Una specie di nuova carriera: intervista a Michael Valgren
Tra i momenti più emozionanti di questo Giro non si può non segnalare il commosso arrivo di Michael Valgren a Lucca. Il corridore danese, tra i più importanti interpreti delle classiche dell'ultimo decennio, è infatti al rientro sui grandi palcoscenici dopo un devastante infortunio. Una caduta in discesa alla Route d'Occitanie del 2022 infatti gli procurò una frattura del bacino, la lussazione dell'anca e la rottura del menisco e di entrambi i legamenti crociati, anteriore e posteriore, costringendolo a una lunghissima e faticosa riabilitazione. Lo scorso anno la sua squadra, la EF, lo retrocesse alla formazione Continental per farlo correre senza assilli; ora è nuovamente qua, e al Giro ha trovato la fuga giusta e un grande piazzamento (2°) proprio sulle strade di Lucca, dove aveva vissuto un anno ai suoi esordi.
Buongiorno, Michael. Ci possiamo salutare in italiano, direi.
Sì, il mio italiano è un po' arrugginito, ma questo l'hai capito: buongiorno.
Ci sono altre espressioni italiane che ricordi e magari usi.
Ci sono, sì, ma sai, le cose che so dire in italiano non sono esattamente belle parole, non credo che vorresti registrarle (ride).
La tappa di Lucca ha rappresentato un giorno importante ed emozionante per te. Come hai vissuto quei momenti?
Per me è stato un grande passo per rientrare in serie A. Soprattutto a Lucca, dove ho vissuto un solo anno ma ho splendidi ricordi. Fu un momento speciale, era il mio primo anno tra i professionisti. Conoscevo ancora tutte le strade che abbiamo fatto, siamo passati da una strada in pavé che era la strada preferita di Chris Anker Sørensen (ex corridore danese, scomparso nel 2021, compagno di Valgren alla Tinkoff nel 2014-2015). Entrare a Lucca è stato un momento ricco di grandi emozioni. Sono felice di esserci arrivato facendo del mio meglio.
Ti senti come se stessi cominciando una nuova carriera, a 32 anni?
Sì (ride), una specie di nuova carriera. Credo di avere ancora qualcosa da dare, e finalmente l'ho dimostrato. Ho vissuto anni difficili, ma credo di avere ancora dei bei risultati da raggiungere.
Dove hai trovato le energie per uscire da questo calvario?
Beh, quando sei lontano dal ciclismo ti rendi conto di quanto lo ami. Così quando ero distante ne sentivo davvero la mancanza, desideravo rientrare in questo "circo", che a volte è una specie di grande confusione ma io lo amo. Mi piace stare in giro, mi piace anche la mancanza della mia famiglia, perché quando torno a casa l'emozione è ancora più grande. Riconosco che è una vita un po' da pazzi, ma non riesco a vedermi senza.
Tu provieni dal Thy, l'area dello Jutland da cui viene Jonas Vingegaard, con cui hai condiviso anche il lavoro nella famosa industria ittica in gioventù. Che parole useresti per sostenerlo nel suo recupero, così come per incoraggiare altri ciclisti vittime di incidenti così gravi?
Sono cose che possono accadere a chiunque, non è questione di ciclismo. Anche nella vita ordinaria ci sono infortuni o malattie, quindi credo che commiserarsi vada bene per un po', qualche volta, ma poi è importante allargare lo sguardo e rendersi conto che c'è chi sta peggio. E continuare a lottare, a crederci, perché le cose miglioreranno.
Tu hai uno strano soprannome, Dolle, cosa significa?
In realtà non significa nulla. È un'azienda che produce scale in legno per case, tipo belle scale a chiocciola, e sponsorizzava una squadra di calcio del mio paese. Così quando ci giocavo portavo questa maglia con scritto DOLLE sulla schiena, e qualcuno ha cominciato a chiamarmi Dolle per via di quella scritta. Poi non so come sia successo, ma il soprannome è rimasto.
Hai già dei programmi post-Giro? Qualche celebrazione particolare?
Non lo so. Devo ancora pensarci.
E quando potrai andare in vacanza?
Non lo so. Potrei fare il Tour de France, forse, non si sa mai, ma sarebbe una bella vacanza. Però un giorno io e mia moglie vorremmo affittare un camper e esplorare un po' la Danimarca. Mi piacerebbe andare insieme a Bornholm, l'isola da cui arriva Magnus Cort. È un posto dove sono già stato da solo, ma mai insieme, sarebbe bellissimo.
