reciproco rispetto, in un settore, quello delle biciclette, che, come dice Marco, ha ancora un mercato immaturo ed in periodi di difficoltà, come gli ultimi tempi, questo emerge: «Se dovessi narrare il mio lavoro tramite le soddisfazioni economiche, ti direi di lasciare perdere, di cambiare discorso. Invece non te lo dico, perché per descrivere il mio lavoro non c'è altro di meglio di raccontarti che, nonostante i sacrifici, le rinunce, non trovo, nemmeno nel pensiero, un mestiere in grado di farmi stare meglio e rendermi più felice di quanto lo sia oggi. A questo potrei aggiungerti la voglia di imparare, senza cui non avrebbe senso essere qui. Senza l'umiltà di cosa staremmo parlando?».

Da questa percezione deriva il bisogno, la necessità costante, di imparare, soprattutto rispetto alla bicicletta, un oggetto, un mezzo di cui la conoscenza difetta ancora oggi, pur con tutte le differenze date dalle varie tipologie di bici: la mountain bike, ad esempio, spiega Bragagnolo, è più un "gioco", "alla buona", qualcosa di rustico, diversa, in questo, dal professionismo su strada. In comune c'è sempre il senso di comunità, pur in qualcosa che è e resta molto personale, anche intimo, se vogliamo, perché l'esperienza in bici è, di fatto, qualcosa di unico per ciascuno. La possibilità di stare insieme deve diventare una chiave di lettura costante quando si parla di ciclismo: «Ci sarà sempre un negozio che avrà prodotti migliori, che venderà di più, a cui, in questo senso, non ci si potrà nemmeno raffrontare, perché se ne uscirebbe sconfitti, ma non deve essere questa la gara. Tracce vorrà organizzare sempre più eventi, incontri, permettere lo svilupparsi di quel dialogo, di quell'empatia, sempre difficile da raggiungere, anche perché i genovesi sono abbastanza freddi, diffidenti, devono conoscere prima di aprirsi. Ma è un fatto generale, l'empatia è essenziale per questo lavoro e per ogni rapporto umano che abbia una base solida, noi intendiamo dare questa interpretazione al nostro mestiere». Marco Bragagnolo torna con il ricordo ad una pedalata prima di Natale, organizzata dal negozio, che ha avvicinato molte persone in un momento no, è questo che intende: ritrovarsi e stare meglio. Ognuno con una propria lettura del ciclismo, per questo in "Tracce" ci sono quattro diverse generazioni a lavorare, sino ai più giovani, perché ciascuno traduce a proprio modo l'esperienza dei pedali e così la trasmette.

Ora la sera è davvero calata: "Genova città intera. Geranio. Polveriera. Genova di ferro e aria, mia lavagna, arenaria. Genova città pulita. Brezza e luce in salita". In una camera, appena spenta la luce, qualcuno starà prendendo sonno e chissà che non pensi a un viaggio in bici, come Marco Bragagnolo da tanti anni a questa parte.


Il questionario cicloproustiano di Matteo Fabbro

Il tratto principale del tuo carattere?
Diretto e deciso.

Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Onestà.

Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Il carattere.

Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Umorismo.

Il tuo peggior difetto?
Testardo.

Il tuo hobby o passatempo preferito?
Cucinare.

Cosa sogni per la tua felicità?
Il benessere mio e della mia famiglia.

Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Perdere qualcuno.

Cosa vorresti essere?
Vorrei essere il vento.

In che paese/nazione vorresti vivere?
Italia.

Il tuo colore preferito?
Blu.

Il tuo animale preferito?
Mangusta.

Il tuo scrittore preferito?
Tolkien e Coelho.

Il tuo film preferito?
American Pie.

Il tuo musicista o gruppo preferito?
883.

Il tuo corridore preferito?
Peter Sagan.

Un eroe nella tua vita reale?
Nessun eroe.

Una tua eroina nella vita reale?
Nessun eroina.

Il tuo nome preferito?
Fari (soprannome).

Cosa detesti?
Scarafaggi.

Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Nessuno.

L’impresa storica che ammiri di più?
Annibale e gli elefanti.

L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Sagan al Fiandre.

Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Giro d'Italia.

Un dono che vorresti avere?
30 cm in più di altezza.

Come ti senti attualmente?
Bene ma non benissimo.

Lascia scritto il tuo motto della vita:
"Volere è potere".


Un fattore esaltante, catalizzante

Lo conosciamo così e in nessun altro modo. Quando sta bene, in bicicletta vuole solo andarsene. Il gusto dell’avventura solitaria è il motore che lo spinge, le sue azioni sono paragonabili alla sete di conoscenza. Conosce e ama questo sport, Tadej Pogačar, assorbe e ogni anno si rimette in gioco. Ogni anno e in ogni corsa. Conosce il piacere che provocano le sue azioni, anche qualche prurito, si sa; è ben cosciente di come lui e pochissimi altri abbiano in questo momento in mano il potere di trasformare l'idea in forza catalizzatrice per rimettere il ciclismo al centro del discorso. In Italia è complicato, se non impossibile, ci si può provare, ma i risultati sono scarsi: sono ormai più di vent’anni e non sono bastati un paio di ottimi corridori come Nibali e Ganna a rilanciare, il dopo Pantani è questo. Noi Pogačar, dalle nostri parti, lo abbiamo visto - Strade Bianche - lo vedremo fra qualche giorno - Milano-Sanremo - e poi ce lo godremo tutto al Giro d’Italia, dove, imprese come quelle di settimana scorsa alla Strade Bianche saranno gioia e dolore della Corsa Rosa. Rischierà di ammazzarla, ma allo stesso tempo sarà un fattore esaltante, catalizzante, sarà un gesto di spessore vedere il suo atto carnale in sella alla bicicletta. Il suo sorriso, anche, come successo verso Siena, anche perché la sua sofferenza l’abbiamo già percepita al Tour contro Jonas Vingegaard Hansen: avrà pensato come sia meglio prendersi tutto il prendibile da subito, poi al resto ci penserà, ci penseremo. Lui, van der Poel, Evenepoel, van Aert, nessun altro (non ce ne vogliano il pur fortissimo Pedersen, il ritornante Bernal), sono loro che bramiamo vedere correre, sono loro che hanno spinto il ciclismo di nuovo in alto, che ci fanno maledire le dirette che partono alle 14 invece che tre ore prima. Abbiamo pensato: vi sareste immaginati se il gruppo fosse andato un po’ più forte alla Strade Bianche prima di imboccare Sante Marie? Ci saremmo persi l’attacco di Pogačar, per l’anno prossimo bisogna porre rimedio in qualche modo. Tuttavia, Pogačar. Uno che ama e rispetta il ciclismo, che a volte sembra prenderci per i fondelli, che scherza così tanto da sembrarci quasi costruito, ma in realtà lui è questo. Uno che fra qualche giorno, alla Milano-Sanremo, potrebbe pure inventarsi qualche diavoleria atta a negare il canovaccio. Uno come Pogačar. Unico. Come quando prende e parte, se ne va.