Ritorno alla collina valbormidese
È il primo giorno di riposo al Giro d’Italia. Vale dunque la pena tornare un po’ indietro alla quarta tappa, quella da Acqui Terme ad Andora vinta da Merlier, per parlare di una facezia. Una piccolezza da giorno di riposo, appunto. Nella parte centrale si attraversavano gli Appennini tra Piemonte e Liguria, con un ricciolo non richiesto ma apprezzabile sul colle del Melogno. Tra Cairo Montenotte, Carcare e Millesimo il percorso di tappa passava vicino a un posto leggendario del ciclismo.
Vicino, non davanti: è un grande peccato perché Cosseria (località Bosi) è una zona remota della val Bormida, ma la tappa passava davvero lì sotto. E comunque non hanno pensato di fare una deviazione per il museo, che non è uno dei tanti. Si trova nei locali della vecchia scuola elementare del paese e contiene la collezione privata di Luciano Berruti, morto sette anni fa. Il suo nome è ora scritto sull’asfalto davanti all’ingresso del museo, portato avanti dai figli Leszek e Jacek. Il primo ci accoglie dopo aver salutato in polacco (lingua che conosce per via della nazionalità della madre) un paio di meccanici della Visma | Lease a bike. Anche all’estero è dunque nota la fama di Luciano Berruti, il più famoso corridore dell’Eroica, la baffuta leggenda che pedalava su bici antichissime, tanto che il suo soprannome era “l’Eroico”.
«Io posso dire che era mio papà» sorride Leszek quando gli chiediamo chi era Luciano. Pian piano, Berruti divenne il volto dell’Eroica, il signore coi baffi che pedalava su bici vecchissime. Entrando, sono appese magliette d’epoca su ogni parete, «lui le voleva così, disordinate come sono i ciclisti in gruppo». La stanza è enorme e contiene anche documenti cartacei come fascicoli dello Sport Illustrato degli anni Cinquanta o il primissimo Garibaldi, datato 1909. Mentre mi guardo in giro come se fossi entrato nel paese delle meraviglie, Laszek parla di un manifesto raffigurante Lucien Petit-Breton e Napoleone.
C’è la famosa Peugeot del 1907 di Luciano, con cui ha corso due Parigi-Roubaix, «una allungando pure il percorso. Poi ci ha fatto anche Mortirolo, Mont Ventoux, Colle delle Finestre e altre salite mitiche» dice sempre Laszek. E una bici Bianchi del celeste primigenio, quella di Bottecchia al Tour de France, una coi chiodi nascosti nel manubrio: queste e altre mille storie, tutte in un unico posticino sulla collina valbormidese. Un posto che non può non interessare a chiunque segua il ciclismo, e – pur consapevole dell’evidente sproporzione – se non interessa alle corse professionistiche beh, allora scrivo io, qui in poche righe, di passarci da Cosseria e passare ore là dentro.
Napoli è mille colori
«Napule è mille culure» cantava la voce di Pino Daniele e, ad un tratto, sospirava «Napule è mille paure». Le dita a pizzicare le corde di una chitarra dal suono perfetto, in cui, però, percepiva sempre la mancanza di un qualcosa. Napoli è un senso della poesia che scappa dalle parole, mentre una ragazza, sul lungomare, si chiede perché i cento chilometri del giro della costiera si compiano sempre in senso orario, e qualcuno le risponde: «Perché altrimenti vedi troppo il mare e, se vedi così le acque del mare, ti distrai». Quella ragazza è Alessia Vigilia, ciclista di mestiere: una voce parlata, non cantata, dall'altro capo del telefono, mentre la televisione trasmette le immagini della nona tappa del Giro d'Italia, da Avezzano a Napoli ed il mare, in quel senso, viene lasciato sulla sinistra, abbandonato in un cono di sguardo, in un pensiero. Napoli è una mancanza, anche per lei: una voce di padre, Ciro, il suo nome, che racconta Diego Armando Maradona e pare una storia della fantasia, invece è una storia del passato, realmente esistita, mentre i ragazzini giocavano a pallone per la strada. Napoli è andare via assieme, ovunque si vada: simile a Andrea Pietrobon e Mirco Maestri, in fuga, soli ma non soli, anche se non c'è nulla.
Sono quelle persone per strada, ovunque, anche lontano dal gruppo, anche lontano dal mare, su un cavalcavia, che attendono l'ultimo corridore, poi si voltano e vedono il gruppo andarsene, lasciare la loro compagnia, lo ritroveranno chissà dove, forse, sempre con il vestito della festa e i pantaloni poco sopra delle ginocchia sbucciate, giocando in un prato lì accanto. Lo ritroveranno come hanno ritrovato Napoli, quando l'hanno lasciata, sapendo che vi avrebbero fatto ritorno, perché certe volte bisogna andare via, anche se non si vuole. "Chi tene 'a mamma è ricco e nun 'o sape": da queste parti non lo dicono solo oggi, è una certezza a cui aggrapparsi in un giorno difficile, uno di quei vecchi detti che facevano affidamento su ciò che bastava quando non c'era niente altro. È il profumo dei limoni che Alessia Vigilia non può descrivere e basta questo per aver voglia di immaginarlo, è quello dei canditi sulla pastiera portata a tavola dalla zia, è l'aroma della "pummarola", il colore rosso dei pomodori nutriti dalla terra.
Julian Alaphilippe ed il suo scatto hanno qualcosa dell'anima di Napoli, di quei contrasti di cui ci racconta Vigilia. È la cultura di cui parla, ad ogni angolo della città, dove ci si stupisce e si resta a farsi domande. Di quel dare tutto pure se dopo ci si fa male. Alaphilippe è più vicino che mai a Napoli quando un ragazzo, non appena viene raggiunto e si arrende al gruppo, sfilando in coda, gli cammina accanto. Non ha corso con il gruppo, non con Narvaez che è appena scattato, ha corso con lui che anche oggi ha messo tutto e non è bastato. «Stanno gridando, esultando, incitando e lo fanno perché sono così, non importa chi tu sia, è il loro entusiasmo, il loro calore. Lo farebbero con chiunque». Il contrasto è tra i primi e gli ultimi, il contrasto è tra chi ce la fa al primo colpo e chi resta staccato e deve riprovare, tra i momenti felici e la malinconia: le lacrime di Clarke, lo scorso anno, l'abbraccio di De Marchi, la vittoria di De Gendt, in fuga, la beffa di Narvaez, in fuga anche lui, ma con un diverso destino. Napoli è anche quel che non è facile, la difficoltà, le ferite, perché nemmeno la meraviglia è cosa semplice, nemmeno la meraviglia è perfezione, la cura, come preoccupazione e attenzione. Le paure, sì, le stesse paure di Pino Daniele, la stessa voglia di aggiungere ancora qualcosa alle note di quella chitarra. I mille colori di Napoli non sono solo colori: non è solo il cielo blu ed il mare che lo imita, non è solo il Vesuvio maestoso là in fondo e Capri che si lascia intuire. I colori sono sensazioni: la gioia di Ciro che martedì vedrà il Giro partire da Pompei ed il sollievo di Alessia, una ciclista che sorride di gusto mentre dice che "ci sono sempre più persone che vanno in bicicletta e questo è bello, così bello da far bene". Napoli è Tadej Pogačar che spiega che i suoi compagni fanno già tanto per lui e lui non è il miglior ultimo uomo, ma lo doveva a Molano: è fare il possibile.
I colori, quelli dei pastelli e delle tempere, sono quelli del gruppo, dei treni dei velocisti, puzzle variabili. Narvaez, venuto dal freddo, per poco non vinceva dove il caldo è clima e modo di essere, venuto dalla montagna per poco non vinceva al mare e, forse, avrebbe detto qualcosa del Vesuvio, si sarebbe fermato ad osservarlo qualche secondo in più. Lo ingabbia lo sforzo di Simone Consonni per riportare sotto Jonathan Milan, che parte forse presto e viene a sua volta beffato da Olav Kooij e dalla sua maglia gialla della Visma-Lease a Bike: pallido, nulla a che vedere con il sole che disegna la pelle a Napoli, pallido, simile al ghiaccio, dove pattinava. Napoli, adesso, è una festa: un guantino di un ciclista che fa la domenica quello che la domenica dovrebbe essere, che era per i nostri nonni probabilmente, un tramonto di maggio che fa pensare a quando si dovrà partire e alla sera in cui si potrà tornare. Napoli è la voce di Alessia Vigilia che, lontano, è contenta anche solo per averne potuto parlare. Punto e basta. Ma non basta, lo sappiamo.
Foto: SprintCyclingAgency